249 dollari a testa
249 dollari. È la cifra che ogni abitante della terra avrebbe destinato nel 2012 alle spese militari. Lo denuncia il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), che a giugno ha pubblicato, per il 44mo anno consecutivo, il monumentale Rapporto su armamenti, disarmo e sicurezza internazionale. Il totale delle spese militari nel mondo fa 1756 miliardi di dollari, che rappresenta il 2,5% del Pil mondiale; rispetto al 2011, c’è una diminuzione in termini reali dello 0,4%, il primo calo dal 1998. Se si guardano i dati delle singole zone geografiche, si nota che quelle più “virtuose” sono Nord America (-5,5% rispetto al 2011), Oceania (-3,7%) e Africa sub sahariana (-3,2%), mentre quelle che hanno aumentato i loro budget militari sono Europa orientale (+15%, essenzialmente la Russia, che ha in corso un ambizioso programma di riforma), Medio Oriente (+8,3%) e America Centrale e Caraibi (+8,1%, soprattutto per le guerre contro i cartelli della droga e il crimine organizzato), seguiti a ruota dal Nord Africa (+7,8%) e dal Sud Est asiatico (+6%).
Una curiosità. Il Rapporto fa notare come il numero degli Stati che hanno presentato all’apposito Ufficio delle Nazioni Unite un rapporto sulle proprie spese militari (una misura facoltativa) è passato dagli 81 del 2002 ai 36 del 2012. L’Italia è tornata l’anno scorso a farlo dopo due anni di assenza.
In testa
Passando ad analizzare i produttori di armi, il SIPRI nota come la congiuntura economica seguita alla crisi finanziaria del 2008 e le conseguenti misure di austerità imposte nell’America del Nord e nell’Europa Occidentale hanno impattato sulla vendita delle industrie di armi nel mondo nel 2011-12. Tuttavia, l’impatto sulle industrie non è uniforme, con risultati differenziati per ciascuna compagnia. Le vendite effettuate dalle 100 maggiori industrie d’armi e “servizi militari” (escluse le compagnie cinesi) hanno raggiunto i 410 miliardi di dollari nel 2011, il 5% in meno rispetto all’anno precedente. Questo decremento, secondo il Rapporto, è dovuto a diversi fattori: il ritiro dall’Iraq, l’embargo sulla Libia, la riduzione delle spese a causa della crisi, l’indebolimento del dollaro. A guidare la classifica delle maggiori industrie di armi nel mondo sono le statunitensi Lockheed Martin (quella dei “nostri” F35) e Boeing, seguite dall’inglese BAE Systems, mentre l’italiana Finmeccanica è solo all’ottavo posto. Su 100 compagnie, ben 44 hanno sede legale negli Stati Uniti.
Ma, si sa, le armi dopo essere state prodotte, viaggiano. Il volume dei trasferimenti internazionali delle maggiori armi convenzionali è aumentato del 17% tra il 2003-2007 e il 2008-2012. cinque Stati, Usa, Russia, Germania, Francia e (per la prima volta dalla fine della guerra fredda) Cina rappresentano il 75% dell’intero export di armi nel mondo. La classifica dei maggiori esportatori nel periodo 2008-2012 vede in testa gli USA (col 30% dell’intero export), seguiti dalla Russia (26%) e dalla Germania (7%). In ottava posizione c’è l’Italia (2%). Ma dove vanno a finire queste armi? Al primo posto tra i Paesi importatori c’è l’India (12% dell’intero import), seguita da Cina (6%) e Pakistan (5%). In generale, nel periodo 2008-2012, il 47% dei trasferimenti d’armi nel mondo si è diretto verso l’Asia e l’Oceania, il 17% in Medio Oriente, il 15% in Europa, l’11% nelle Americhe e il 9% in Africa.
Tutto questo, ovviamente, riguarda il commercio legale degli armamenti. Ma, come è noto, esiste un altro mercato, sempre fiorente; quello illegale, dal quale anche gli Stati non sono esenti. È il caso della Siria e del conflitto in corso. Mentre l’Unione Europea, la Lega Araba, la Turchia e gli Stati Uniti hanno mantenuto l’embargo di armi verso il governo siriano, Iran e Russia hanno continuato a rifocillare le truppe di Assad. Le forze ribelli hanno chiesto aiuto militare all’esterno e molti Paesi vicini hanno risposto all’appello con armi o con fondi per acquistarle. Sin dall’inizio della guerra nel 2011 c’è sempre stato una netta divisione tra gli Stati oppositori delle sanzioni Onu alla Siria e che continuavano a fornire di armi il governo siriano e gli Stati che avevano dichiarato l’embargo verso la Siria e chiedevano un embargo Onu. La principale fonte di approvvigionamento di armi per le truppe “ribelli” è stata la cattura di armi e arsenali governativi, mentre small arms e light weapons erano e sono reperibili al mercato nero in Iraq e Libano.
Per quanto riguarda i conflitti, già dall’anno scorso il Rapporto Sipri (utilizzando le informazioni dell’Uppsala Conflict Data Program) ha ampliato il focus sulla violenza organizzata, distinguendo tre tipi: conflitti armati di matrice statale, conflitti non-statali e violenza unilaterale (contro civili). Analizzando il decennio 2002-11, si registrano 73 state-based conflicts, inclusi 37 attivi nel 2011; 223 non-state conflicts, inclusi 38 attivi nel 2011, e 130 attori registrati in qualità di autori di one-sided violence, inclusi 23 attivi nel 2011.
E il nucleare?
Un dato positivo deriva dalla progressiva riduzione e modernizzazione delle forze nucleari mondiali. All’inizio del 2013, 8 Stati (Usa, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan e Israele) possedevano circa 4.400 armi nucleari operative, di cui quasi 2.000 in uno stato di allerta massima operativa. Considerando tutte le testate nucleari, l’insieme degli 8 Stati possedevano un totale di 17.265 armi, qualcosa in meno rispetto alle 19.000 testate detenute agli inizi del 2012. La riduzione delle forze nucleari non incide molto sull’armamentario nucleare posseduto (in grado di distruggere più volte il pianeta), a dimostrazione che il possesso dell’atomica continua ad essere uno “status” cui quegli Stati non vogliono affatto rinunciare e che non intendono affatto condividere con nuovi soci (Iran, Corea del Nord, ecc.).
Un ultimo dato interessante è dato dalle cosiddette “operazioni di pace”: il Sipri ne ha contate 53 nel 2012 (una in più rispetto al 2011) ma con una diminuzione del 10% per quanto riguarda il personale dispiegato (233.642 effettivi), dovuta essenzialmente al ritiro dall’Afghanistan. Se si analizza la top 10 degli Stati che hanno contribuito con proprie truppe alle operazioni di pace nel 2012, si trovano al primo posto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, e al settimo posto l’Italia. Ma questo vale se si considera, tra queste operazioni, anche l’ISAF (Afghanistan). Se invece si esclude questa, i Paesi più peacekeeper sono Pakistan, Bangladesh e India, senza alcuna traccia di Paesi occidentali. La crisi economica ha accentuato il dibattito in sede Onu sui costi di queste operazioni, sulla loro efficacia e gestione. I dubbi sulla capacità di protezione dei civili in queste operazioni sono aumentati nel 2012 a seguito degli insuccessi registrati in Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan.