Quale futuro?
Quando ho cominciato a occuparmi di crisi umanitarie, oltre vent’anni fa, iniziavo questo lavoro in un mondo che era sì, devastato dalle emergenze complesse, il collasso di decine di Stati, il passaggio dalla Guerra fredda ai genocidi, ma che viveva tutto questo con un grande ottimismo di fondo. Si trattava dei colpi di coda di un vecchio mondo che finiva. Sia pure in modo sanguinoso, ma finiva. Era davvero la fine della Storia come l’avevamo vissuta nel ventesimo secolo, il nuovo millennio non poteva che portare un rapido emergere del pianeta dal fango della violenza e della miseria. Il “dividendo della pace”, il diffondersi di democrazia e diritti, il rafforzamento delle istituzioni internazionali, l’evoluzione tecnica della cooperazione, la crescita esponenziale dell’educazione e una società civile sempre più forte e attiva, al Sud come al Nord, erano la premessa a un mondo radicalmente nuovo che si accingeva a risolvere definitivamente i due maggiori problemi della nostra specie: povertà e guerra.
Terrorismo e crisi
Purtroppo, la prima decade del Duemila ha prodotto un arretramento gravissimo su tutta la linea. Con il pretesto del terrorismo prima, e della crisi economica poi, la politica mondiale ha omesso di procedere sul percorso iniziato negli anni Novanta, verso la costruzione di un mondo migliore. L’Occidente sembra stia perdendo la battaglia sui diritti, indebolito dalle proprie contraddizioni, da Guantanamo allo spionaggio globale, dalla tortura alle politiche sulla migrazione. Molti dei Paesi di “nuova democrazia” hanno vissuto un percorso simile a quello della Russia, con la nascita di Stati autoritari che abusano dei diritti dei propri cittadini. In tutto il mondo vige la concentrazione del benessere nelle mani di pochissimi, mentre il costo relativamente moderato del portare tutti gli esseri umani a condizioni dignitose di vita viene rigettato con disprezzo.
Anche le guerre, che sul finire del millennio sembravano essersi rarefatte e, in qualche modo, attenuate, hanno ripreso vigore in modo eccezionale. Lasciar marcire per decenni crisi come quelle del Sudan, della Somalia e del Congo; l’attivismo dolosamente disastroso adottato in Afghanistan e in Iraq; l’incapacità di trovare soluzioni a crisi – tutto sommato – facilmente risolvibili, come quella israelo-palestinese; la rottura del dialogo con l’Islam; l’opportunistico sostegno incondizionato a regimi antidemocratici come la Cina, la Russia (e i suoi satelliti), le tante dittature africane e, fino a ieri, la Siria; tutto questo ha nuovamente rafforzato l’importanza della guerra come espressione “forte” della politica. Risultato: oggi abbiamo tanti conflitti in corso quanti ce n’erano vent’anni fa. Quel che è peggio è che sappiamo anche che aumenteranno nei prossimi anni.
Nuovi scenari
Ci sono, infatti, nuovi e preoccupanti fattori incendiari che, mascherati dal paradigma del crollo del muro di Berlino, hanno contribuito in modo determinante ai conflitti di allora e continuano a generare nuove guerre oggi. Nell’ultimo decennio, i conflitti violenti hanno colpito in media sessanta Paesi ogni anno. Altre decine di Paesi sono stati colpiti da disastri naturali che in vent’anni sono raddoppiati di numero. La malnutrizione, da anni, ha ripreso a crescere, colpendo oltre un miliardo di persone, e fenomeni come il land grabbing (l’acquisto di enormi superfici di terra fertile da parte di alcuni Paesi o di grandi compagnie private) o la privatizzazione dell’acqua potabile privano la gente di risorse essenziali. In tutto questo, la crisi economica globale sta esacerbando la vulnerabilità di tutti e riducendo i fondi per lo sviluppo.
La preoccupazione nasce soprattutto per quella quarantina di Paesi definiti “Stati fragili”, politicamente deboli, che sono incapaci o non vogliono fornire ai cittadini servizi e protezione, che non lottano contro la povertà o per migliorare le condizioni di vita della gente; che sono particolarmente esposti allo shock ambientale, alle epidemie e alla malnutrizione; che sono afflitti da criminalità, corruzione, schiavitù, traffico di armi e di esseri umani; e che spesso languono in una condizione di crisi umanitaria che si protrae da molti anni. Ci vivono 1,2 miliardi di persone, ma il loro numero è destinato ad aumentare: ogni anno cresce di 50 milioni il numero delle persone esposte a disastri climatici, a crisi politiche o a migrazione forzata. Solo l’innalzamento del livello dei mari, la desertificazione e le inondazioni hanno sfollato 20 milioni di persone nel 2008, 17 milioni nel 2009 e ben 42 milioni nel 2010.
Secondo uno studio credibile condotto nel 2005 da un gruppo di università, entro i prossimi trentacinque anni oltre un miliardo di persone potrebbe trovarsi costretto a migrare. Vuoi a causa di guerre e di crisi politiche, vuoi per effetto del cambio climatico, vuoi perché spazio fisico e risorse territoriali verranno confiscati per progetti di sviluppo (dighe, aree industriali, infrastrutture, discariche, ecc.) e sottratti alle comunità. In diverse regioni si scatenerà anche una violenta competizione per le risorse tra Paesi, e tra gruppi sociali all’interno dello stesso Paese.
Dunque, sarà proprio la migrazione, il terreno più difficile su cui misurare gli effetti di questa crisi politica globale. Sotto la pressione di centinaia di milioni di migranti, forzati o meno, si scatenerà la competizione per le risorse, si rafforzeranno i conflitti interni, si apriranno nuovi fronti tra Stati, s’intensificheranno le tensioni xenofobe e la violenza etnica. Basta vedere l’enormità degli effetti che la migrazione produce anche su Paesi ricchi e avanzati, laddove non dovrebbe rappresentare una minaccia per il benessere o per la sicurezza, per immaginare quanto stia accadendo (e sempre più avverrà) in Paesi in cui le risorse già scarseggiano e sono gestite solo a vantaggio delle élites.
Peraltro, di fronte a politiche di chiusura sempre più rigide da parte dei Paesi ricchi, non solo la migrazione produrrà tensioni crescenti ma rafforzerà il meccanismo criminale che ormai ne gestisce ampie parti: l’industria dell’immigrazione irregolare, il traffico di esseri umani e il nuovo schiavismo. A fianco di quella che è oggi la più grande forza economica del pianeta, il cartello del traffico di droga, ne sta crescendo un’altra che potrebbe diventare altrettanto potente, se non di più.
Che fare?
Le cose da fare sono abbastanza chiare, ma non sembra ci sia la capacità di visione politica necessaria per farle:
• Ridurre l’influenza del cambio climatico sulla migrazione. Arrestare i fenomeni che producono il cambiamento della biosfera e, al tempo stesso, fornire mezzi alle popolazioni minacciate per poter meglio resistere ai suoi effetti. Questo richiede sviluppo, crescita, politiche di prevenzione, rafforzamento dei diritti e più spazio per la società civile.
• Pianificare e gestire la migrazione, trasformandola in un’area in cui i diritti delle persone sono tutelati sempre e comunque, e lavorando per attenuare le tensioni e prevenire la conflittualità che la migrazione può creare. Azione umanitaria, mediazione, educazione, rafforzamento dei dispositivi legali, creazione di meccanismi per la gestione pacifica dei conflitti.
• Integrare la migrazione nella nostra visione del mondo, trasformandone il senso in una grande opportunità, anziché una minaccia. Accettare l’idea che il mondo dei prossimi decenni vedrà una diversa distribuzione della popolazione sul pianeta. Pianificare, progettare e costruire; sviluppare modelli sociali ed economici innovativi che permettano al mondo intero di adattarsi al cambiamento in modo pacifico e indolore.
Non sembra che ci sia una reale presa di coscienza dell’enormità della sfida che abbiamo di fronte, mentre è chiaro che il pur potente meccanismo di risposta internazionale all’emergenza non è più una risposta sufficiente. La priorità, oggi, è rafforzare le società più vulnerabili, dedicare risorse allo sviluppo e investire in prevenzione e riduzione dei rischi. Significa anche incoraggiare la crescita di Stati veramente impegnati a proteggere i propri cittadini. Sostanzialmente, questo vuol dire investire in democrazia e buon governo per i Paesi del Sud come per quelli del Nord.