Guerra e dopoguerra
Il Rapporto “Mercati di guerra” rappresenta la quarta tappa di un percorso di ricerca sui conflitti dimenticati, avviato da Caritas Italiana nel 2001, e che nell’edizione del 2012 approfondisce il ruolo centrale della dimensione economico-finanziaria nel determinare situazioni di tensione politica e di conflittualità armata, nell’ambito dello scacchiere internazionale e all’interno dei singoli Stati.
Il terrorismo internazionale, lo scontro di civiltà, i disastri ambientali, il tema delle risorse energetiche, le molte situazioni di conflitto armato si configurano come “emergenze umanitarie complesse”. Ma cosa sappiamo davvero di queste “guerre lontane”? Cosa pensano e come sono informati gli italiani delle guerre nel mondo? Quanto spazio riservano i media a questi temi? E soprattutto, cosa possiamo fare, e come? Queste le principali domande alle quali il rapporto cerca di dare una risposta.
Le guerre nel mondo
Nel 2011 sono state rilevate dal “Conflict Barometer” dell’Università di Heidelberg 20 guerre, in riferimento a 14 Paesi. Si tratta in realtà della punta dell’iceberg, in quanto, nello stesso anno, il totale di tutte le situazioni di guerra e conflitto armato registrate assommano a 388 unità. Le situazioni più letali sono pari a 38 (war e limited war). Altri 148 conflitti sono stati classificati nei termini di “violent crisis”. I rimanenti 202 conflitti si sono sviluppati senza mezzi violenti (87 “crisi non violente” e 115 “dispute”).
Il numero di guerre registrate nel 2011 non coincide con il numero di Paesi in guerra, dato che presso uno stesso Paese possono essere presenti più fronti di guerra. Il caso più eclatante è quello del Sudan dove, nel corso del 2011, sono stati registrati quattro distinti fronti di guerra.
Rispetto a situazioni “vecchie” di conflitto armato, degenerate in guerre vere e proprie, si registra la presenza di tre nuovi conflitti avviati nel corso del 2011, inquadrabili all’interno della “primavera araba”, e localizzati nella regione maghrebina e medio-orientale: si tratta della guerra nello Yemen, in Libia e in Siria.
Dal 2010 al 2011 il numero totale di conflitti è aumentato di 18 unità (da 370 a 388). Particolarmente significativo l’aumento nel numero di guerre: dai 6 casi del 2010 si è passati ai 20 casi del 2011.
Sempre secondo i dati di Heidelberg, nel 2012 il numero complessivo dei conflitti conteggiati è ulteriormente aumentato, arrivando a 396. Nel dettaglio, si contano: 18 war (-2 rispetto all’anno precedente), 25 limited war (+6), 165 violent crisis (+10), 83 non-violenti crisis (-4) e 105 dispute (-1). Delle 18 guerre registrate, 11 conservano lo stesso livello di intensità rispetto all’anno precedente, tra cui 4 nell’Africa sub-sahariana: Somalia (gruppi islamisti), Nigeria (Boko Haram), Sudan (Darfur) e Sud Sudan (violenze interetniche). Altre 5 guerre permangono tali in Medioriente e Maghreb (Afghanistan, Iraq, Turchia, Yemen e Siria), nelle Americhe (Messico) e Asia (Pakistan).
Sette conflitti sono degenerati in guerre nel 2012, tra cui 3 che l’anno prima erano limited war: Myanmar, Sudan e Sudan-Sud Sudan (unico conflitto, quest’ultimo, a elevata violenza interstatale), mentre quelli in Mali e in Nigeria hanno scavalcato due posizioni, essendo in precedenza “solo” violent crisis. In questa triste competizione, hanno fatto di meglio la guerra in India e nella Repubblica Democratica del Congo, considerate in precedenza non-violenti crisis. Nella classifica dei morti causati dalle guerre, “vince” il conflitto in Siria, seguito dalla guerra della droga che si combatte in Messico e che, nel 2012, ha fatto 12.000 morti.
Crisi economica e finanziaria
L’assetto economico è sempre stato decisivo nel contribuire a determinare il grado di conflittualità delle relazioni internazionali, sia per via dei conflitti intorno all’accaparramento di risorse strategiche (petrolio, acqua, terra) sia per le acute tensioni che si possono generare nelle relazioni tra creditori e debitori, all’interno del mercato internazionale.
Centrale appare a riguardo il tema delle risorse naturali ed energetiche. Negli ultimi anni, la disponibilità di risorse è diventata il fattore scatenante di nuovi conflitti internazionali e interni. I primi due beni primari ad essere colpiti da questi fattori di crisi sono acqua e cibo.
Sono 145 le nazioni nel mondo che devono condividere le proprie risorse idriche con altri Paesi e utilizzano bacini idrici internazionali (263 in tutto il mondo). Negli ultimi cinquant’anni, la condivisione forzata dei bacini ha prodotto 37 conflitti violenti. Oltre cinquanta Paesi, nei prossimi anni, potrebbero entrare in dispute violente sulla gestione di laghi, fiumi, dighe e acque sotterranee.
Negli ultimi 5-6 anni, il prezzo reale del cibo è sostanzialmente raddoppiato. L’indice del prezzo mondiale del cibo, pari a 107 nel 1990, è aumentato progressivamente, fino a raggiungere nel febbraio 2011 la vetta di 209.3. A febbraio 2012, l’indice era ancora molto alto (195.2).
Anche le materie prime energetiche hanno conosciuto vistosi incrementi: la crescita del prezzo reale del petrolio, cominciata attorno al 2003, ha toccato livelli che sono assai superiori a quelli, allora ritenuti eccezionali, raggiunti in seguito agli shock petroliferi della seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso. Oggi il prezzo reale del petrolio è quasi il doppio rispetto al 1982, all’apice del secondo shock petrolifero, e supera di più del 150% il livello di inizio millennio.
Secondo il Rapporto, la principale causa degli aumenti di prezzo risiede nella “finanziarizzazione del mercato delle commodities”, ossia nel ruolo giocato dagli speculatori e dai mercati finanziari mondiali nel plasmare le politiche fiscali delle potenze mondiali e, perciò, il panorama macroeconomico dentro al quale ogni economia è costretta a muoversi.
Le conseguenze sui Paesi a reddito basso e medio-basso delle evoluzioni dei prezzi sono state ovviamente negative. In particolare, la crisi alimentare esplosa nel 2008 e l’aumento del prezzo dei prodotti alimentari in tutto il mondo, hanno contribuito all’esplodere di vari conflitti, quali le primavere arabe e la guerra civile in Costa d’Avorio, e hanno provocato scontri e rivolte ad Haiti, in Camerun, Mauritania, Mozambico, Senegal, Uzbekistan, Yemen, Bolivia, Indonesia, Giordania, Cambogia, Cina, Vietnam, India e Pakistan.
Gli Stati fragili
Come è noto, la guerra non dipende solo da questioni economiche e finanziarie, ma è molto legata alle condizioni politiche dei Paesi di riferimento. Le democrazie nel mondo sono 77, con caratteristiche molto variabili e diversi gradi di rispetto dei diritti umani. Sono invece 34 i Paesi che vivono sotto regimi dichiaratamente autocratici o oligarchici.
A cavallo tra i diversi sistemi politici ci sono 43 Paesi definiti fragili, le cui strutture istituzionali non possiedono la capacità e/o la volontà politica di provvedere alla riduzione della povertà, allo sviluppo e alla tutela della sicurezza e dei diritti umani delle popolazioni. In tali Paesi vivono complessivamente circa 1,2 miliardi di persone.
Gli Stati fragili costituiscono l’area più vulnerabile del pianeta. Circa metà di questi Paesi sono in condizioni di conflitto interno aperto o latente. Gli Stati fragili, negli ultimi dieci anni, hanno ricevuto circa il 30% degli aiuti internazionali allo sviluppo, e circa il 90% dell’aiuto umanitario, per un totale di circa 40 miliardi di dollari l’anno. Questo impegno finanziario però non si è mai tradotto in un aumento della stabilità politica e in un miglioramento delle condizioni di vita.
L’impatto sulle persone
Un aspetto importante da non trascurare, caratteristico delle nuove forme di conflitto armato, risiede nel crescente coinvolgimento dei civili. La violenza prolungata in tante aree dimenticate del mondo ha portato il bilancio delle vittime civili a livelli insopportabili: le crisi umanitarie colpiscono oggi oltre sessanta Paesi in tutto il mondo; il numero dei disastri naturali è quasi raddoppiato in vent’anni e la malnutrizione ha ripreso a crescere in modo preoccupante, superando il miliardo di vittime.
Secondo l’Unicef, più di un miliardo di bambini e adolescenti nel 2009 viveva in scenari di guerra; tra questi, circa 300 milioni avevano meno di 5 anni d’età. Nella decade precedente, le guerre avevano ucciso circa 2 milioni di bambini e ne avevano reso disabili altri 6 milioni.
Secondo stime dell’UNHCR del 2010, circa 18 milioni di bambini sono costretti ogni anno a spostarsi a causa dei conflitti armati; due terzi di questi sono sfollati all’interno del proprio Paese, mentre un terzo sono rifugiati o richiedenti asilo all’estero; la maggior parte di questi ultimi, secondo l’UNDP, resta nei Paesi limitrofi, spesso vivendo in campi in attesa di poter rientrare in patria, mentre solo circa mezzo milione all’anno chiede asilo nei Paesi ad alto reddito.
Infine, secondo l’Oms, circa un quarto della popolazione adulta che ha vissuto l’esperienza della guerra soffre di psicopatologie lievi o moderate; il 3-4% soffre di un disturbo psicopatologico grave. Tra il 13% e il 25% dei minori coinvolti dalle guerre soffre di stress post-traumatico.