PRIMA PARTE

I love NY?

Emozioni, impressioni e considerazioni a partire da una città-simbolo
Maurizio Mazzetto

Lunedì 10 giugno

Premessa. La prima e l’ultima “tappa” di ogni viaggio.
Aeroporto di Venezia

L’idea di un viaggio negli Stati Uniti non è stata mia, bensì di colui che mi ha invitato ad andarlo a trovare: il pastore presbiteriano, in pensione, Frank Gibson, residente ora in Colorado con la moglie Maria, di origini vicentine. A mia volta ho rivolto l’invito a venire con me ad Emanuela, di Pax Christi Vicenza.
“Egli (Dio) ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio” (2 Cor 1,4): così ascoltiamo oggi nella Parola di Dio. Io credo che ogni rapporto di amicizia, nella misura in cui cresce di qualità, diventa una “consolazione” di Dio. Perciò anche questo viaggio sarà, per me, una esperienza di “consolazione”. Spero lo sia stato anche per Frank, con il quale condivido la stessa fede ed il medesimo impegno. Non solo in quanto pastori dell’unica Chiesa di Dio, ma anche come credenti e cittadini che cercano di vivere la loro vita “nel mondo senza essere del mondo” (Gv 17,16).
“Io mi glorio nel Signore:/ i poveri ascoltino e si rallegrino” (Sl 34,3): con tali parole ci invita a pregare il Salmo di oggi. Don Tonino Bello aveva fatto di questo versetto il suo motto episcopale. Ora io penso che ogni viaggio che compiamo, ogni “visitazione” che intraprendiamo, come quella che mi accingo ad iniziare - così come, a dire il vero, ogni altra esperienza di vita - dovrebbero avere come tappa prima e ultima, cioè come finalità, che “i poveri ascoltino e si rallegrino”. Vale a dire che tutto ciò che facciamo deve rendere più visibile un progresso nel campo della giustizia e della pace. Mi auguro che anche questo viaggio serva, in diversi modi e nei diversi luoghi, a questo scopo.
“Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: ‘Beati i poveri....’” (Mt 5,2). La pagina del Vangelo odierno, chiamata la “magna carta” del cristiano, sia sempre presente davanti ai miei occhi e al mio cuore nei prossimi giorni. E proprio qui, in quella che per tanto tempo è stata definita “la terra dell’abbondanza”: ma forse, o senz’altro, non per tutti e non a favore di tutti, nel mondo.

In volo con la guerra
“La priorità della DELTA è la sicurezza”. Così iniziano i “messaggi” che mi arrivano in questo viaggio e che cercherò di captare. Non si sa se siano più utili agli uomini di oggi o ai poteri di oggi. Anche in volo, come a terra, la sicurezza è, in assoluto, il valore più ricercato. La Compagnia Aerea lo riprende e lo lancia ai passeggeri saliti a bordo. La sicurezza al primo posto! Per scoprire di quale sicurezza si tratti basta che io faccia attenzione a ciò che vedo attorno a me.
Infatti, sedutomi al mio posto, poco dopo il decollo, osservo quali tipi di film iniziano a guardare, nel loro piccolo schermo che sta di fronte al sedile di ciascuno, le persone che mi sono davanti o a fianco.
Il primo sta guardando un film d’azione... o, meglio, di guerra. “Cominciamo bene!”, dico tra me e me. Osservo qualche scena, in modo sufficiente per rendermi conto che il film è ambientato nei Paesi arabi, dove gli americani – che senz’altro sono lì “per esportare la libertà e la democrazia”... – sono presi di mira da diverse persone che sembrano avercela con loro. Si protesta e si bruciano le bandiere americane. Mentre i soldati statunitensi cercano “i terroristi” (o i capi degli oppositori?). Le foto dei ricercati appaiono nel tabellone del comandante dell’esercito; quindi, nelle scene successive, si fa irruzione nelle case per scovarli. E così via.
Il signore seduto di lato, nella parte centrale del velivolo, sta guardando, invece, un film-commedia, di quelli in cui la violenza è vissuta nei rapporti di coppia, in quella che una volta veniva chiamata la “guerra dei sessi”. Battibecchi, piccole o grandi schermaglie, ripicche e tutto ciò che costituisce il quotidiano di tante, troppe, coppie, è messo in vista.
La persona che ho accanto, diversamente, si dedica a un giochino. Quasi me ne disinteresso: la violenza qui non c’entra, credo. Ma poi, volendo assicurarmi che la mia osservazione a 180° sia davvero esatta, senza dare nell’occhio, ogni tanto, nel girarmi, sbircio meglio, e scopro, infatti, che... si tratta di un gioco di guerra.
Infine, non rassegnandomi e un po’ sconsolato, getto lo sguardo un po’ più avanti, e noto, finalmente e con soddisfazione, che un passeggero sta guardando un documentario. Di quelli soliti, ambientati in Africa, fra ghepardi, tigri e leoni. Dove vi è un’alternanza perfetta di immagini: da una parte è mostrata la tenerezza delle madri che accudiscono e leccano teneramente i cuccioli, dall’altra le dure scene di caccia, soprattutto alle antilopi. Insomma: la lotta per la sopravvivenza, tra dolcezze e crudeltà. Qualcuno vorrebbe giustificare la violenza nel genere umano come espressione di questa lotta, ma costui confonde l’istinto di difesa e l’aggressività (necessarie per la vita) con la violenza e con la guerra (tipiche della storia umana;... o della preistoria?).
E io, cosa sto guardando? Il documentario, per primo! Così rifletto sulla distinzione di cui ho appena scritto. E poi, finito il documentario (le ore di volo son tante)? … “Alice nel paese delle meraviglie” (nella versione cinematografica di Tim Burton)! Qualcuno non si sorprenderà, conoscendo la mia passione per la letteratura per ragazzi. Tanto più che in molti “classici” di questa letteratura sono rintracciabili chiari elementi di verità.
Desidero soffermarmi, infatti, brevemente, sulle prime scene del film (e del libro che l’ispira). La bambina Alice, inseguendo un buffo coniglio, precipita in un profondo buco (nel linguaggio psicologico, si direbbe: nel sé; in quello spirituale: nella propria anima). Quindi, giunta in un luogo chiuso e scorta una sola piccola porticina attraverso la quale uscire (per scoprire, poi, inaspettatamente, un mondo meraviglioso che la farà crescere fino alla maturità; un mondo in cui convivono in armonia uomini e animali, anzi dove spesso sono gli animali che salvano l’essere pulpito umano, anche “il malvagio”, e che lo riportano al consesso fraterno), è chiamata a bere una pozione e a mangiare un cibo che le permettono di rimpicciolirsi, e, quindi, di passare per quella “porta stretta”.
Insomma, è chiaro: diventare piccoli e umili – vicini, cioè, alla terra – per crescere veramente: questo l’insegnamento. Non aumentare ma diminuire. Anche le ricchezze e le armi vanno diminuite, così come le nostre ambizioni e pretese, presunzioni e sensi di superiorità. Non è, infatti, la bramosia di potere e di dominio ciò che sta all’origine di ogni forma di violenza e di sopraffazione, e che ci impedisce, in tal modo, di raggiungere quel mondo riconciliato cui tutti aspiriamo?

Lunedì 10 giugno: in un Seminario veramente ecumenico

Atterrando a New York, provo una certa emozione: è la mia prima volta nel Nord America! Dopo i viaggi in Sud America (Brasile nel 1987 e Perù nel 2011) e Centro America (Nicaragua, Honduras, Salvador, Guatemala nel 1989).
La mia prima volta nella parte ricca di questo continente, in quella che qualcuno riteneva la parte nobile della casa (le stanze e le sale), dopo essere stato, da parte mia, nel “patio” (il cortile; talora detto con senso dispregiativo o in funzione di sfruttamento). Va bene così, poiché almeno dal “Rapporto Brandt” (Nord-Sud: un programma per la sopravvivenza, 1980) e dal “Rapporto della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo” (Our common future, 1987), abbiamo imparato a guardare il mondo, prima di tutto e dopo tutto, “dall’altra parte”.
Non ho potuto ammirare la città dall’alto, a causa della pioggia e delle nuvole. In compenso, mi sono gustato, nell’ultima fase del volo, con il cielo limpido, le immense brughiere e i numerosissimi laghi, prima del Canada, penso, e poi degli Stati americani della costa atlantica.
L’arrivo è all’aeroporto John Fitzgerald Kennedy (JFK), assassinato giusto cinquant’anni fa. Mi fa piacere essere arrivato qui, perché è un dovere ricordarlo! E tutto ciò al di là dell’“uso” che se ne farà a Vicenza quest’anno con una grande mostra che consoliderà il nostro legame con gli americani, i quali vedono in Palladio il padre della propria architettura ma anche, e soprattutto, temo, con la Vicenza città super militarizzata. Da loro. Va comunque ricordato che i fratelli Kennedy, con le ombre che li hanno contraddistinti, aprirono un’era nuova per il proprio Paese, e, in parte, per il mondo intero.
Il luogo in cui risiederemo in questa settimana è ... il Seminario. Frank ci ha prenotato un paio di camere all’Union Theological Seminary, dove egli stesso, molti anni fa, fu studente di Teologia. Si trova sulla Broadway, a Manhattan, nel cuore di New York City! Quasi davanti c’è il complesso della Columbia University, un luogo di culto della cultura accademica e dell’intellighentia americana e mondiale, dal quale sono usciti alcuni tra i più notevoli rappresentanti del Congresso americano e tra le penne più prestigiose del giornalismo statunitense.
Il fatto di essere in un Seminario mi ha fatto un po’ sorridere, pensando ai miei anni giovanili, ma subito mi son reso conto che non era affatto un ritorno indietro. Qui all’Union studiano, e talora risiedono, studenti di diverse provenienze: protestanti soprattutto, ma anche cattolici, anglicani, ortodossi, perfino degli ebrei. Studenti e studentesse. C’è la massima apertura a eterosessuali ed omosessuali. Il Presidente, in carica ora, è una donna. Si tengono corsi interreligiosi (con docenti delle diverse religioni). In un depliant che trovo all’ingresso scopro una sezione interessante del Seminario: l’Institute for Women, Religion and Globalization.
Appena entrati nell’atrio mi trovo già a mio agio: giro lo sguardo di lato, finché il portinaio controlla la prenotazione, e, in una targa, leggo: “Bonhoeffer room – 3”. Sì, al terzo piano di questo grande e storico edificio venne, giovane teologo, il pastore luterano – cui sono particolarmente legato – Dietrich Bonhoeffer! Era l’anno 1930-1931. Volle fare un viaggio di conoscenza della teologia e della Chiesa americana, che allora rappresentavano una novità rispetto a quelle europee. Fu affascinato dai giganteschi parallelepipedi che si stavano innalzando fra l’Hudson e l’East River, ma vide anche gli effetti delle crisi finanziaria del ‘29 nella popolazione disoccupata. Era invitato frequentemente, tanto che scrisse ad un amico: “Devo continuare a tenere relazioni e discorsi, predicare in inglese dopodomani, e parlare della Germania davanti a mille scolari a cominciare dalla prossima settimana!”. Ma non faceva solo questo. Passava tante ore ad Harlem, il quartiere dei negri (quasi ogni domenica andava all’Abyssinian Baptist Church, dove divenne un vero e proprio collaboratore pastorale). Lì raccoglieva il materiale di un’organizzazione negra molto combattiva e i dischi di spirituals che cinque anni più tardi fece conoscere ai suoi seminaristi “clandestini”, a Finkenwalde, in Germania.
In America visitò anche Philadelphia e Washington, e poi andò a Cuba. Qui ebbe la possibilità di predicare a Natale. Nel sermone disse: “... sembra strano festeggiare Natale: le schiere dei disoccupati davanti ai nostri occhi, milioni di bambini di ogni parte del mondo nella miseria, coloro che soffrono la fame in Cina, che sono oppressi in India e nei nostri paesi infelici. Chi potrebbe, pensando a tutto questo, entrare senza scrupoli e tranquillamente nella terra promessa?”. Aveva scelto come testo da commentare la storia di Mosè che muore sul Monte Nebo, sulla soglia della terra di Canaan. Perché? L’America era vista e vissuta per molti come la nuova “terra promessa”, il Nuovo Mondo. Non parlava mai a caso il pastore Dietrich!
Arrivò fino in Messico, con un amico francese conosciuto qui all’Union e che divenne importante per la sua maturazione pacifista, Jean Lasserre.
La sua intenzione ultima era di salpare per l’India (era il secondo tentativo), per conoscere il pensiero Orientale e l’esempio di Gandhi... Ma non c’era più tempo. Questo progetto non si poté mai realizzare per lui. Ad altro destino la vita e le scelte lo chiamarono. Ma morì martire, come colui che voleva andare ad incontrare in India.
Dopo la sistemazione, usciamo per fare quattro passi e respirare la prima aria newyorkese.
Scorto un giardino nell’attiguo College Barnard, entriamo, per uscire poi dall’altro portone. In una specie di panchina in pietra, leggo un’iscrizione, di cui annoto qui la prima parte: “It’s crucial to have an fantasy life” (Nella vita è fondamentale avere una NY fervida immaginazione). La stessa cosa diceva Albert Einstein in un’espressione riportata sotto un poster con la sua foto che tengo nella mia biblioteca: “Imagination is more important than knowledge” (È più importante l’immaginazione che la conoscenza).
Quindi, raggiungiamo la vicina Columbia Universiy, e lì passeggiamo un po’ per i suoi viali, i suoi giardini, i suoi maestosi edifici classici.
Un buon approccio, direi, a una città che già suscita in me, dalle sue prime “offerte”, il desiderio di percorrerla e di conoscerla.

Martedì 11 giugno: tra chiese e giardini della pace
Stamattina ripassiamo per i viali interni della Columbia University (lo faremo spesso e volentieri in questi giorni) per raggiungere la Saint John the Divine, Cattedrale episcopaliana della città. Qui, accanto alla prima opera che vediamo dedicata alla tragedia dell’11 settembre 2001, troviamo una serie di sculture che mi incuriosiscono. Installate nei diversi spazi della Chiesa, sono il frutto di un’artista sudafricana, Jane Alexander. Leggo nel depliant di presentazione che questa donna, impegnata nel campo dei diritti umani nell’epoca coloniale e post-coloniale, si è, poi, molto concentrata a rappresentare la questione della sicurezza (… torna anche qui!). Questo tema “nell’opera dell’artista scaturisce dalla presenza in Sud Africa di un alto livello di controllo su spazi pubblici e privati, con allarmi, telecamere, aree protette da filo spinato, guardie di sicurezza private e la diffusione di armi legali ed illegali. Troviamo quindi spesso nell’opera figure di custodi o di guardiani, una recinzione con filo spinato o inquietanti figure appollaiate che ci osservano dall’alto” (da un Catalogo edito dal Museo dell’Arte Africana di New York). Insomma: la sicurezza sta diventando veramente un’ossessione, e, se da una parte ci fa piacere, dall’altra sta aumentando enormemente il controllo (spesso para-militare) sulle nostre vite. Ovunque ci troviamo.
Io credo che su questa “ideologia securitaria” anche come cristiani siamo chiamati ad esprimere per lo meno qualche perplessità, mentre ci proponiamo di far crescere la fiducia, la giustizia e la pace tra gli uomini. Solo queste ultime costituiscono la base per una vera e ampia sicurezza di tutti.
“Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”, racconta la prima lettura di oggi (At 11,26b). Partirono da lì i cristiani, e poi arrivarono fino a qui, in America, nel 1600, con i “Padri Pellegrini” che provenivano dall’Inghilterra.
Usciti di Chiesa da una porta laterale, ci imbattiamo, con felice sorpresa, in un “Giardino Biblico”. Emanuela – sempre interessata ai Giardini e agli Orti Botanici – lo è particolarmente di questo, dal momento che solo il giorno prima di partire ha concluso le presentazioni del suo “Giardino Biblico” durante il Festival Biblico di Vicenza. “Grape – Vitis vinifera. Genesis 9,20”, “Juniper – Juniperus hibernica. Jeremiah 17,6”, “Poppy – Papaver orientale. Isaiah 40,6”: così leggiamo nei primi tre cartellini. E poi tante altre piante e fiori che sono presenti nella Bibbia.
Ma le piacevoli sorprese, in queste prime ore a New York, che già si rivela città magica, che estrae dal suo cilindro sempre nuove sorprese, non sono finite. Prima ancora di ritornare sulla strada principale, l’Amsterdam Avenue, e di prendere la 110th Street che ci porta all’ingresso nord del Central Park, in un altro giardino, appartenente sempre alla Cattedrale episcopaliana e dedicato ai bambini (Kindergarten), rimaniamo colpiti da una grande opera artistica in bronzo, su di una fontana (Peace fountain). Dintorno vi sono piccole opere, di diversi artisti, ciascuna ispirata a un animale (Animals of freedom). In alcune vi sono pure scolpite, insieme a delle frasi interessanti, le facce di alcuni noti pacifisti come Gandhi e Thoreau, oppure di letterati e pittori, come Kipling, Twain, Goya, Chagall. In una formella leggo: “Nonviolence is a weapon of the brave” (La nonviolenza è l’arma del coraggioso). Bene: la natura e l’arte a servizio della pace, ossia della vita!
Ci dirigiamo al Central Park, famoso luogo di passeggio, di jogging, di relax, e polmone verde della città. Entriamo e camminiamo a lungo. Ad un certo punto, in un angolo protetto, scopriamo un giardino con una fontana. Dopo aver ammirato e fotografato un bel po’ di fiori dintorno, leggo la dedica contenuta nella targa: “Fountain group given to the children of the city (...)”.
Insomma, senza tentare di capire (e senza trascrivermi) il finale della frase, ho capito l’essenziale: i bambini e la pace sono al centro dell’attenzione di questa città (di questo popolo)! Ma – mi domando io – non sono al centro dell’interesse di ogni società? Si dice: “i bambini sono il nostro futuro, e la pace è il bene supremo”. È dunque per loro, per i bambini e per la pace, che si fanno le guerre?...
Gesù, nel Vangelo di oggi, ordina: “Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi”. Perciò la domanda: dal 1600 dei Padri Pellegrini ad oggi, possiamo dire che l’America, che si considera nazione cristiana, ha vissuto ed ha portato la pace, ossia la missione che Gesù affida ai suoi discepoli? Oppure si è dedicata alle guerre (per i bambini e per la pace...)?
E nel campo della piena integrazione e giustizia fra bianche e neri, a che punto siamo? Mi risulta, purtroppo: non affatto bene. E con l’immigrazione? “Pare che un vento nuovo stia muovendo il nostro Congresso nel campo dell’immigrazione, la riforma più ampia in due generazioni. Molto più progressista che in passato. Speriamo tanto che passi, segno che la stagione di Pentecoste è ogni stagione...”: così ci scriveva Frank, nel mese di maggio, quando si celebra la Solennità di Pentecoste. Ciò significa che non siamo i soli ad avere problemi con una giusta legislazione su questo aspetto, ma pure un Paese come gli Stati Uniti, dove l’immigrazione è un fenomeno storico, e di massa, di lunga data.

Mercoledì 12 giugno: tra quadri e libri
Non possiamo mancare, a New York, i Musei, data la nostra comune passione per l’arte. Cominciamo dallo strepitoso Museum of Modern Art (il famoso MoMa, forse il principale museo d’arte moderna del mondo), di cui ammiriamo non solo le opere collocate all’interno (penso alla Danza di Matisse o all’Autoritratto di Frida Kahlo, alla Notte stellata di van Gogh o a La zingara addormentata di Rousseau: aspettavo da sempre di vedere personalmente alcuni di questi capolavori!), ma anche lo spazio esterno, dove, in mezzo a grattacieli vertiginosi, è inserito un moderno e riposante giardinetto con sculture.
Qui trovo alcune opere di Henry Moore e di Matisse ma anche una scultura che mi intriga più delle altre: si tratta di un San Giovanni Battista, di Auguste Rodin, che sta al centro del giardino, ma che, tra le piante e le altre opere d’arte, qualcuno potrebbe non vedere (… e non ascoltare). In effetti, che ci fa qui un uomo così severo, in mezzo a tante bellezze e ricchezze, tra le immense pareti di vetro a specchio dei grattacieli, le casseforti delle banche o le “piazze degli affari” non lontane?
Cosa vuole dirci il profeta scalzo, con i capelli arruffati sul capo e i cenci addosso, con il suo dito puntato in alto? Indica forse che dobbiamo rivolgerci “alle cose di lassù” e non “a quelle della terra”, come dirà Paolo? O, meglio – per evitare separazioni non bibliche – che non dobbiamo dimenticare che il Nuovo Mondo, come veniva chiamata l’America del Nord, si realizza sempre e solo ascoltando Dio e la sua Parola, vale a dire, concretamente, quando ci impegnano e ci convertiamo alla giustizia e alla pace?
Quante delle migliaia di persone che ogni anno ti passano accanto, caro Giovanni, trovano il tempo di guardarti in volto e la voglia di interrogarsi a fondo? Quante?
Prima di riprendere la metropolitana per il rientro, alla stazione di Times Square, in quanto amanti dei libri e della biblioteche, vogliamo raggiungere a piedi la New York montagne Public Library. Una tappa obbligata per noi! Ma prima, passando vicino al Rockefeller Center facciamo un giro anche in questa zona, molto frequentata dai turisti. Ci allontaniamo abbastanza in fretta. Poi entriamo nella Cattedrale cattolica di New York, la St Patrick’s Cathedral. La visita non mi suscita particolari emozioni (ovviamente non sono paragonabili queste Chiese con le antiche Cattedrali che conosciamo in Europa, e quindi non è possibile essere “presi” come in quelle), se non nel momento in cui un Coro di giovani voci femminili incomincia a cantare, così come, da quel che capisco, avviene spesso qui, ad una certa ora del pomeriggio.
Piena soddisfazione, invece, trovo nella visita alla Library. In ambienti come questo mi sento a casa. Silenzio, studio, ricerca. Apertura al mondo, antico e moderno. Poiché so che anche un solo libro, qui o altrove, può cambiarci la vita.
Uscendo dalla Biblioteca, un affresco, a fianco del grande portale d’ingresso alla Rose Reading Room, attira la mia attenzione: rappresenta Mosè, il quale, sceso dal monte Sinai, trova il popolo che si è allontanato dalla Legge, per cui ne spezza le tavole.
“Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli”, dice Gesù nel Vangelo odierno. Mi domando: forse che in questo insegnare a trasgredire, al posto di osservare, le persone più colte hanno una responsabilità maggiore? Credo di sì. Chi più sa, o chi ha più consapevolezza, ha certamente un compito particolare, e deve rendere conto di che cosa ha “insegnato” (e non solo e non tanto con le parole): talora, infatti, ho trovato le persone colte più approssimative nelle responsabilità e nei compiti etici della vita, rispetto alle persone meno acculturate. Sento sempre la cultura, che pure amo, come un’ arma a doppio taglio (don Lorenzo Milani è stato il mio primo “maestro”). So che chi la coltiva deve tenerne conto.
Prima di sera, vogliamo passare per la Riverside Drive, la strada alle spalle dell’Union. Frank ci aveva scritto che al n. 475, nell’Interchurch Center, aveva lavorato per tredici anni come direttore della Società Valdese, membro del National Ecumenical Board (il Consiglio Ecumenico Nazionale). Sento di doverlo fare, volendo rendere omaggio a un amico e a un maestro.
Di lì, un salto, e siamo nel Riverside Park. Camminiamo in esso per un bel po’ e raggiungiamo la riva dell’Hudson, il grande fiume che passa tra l’isola di Manhattan e il New Jersey, per sfociare, poi, nella baia di New York, ossia nell’Oceano Atlantico. La stupenda luce di una sera molto ventosa ci offre l’ultimo regalo di una giornata già ricca di molti doni.

Giovedì 13 giugno: tra pastori-testimoni e frati-penitenti
Dopo la sveglia e il ritrovo all’ingresso, ci avviamo a far colazione. Abbiamo scoperto che i locali migliori a questo scopo sono quelli della catena Starbucks: puliti, tranquilli, con ottime fette di plum cake o altri dolci per iniziare con adeguate calorie la lunga giornata.
Di primo mattino visitiamo la vicina Riverside Church, riformata e battista, “di frontiera” ci scriveva Frank. Infatti: “Qui si accolgono persone di orientamento sessuale diverso”, dice il foglietto di presentazione che trovo nell’atrio.
Quale emozione per me! So che in questa Chiesa tenne importanti sermoni Martin Luther King (il quale, pur invitato a fermarsi qui come pastore, preferì – come ci precisava Frank in una mail – rimanere legato al movimento per i diritti civili nel Sud del Paese). Dirompente fu quello in cui attaccò la politica estera americana, impegnata nella guerra del Vietnam, e tutto il militarismo dello Stato: “Beyond Vietnam”, Oltre il Vietnam, del 4 aprile 1967 (molti sostengono che qui incominciarono i guai per King, che lo portarono ad essere ucciso). Amo sempre ricordare, a me stesso anzitutto, che egli cercava per sé e proponeva ai fratelli “una mente robusta e un cuore tenero”. Bella sintesi per una personalità che si vuole costruire in pienezza.
Mi sorge una domanda nel cuore, fissando intensamente quel pulpito vuoto: non sono chiamato anch’io a continuare quel sermone? Non siamo chiamati tutti insieme a continuare le azioni che King, con i suoi collaboratori, avviò in tutto il Paese non solo per superare la discriminazione razziale ma anche per creare una società più giusta e più pacifica?
Ma ho il coraggio del pastore King? Abbiamo la sua determinazione e la sua fede nelle promesse del Signore?
Oggi la Chiesa cattolica ricorda Sant’Antonio di Padova. Leggendo alcuni suoi Sermoni ho scoperto che non erano meno infuocati e scomodi di quelli del pastore nero qui ricordato. Peccato non siano affatto conosciuti, mentre abbonda, attorno a lui, come succede con tutti gli altri santi, il devozionismo ed il miracolismo, che portano la gente lontana dalla testimonianza del Vangelo.
Girando per gli spazi attigui alla Chiesa, scopriamo un salone dove si sta distribuendo del cibo ai poveri. Frank ci aveva scritto: “Come ben sapete, NYC ha musei, cattedrali, la Quinta Avenue, Wall Street, etc, etc. Insomma, the good life. C’è però l’altra NYC della povertà, che Pax Christi NY, volendo, potrebbe farvi conoscere. Passerete senz’altro per Harlem, che non dista molto dalla Union. L’area più in crisi, però, è la Bronx”.
Prima di uscire, raccogliamo dei depliant di predicazioni, di concerti gospel, di conferenze.
Con piacere notiamo che in un incontro dedicato alla situazione Palestinese, “Sponsored by The Riverside Church Israel/Palestine Task Force”, hanno invitato anche Daoud Nassar, “founder of Tent of Nations”, che abbiamo incontrato in Palestina all’inizio di marzo!
Inoltre, leggo una pubblicità di una Cooperativa africana: The Peace Kawomera Cooperative’s. La cosa interessante è questa Cooperativa, che commercia caffè, è composta da ebrei, cristiani e musulmani! Nel depliant leggo il suo motto: “Not Just A Cup, But A Just Cup” (Non una soltanto una tazza, ma una tazza giusta). È simile al nostro “Commercio equo e solidale”, con il valore aggiunto appena segnalato sopra.
Quindi rientriamo per un’ora nel Seminario, poiché abbiamo l’appuntamento con un signore dell’istituto, il quale, contattato da Frank, ci accompagnerà a visitare la Bonhoeffer room. In questo periodo, ci scriveva Frank, la Columbia University tiene delle lezioni in questa sala speciale. Ma in questo giorno, ci scriveva, sarà libera.
Entro e osservo, con emozione!
In questa grande suite per gli ospiti, chiamata anche la “Sala del Profeta”, e che fu la camera da letto e lo studio dove il teologo e martire tedesco Bonhoeffer dimorò, quando, invitato da teologi che lo stimavano, ritornò in America nel ‘39. Ma solo un mese dopo decise di rientrare in Germania: voleva assolutamente partecipare alla sorte dei suoi connazionali e dare il suo personale contributo alla resistenza antinazista. Nella Broadway Presbyterian Church, sentì predicare sulla “nostra conformità a Cristo”, concetto che divenne, poi, fondamentale nella sua vita, fino al martirio.“Veniamo trasformati in quella medesima immagine (…) secondo l’azione dello Spirito” dice Paolo nella lettura di oggi (2 Cor 3,18): è lo stesso concetto, da far diventare realtà in ciascuno di noi.
In un quadro appeso alle pareti trovo una foto del campo di concentramento di Flossemburg, dove venne ucciso dopo aver partecipato al complotto contro Hitler del 20 luglio ‘44 (conosciuto come “Operazione Walkiria”). Andai lì, in un prezioso viaggio “Sulle orme di Bonhoeffer”, nell’agosto di due anni fa.
Uno dei motivi principali – a questo punto sarà chiaro anche ai lettori – per cui mi parve ottima l’idea di trascorrere la prima settimana a New York, non potendo Frank e Maria ospitarci, era proprio il ricordo della sua presenza in questa città.

Il resto della giornata è dedicato alla visita al Metropolitan Museum of Art (il Met). Non ci bastano le ore a disposizione per gustare le diverse sezioni dell’immenso Museo, e ci dobbiamo accontentare della sola pittura, che, comunque, ci riempie gli occhi e il cuore.
Annoto qui alcune opere che, tra le tante meravigliose, mi hanno emozionato di più: Hagar in the Wilderness (Agar nel deserto), 1835, di Camille Corot: per il richiamo a Ismaele e ai suoi discendenti, i nostri “fratelli minori”, come li chiamo io, i musulmani; “Ia Orana Maria” (Ave Maria), 1891, di Paul Gauguin: per la rappresentazione di Maria e il bambino Gesù immersi, da tahitiani, nella natura intatta, semplice e colorata della Polinesia; “Shoes” (Scarpe), 1888, di Vincent van Gogh: per il richiamo alla terrestrità e ai piedi che ci portano; “Eternal Spring” (Eterna Primavera), 1905, di Auguste Rodin: per la forza plastica ed erotica impressa nel marmo; “Hagar and the Angel” (Agar e l’Angelo), 1657, di Francesco Maffei: perché... vicentino (dove si notano gli influssi degli amati Bassano, Tintoretto, Veronese)! Ma c’è anche una “Santa Giustina da Padova” di Bartolomeo Montagna, anche lui vicentino; una notevole “Adorazione dei pastori” del Mantegna, e una straordinaria “Meditazione sulla Passione” del veneziano Vittore Carpaccio, che mi commuove in ogni sua opera. Per non parlare di Cézanne, di Bruegel, di ... (non finirei più). Ma un ultimo quadro voglio menzionare: “Brother Gregorio Belo of Vicenza” (Ritratto di fra Gregorio Belo di Vicenza) di Lorenzo Lotto (nato a Venezia nel 1480); la scheda dice che il frate apparteneva all’Ordine di San Girolamo, e che il Lotto fu vicino “al fervore evangelico e agli ideali” di questo Ordine penitente.
La vera penitenza credo sia la testimonianza che siamo chiamati a dare nel mondo: le sofferenze e i prezzi da pagare non mancheranno ad arrivare. “Avete inteso che fu detto agli antichi: ‘Non ucciderai’ (…) Ma io vi dico (...) Va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello”.
Se ciascuno di noi fosse veramente rispettoso del fratello e si riconciliasse con lui quando è necessario! Se lo facesse oggi l’America con coloro che hanno “qualcosa contro” di lei!
Non sarebbero queste la penitenza, la conversione e la “giustizia superiore” (di cui si parla Gesù in questo brano) che salverebbero la vita di tutti?

Venerdì 14 giugno: tra arte moderna e giardini paradisiaci
Oggi ci aspetta il Guggenheim Museum, sulla nota Fifth Avenue.
Prendiamo la metrò. Fin che l’aspettiamo, sbircio le riviste appese all’edicola. Vengo attirato da foto e dalle parole della copertina di una delle riviste più famose al mondo, LIFE. L’immagine è, ormai, classica: alcuni soldati stanno issando una bandiera americana sopra un monticello (non so se anche questa foto appartenga al noto fotografo di guerra Robert Capa). Mentre il titolo, in grande, è il seguente: “The POWER and the GLORY” (Il POTERE e la GLORIA) e il sottotitolo: “An Illustrated History of the United States Military”. Il titolo a me fa venire in mente un romanzo di Graham Greene: di tutt’altro significato, peraltro, e forse proprio per questo contrapposto al POTERE e alla GLORIA che qui si esaltano: quelli militari.
Il Guggenheim Museum, capolavoro del grande architetto Frank Lloyd Wright, già in se stesso attira l’attenzione. Un edificio tutto circolare, che spinge a guardare, e anche ad andare direi io, verso l’alto...
In un libretto che illustra le Mostre in corso da giugno a ottobre di quest’anno, leggo che è stato definito “temple of spirit” (tempio dello spirito).
Mi fermo qualche istante – davanti a un quadro di Kandinskij, che mi cattura più degli altri – e rifletto. In una città che sembra tutta rivolta al materialismo, trovo continui rimandi allo spirito, all’anima, al cielo. I grattacieli stessi lo sono? (tuttavia, lo so, possono essere “letti” e vissuti in maniera esattamente opposta: espressione di potenza terrena, di superiorità, di ricchezza; … ma io non li sento solo così).
L’uomo, infatti, non può essere ridotto “a una dimensione”: non lo diceva proprio in questo Paese, negli anni Sessanta, gli anni della rivoluzione giovanile, un professore, di origini tedesche ma fuggito negli U.S.A perché ebreo, di nome Marcuse? Ce ne siamo dimenticati?
A proposito di grattacieli, nella Parola di Dio di oggi, Paolo sostiene che noi “abbiamo un tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi” (2 Cor 4,7). Queste parole mi hanno fatto pensare al più spettacolare grattacielo che ho visto in questi giorni: il Bank of America Tower. L’ho potuto ammirare con calma, in tutta la sua bellezza, in un felice, e necessario, momento di sosta nel Bryant Park, nella Midtown di Manhattan, dove passa la ricca Fifth Ave (Quinta Strada).
Il grattacielo – che ha il pregio di essere eco-friendly (ecocompatibile) – assomiglia a un cristallo sfaccettato.
Ecco: tra la creta e il cristallo ci sta tutta la gamma della vita e della storia umana. Si tratta, a mio avviso, di non cercare l’una per “amore della sconfitta” né di inseguire l’altro per “amore del successo”; ma, come insegnava il mio amato Bonhoeffer di “non far diventare questa prospettiva dal basso un prender partito per gli eterni insoddisfatti, ma nel rispondere alle esigenze della vita in tutte le sue dimensioni; e nell’accettarla nella prospettiva di una soddisfazione più elevata, il cui fondamento sta veramente al di là del punto di vista dal basso e dall’alto”.
Il pomeriggio è tutto dedicato al New York Botanical Garden, che si trova nel Bronx. Per raggiungere la stazione giusta da prendere passiamo per Harlem. Qui si vedono più bambini che in altre parti della città, ma purtroppo anche diversi giovanotti neri visibilmente alcolizzati o drogati.
Ci stanchiamo in una lunghissima, e calda, camminata, ma poi la soddisfazione che ci offrono innumerevoli piante, incantevoli fiori, prati e laghetti e serre artistiche, ci ripaga e ci rilassa totalmente.
Profusione di profumi e di colori, ma anche di foto.
A proposito di giardini, leggevo all’inizio di giugno nell’Orto Botanico di Lucca - trovandomi da quelle parti per un Convegno – questa bella espressione di Francis Bacon: “Dio onnipotente per primo piantò un giardino. E infatti è il più puro degli umani piaceri. È il più grande ristoro per lo spirito dell’uomo” (Saggi, 1579).
Così sarà anche per noi in questi venti giorni di viaggio.

Sabato 15 giugno: tra mare e grattacieli
Oggi è una giornata bellissima, la più limpida, e asciutta, di tutta la settimana. Indoviniamo bene, perciò, di andare a fare il giro in battello davanti alla Lower Manhattan, nella meravigliosa baia di New York, per vedere, dal mare, il famoso skyline della città, e, da vicino, la Statua della Libertà e il mitico Ponte di Brooklyn, oltre a quello di Manhattan. Partendo dal Battery Park, punta meridionale dell’isola di Manhattan, trascorriamo un paio d’ore piacevoli e distensive.
Il mio pensiero è ora rivolto agli immigrati che qui, nell’isola che sta davanti a noi ora, Ellis Island (che venne chiamata “L’isola delle lacrime”), arrivarono da tutto il mondo, soprattutto dall’Europa (quanto presto si fa a dimenticare la nostra emigrazione!...), soprattutto a fine ottocento e inizio novecento, in cerca di lavoro e di libertà. Questo ricordo mi sembra importante, per quanto siano affascinanti, dal mare, i grattacieli che gareggiano in altezza e fama (e che restano solo nella macchina fotografica).
“Datemi le vostre stanche, povere masse accalcate, bramose di vivere libere, i miserabili rifiuti di vostri lidi brulicanti. Mandatemi questi, i senza casa, tempesta scagliata contro di me. Io innalzo la mia fiaccola accanto alla porta d’oro!” recitava Lady Liberty in un poema di Emma Lazarus, nel 1883, incise poi alla base della statua.
Sì, è vero: “La libertà illumina il mondo”, quando diventa l’approdo di chi cerca più giustizia e pace.
Proprio non lontano dalla Diamond Street, la via dei negozi e delle vetrine piene zeppe di diamanti e di altre pietre preziose, avevo visto in questi giorni una curiosa, grande, scultura in bronzo, collocata in mezzo allo sfavillio degli specchi dei grattacieli: rappresentava un povero ebreo curvo sulla sua macchina cucitrice. Sarti, ciabattini, facchini: questi erano i lavori che facevano gli stessi ebrei poi divenuti mercanti di preziosi e uomini della grande finanza da queste parti.
Scesi dal battello, vogliamo camminare e raggiungere a piedi il celebrato Greenwich Village.
Per prima cosa decidiamo di fare una visita a ciò che resta del World Trade Center, distrutto dall’attacco dell’11 settembre 2001. La zona è molto frequentata. Così decidiamo di restare all’esterno di quello che, dopo la tragedia, è stato chiamato Ground Zero, denominazione che, sinceramente, a me non sembra indovinata, dal momento che inizialmente si riferiva al luogo dove, a terra, produce i suoi devastanti effetti la bomba atomica, di cui l’America ha fatto uso per prima....
Comunque, al di là delle reti del cantiere è in fase di completamento il National September 11 Memorial.
Dov’erano le Torri Gemelle sono state messe due profonde vasche con l’acqua a cascata, come se fosse inghiottita dalla terra (in ricordo di tutte le vittime scomparse in quel giorno), mentre vicino è quasi terminato il grattacielo One World Trade Center Tower.
Nella zona sono state piantati quattrocento alberi, mentre tra loro assume particolare valore “l’albero dei sopravvissuti”, un pero che è resistito a tutto. Scopro quest’ultima notizia sfogliando un libro nel Bookshop vicino. Qui si trovano, proiettate di continuo su uno schermo, immagini dell’evento e interviste ai sopravvissuti o ai parenti delle vittime; e poi libri fotografici, cappellini, magliette, spille di tutti i tipi, tazze per il caffé, ecc. ecc. Tutte le cose, ovviamente, con la scritta “9/11 Memorial”.
Rifletto su tutto ciò. Sì, sono convinto che ci sia il bisogno, o il dovere, di rimeditare su quello che è avvenuto. Lasciarsi trasportare dalle sole emozioni e dai sentimenti può diventare, in questi casi, controproducente. Penso, soprattutto, al pericolo che la memoria, assolutamente doverosa, di questa tragedia, possa trasformarsi in rabbia e in desiderio di vendetta e come possa essere utilizzata “ideologicamente”. Non è ciò che è già avvenuto?
Ma questo discorso vale per tutte le “memorie” (gli stessi ebrei ne dovrebbero sapere qualcosa, visto ciò che sta succedendo, da cinquant’anni, a danno dei palestinesi).
È più difficile chiedersi – quando si è feriti da qualcuno – perché ciò sia avvenuto. Quale sia il motivo che ha spinto l’altro ad agire così nei nostri confronti.
Domandarsi ciò è più faticoso e scomodo, ma è più proficuo. Per tutti.
Non lontano di qui vediamo una piccola Chiesa. Si tratta della St Paul’s Chapel, una Chiesa storica della città, che divenne ricovero per molti sopravvissuti nelle ore e nei giorni successivi all’11 settembre. Una foto di quei giorni – collocata in un pannello del vecchio e piccolo cimitero attiguo – lo ritrae coperto di cenere e di polvere ma anche di fogli di carta, di pezzi di monitor e di computer, di schegge di vetri, etc.
Leggo in un pannello alcune frasi, di cui trascrivo l’ultima parte: “This new ministry became a symbol of the power of faith and the resilience of the human spirit. Today, St Paul’s continues to provide a sanctuary for people from all faiths and backgrounds who seek of hope and healing”.
Mi interessa particolarmente il riferimento alla “resilienza umana” (the resilience of the human spirit), su cui oggi molto, e positivamente, si riflette, e l’apertura delle Chiese alle diverse fedi e culture (è uno degli aspetti che mi rimarrà più impresso di questa settimana): per andare avanti, davvero insieme a tutti, nella ricerca della speranza e della guarigione (hope and healing)!
Noi, gente “di provincia”, non conosciamo questa apertura. Siamo ancora molto, troppo, chiusi nelle nostre “chiesuole”, di qualsiasi tipo esse siano. Siamo troppo lontani gli uni dagli altri, troppo divisi e, spesso, in contrapposizione reciproca. “Dio ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” sostiene Paolo nella prima lettura prevista per oggi (2 Cor 18b)! Il termine “riconciliazione” è ripetuto ben cinque volte nel brano. Questa, in realtà, è la missione di ogni credente. Per certi aspetti credo che i cristiani di New York l’hanno capito meglio di noi.
Riprendiamo il cammino.
Sulla facciata in vetro di un College ebreo (l’Hebrew Union College, sede del Jewish Istitute of Religion), leggiamo un curioso cartellone su cui sono impresse queste sole parole: The SEXUALITY spectrum. Scatto una foto. Che vorrà dire la frase? Non si tratta, infatti, della locandina per un incontro. Forse ci si riferisce all’impronta, aperta a tutta la gamma della sessualità, del collegio stesso? A New York, a questo punto, è l’ipotesi più probabile. Tra le molte città del mondo, è, certamente una di quelle che ama di più l’assoluta libertà, l’apertura alla novità, il rispetto di ogni ricerca umana, personale e culturale. Quindi anche sessuale. Forse sta qui la radice, o una delle radici, del suo enorme fascino?
Raggiungiamo, infine, il pittoresco Greenwich Village. Passiamo davanti alla sede storica della New York University; assistiamo, in una Piazza, ad una manifestazione dei turchi newyorkesi contro il Governo del loro Paese di origine (in questi giorni la Turchia è una dei Paesi più “caldi” del mondo); passiamo davanti alla casa dove nacque il Presidente Theodore Roosevelt; incontriamo, in un piccolo giardino, vicino ad una piazza, una bella statua dedicata a Gandhi (… che mistero! questi continui “appelli” alla nonviolenza e alla pace, in un paese che si è fatto conoscere in questi ultimi decenni come “guerrafondaio”! certo, non bastano le statue e le belle parole: anche Vicenza ora ha un busto di Gandhi...).
Ah, per puro caso troviamo una gelateria italiana: “Amorino - gelato artigianale”. Ci concediamo un gelato. Favoloso! O è perché comincia già a mancarci la cucina italiana, di cui i gelati fanno parte? Dopo quasi un settimana di locali messicani, brasiliani, e così via (i più economici), è possibile che i buoni e abituali sapori ci ingannino nel giudizio. O forse no. Era davvero buono!
Camminiamo ancora, fino a vedere l’originale Flatiron Building, un grattacielo, di inizio secolo scorso, costruito su due strade divaricanti, per cui inizia strettissimo e poi si allarga come un triangolo.
Ci dirigiamo, infine, molto stanchi, verso una stazione della metropolitana. Non vedo l’ora di entrare nella mia camera, di lavarmi e di stendermi sul letto, per dormire.

Domenica 16 giugno: tra musica, preghiera e montagne
Oggi è domenica. Desideriamo partecipare a un culto in una Chiesa evangelica. Partiamo a piedi verso Harlem: lì senz’altro troveremo qualche Chiesa dove si celebra cantando il gospel.
Si cammina volentieri, c’è poca gente in giro. Per via ci accorgiamo che anche qui molte case esibiscono, all’esterno, le tipiche scale antincendio; sono, in genere, nere e, spesso, arrugginite. È curioso osservarle, poiché rappresentano un’immagine classica delle città americane.
Riusciamo a entrare nella Mt Neboh Baptist Church.
A parte il fatto che al monte Nebo ho già fatto riferimento in questa prima parte del racconto di viaggio (parlando di Bonhoeffer), non mi dispiace affatto essere proprio qui. Infatti, questa denominazione, per me, è molto evocativa.
Il monte Nebo può essere lo stesso monte dal quale Martin Luther King, novello Mosè, diceva di “sognare” la “terra promessa” dell’uguaglianza e della giustizia per i neri: “I have a dream...”. È bello sapere che proprio quest’anno ricorre il cinquantenario della marcia su Washington, in cui King pronunciò quel celeberrimo discorso. Era il 28 di agosto 1963, a Washington, davanti al Lincoln Memorial (ricorreva quell’anno il centenario del Proclama sull’emancipazione).
Si trattava di un sogno, ma di quelli che smuovono la realtà, un sogno che spinse e rafforzò l’azione di tanti neri e bianchi che lottavano per l’integrazione e la giustizia. Frank stesso vi partecipò attivamente. Certo, non possiamo dire che “il sogno”, ossia il progetto di una nuova società, si sia compiuto integralmente. Ma – io sono convinto – ciò non toglie che l’averlo fatto ha reso più grande chi l’ha concepito e l’ha messo in moto, così come coloro che vi hanno aderito e vi hanno collaborato. Migliaia, milioni di uomini e donne americani, bianchi e neri insieme.
“Tu hai colpito di spada Urìa l’Ittìta, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti” si sente dire il re Davide dal profeta Natan nella lettura prevista per la Liturgia cattolica di questa Domenica. L’accusa è precisa, e ci riguarda. Le discriminazioni, come quella dei neri, e le guerre si compiono sempre per appropriarsi dei “beni” altrui. Il re Davide riconoscerà il suo peccato e verrà perdonato. Solo il perdono, di Dio e dei fratelli, ci permette di credere ancora in una nostra salvezza. “Colui al quale si perdona poco, ama poco” dice Gesù nel Vangelo odierno. Per il pieno compimento del “sogno” di King – che è lo stesso sogno di Dio – è necessario passare attraverso il perdono e la riconciliazione, nella giustizia e nella pace.“Evangelizare pauperibus misit me” (“Mi ha mandato ad annunciare ai poveri la buona novella”, Lc 4,18) leggo con piacere, appena entro in questo tempio, in una parete di piastrelle dipinte. Evangelizzare vuol dire, in ultima analisi, promuovere la giustizia e la pace. Quando viviamo l’amore, annunciamo quello di Dio.
Il rito incomincia. Noi, con altre persone, siamo di sopra, nel loggione. Da “spettatori”. All’inizio officia un giovane pastore, tra musiche a tutto volume – l’amplificazione elettronica fa bene la sua parte – e canti gospel, accompagnati dalla tastiera e dalla batteria. Molto belle sono le voci femminili che si susseguono da soliste, ma anche gli assoli del sax e del clarinetto che intervengono dopo. In certi momenti mi sembra di assistere ad un concerto jazz, penso però che le musiche stesse richiameranno alcuni canti conosciuti dai fedeli. Costoro, eleganti nei loro vestiti da festa, cantano, rispondono alle invocazioni con i ripetuti “Amen”, e muovono tutto il corpo. Il ritmo la fa da padrone. Con la passione e con l’emozione.
Anch’io, a un certo momento, mi accorgo di battere le mani sulle cosce e di muovere su e giù il piede. Non si può non lasciarsi coinvolgere. Così, almeno un po’, partecipo alla loro preghiera, e prego anch’io.
Si invoca Dio, lo si ringrazia, lo si benedice. Si percepisce che un residuo dei canti degli schiavi delle piantagioni di cotone del profondo Sud del Paese è rimasto. Dico a me stesso: tra i presenti, i più anziani – di cui guardo, dall’alto, il volto e le espressioni – possono aver sofferto la segregazione! I loro genitori magari le catene...
A un certo punto, viene chiamato fuori un giovane. Tutti gli battono le mani. I pastori, con diverse altre persone tra i fedeli, gli creano un cerchio attorno e stendono su di lui le braccia, toccandolo. Quindi si incomincia a pregare, per lui e su di lui, invocando l’aiuto e la benedizione del Signore. Forse compie un’età particolare, di passaggio, oppure è prossimo ad un viaggio importante o ad un impegno speciale. È il momento più bello della celebrazione. Anch’io, in qualche modo, partecipo al rito, stendendo le mani. Le mie mani, di credente e di pastore. Così celebro così il Giorno del Signore 16 giugno 2013.
L’aria, ora, si è ben riscaldata: quella spirituale intendo, e quella emotiva (alcune donne cadono in “trance”) non quella della chiesa; anzi un bocchettone d’aria condizionata, sparata a manetta su di noi, mi sta preoccupando: “Qui ci ammaliamo!”, dico. Cerchiamo un posto meno freddo, ma forse è tardi.
Alla fine, quindi, interviene il pastore titolare. È il momento clou della mattinata. Inizia un lungo sermone, volto a sostenere e ad incoraggiare i fedeli. Tanti fedeli hanno la Bibbia in mano. Qualcuno nell’iPad. Anche il pastore lo usa. Penso che abbia lì la traccia della predica.
Una giovane e bella donna partecipa attivamente, ma anche si distrae: mastica la gomma (americana) e, ogni tanto usa il telefonino, mi pare proprio per altri scopi. Un’altra, invece, prende attentamente degli appunti. Si segnerà, immagino, dei punti del Sermone che più le interessano, per riprenderli durante la settimana o per metterne a parte qualcuno che non ha potuto venire, ed è casa, magari ammalato.
Rimaniamo qui, in definitiva, per quasi due ore.
Usciti (anche dai flussi gelidi d’aria condizionata sul nostro povero collo), ripenso al culto cui abbiamo assistito, e, almeno un po’, partecipato. Di certo, non esisteva il silenzio, il raccoglimento, la preghiera intima ai quali, in diversi momenti, noi siamo abituati nelle nostre Liturgie (e in quelle di altre tradizioni religiose). Si tratta di qualcos’altro, di completamente diverso. Un modo, anche questo, di pregare, di rivolgersi a Dio, di entrare in contatto con la propria anima (oltre che di socializzare e di fare gruppo). Soprattutto coinvolgendo il corpo (noi, al contrario, muoviamo solo la mente, e talvolta neanche quella; il corpo rimane ingessato). Qui si punta molto sulle emozioni e sulla voce (anche troppo amplificata, a mio avviso).
Prima di uscire mi accorgo, girando lo sguardo tutt’intorno, di una cosa curiosa. Nella parte centrale del tempio, una grande croce, senza il crocifisso, mentre negli archi piastrellati delle grandi finestre sono raffigurati dei santi. C’è, ad esempio, un san Vincenzo de’ Paoli. Ma anche una “Madonna degli angeli”, quindi una “Madonna con bambino fra due santi”. Non me l’aspettavo in una Chiesa Evangelica Battista, (non credo proprio sia ovunque così), ma non mi dispiace. Sia la Madonna che i Santi, intesi bene (come invece non avviene, generalmente, nella Chiesa cattolica), possono avere il loro senso.
Nel pomeriggio, rientrati nel Seminario, ci riposiamo. Poi, io esco da solo. Mi interessa visitare un piccolo Museo (che scoprirò essere contenuto in una bella, caratteristica, casa in legno), non lontano da qui, e che non sapevo ci fosse a New York. “Caspita!”, mi son detto, quando l’ho scoperto nella cartina.
Si tratta del Nicholas Roerich Museum. Costui era un russo – pittore, diplomatico, archeologo, viaggiatore, scrittore – aperto ad ogni religione. Io lo conoscevo come straordinario pittore di montagne, soprattutto himalayane, e di incantevoli paesaggi asiatici.
Ci metto un po’ a trovare il posto (proprio perché si tratta di una casa tra le altre), poi arrivo, entro e con molta soddisfazione ammiro i numerosi quadri esposti. Scatto molte fotografie. Un dipinto, stupendo, ritrae il Kailas, la Montagna sacra per eccellenza in Asia. Un altro raffigura una montagna che conosco di nome, il Kanchenjunga. Lo dipinse nel 1936. Di questo ottomila himalaiano me ne parlava, recentemente, l’amico Alberto, poiché intende scalarlo fra qualche mese...
Scambio qualche parola, in francese, con la signora custode e direttrice della casa-museo, osservo con attenzione le copie di alcuni libri scritti da Roerich o dedicati a lui, acquisto delle cartoline dei suoi dipinti, e lascio un’offerta. Esco felice. Ho visto un po’ di montagne, anche se solo nei quadri.
Ritornato nel Seminario, con Emanuela usciamo per l’ultima passeggiata in questa città.
Essa mi ha donato molto: dei suoi tesori, della sua storia, del suo stile di vita, nella diversità delle persone e dei quartieri.
Ora mi domando: l’ho davvero accolta questa città, oppure ho solo cercato di conoscerla (magari con i miei schemi e pregiudizi)? Sono stato sufficientemente recettivo e libero a mia volta, in modo da poter dire di averla “ascoltata”?
E, da ultimo, mi chiedo: posso dire anch’io, e davvero, “I love N.Y.”, come sta scritto in tante magliette e felpe che girano anche da noi?
Penso di sì.
In ogni caso, questa breve visita, non prevista, mi ha soddisfatto pienamente, e spero, in qualche modo, di averlo trasmesso.

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