I ragazzi della Rosa Bianca
L’Europa nacque da quell’inferno. Ottant’anni fa la notte incombeva fra i deliri degli innocenti. Con la svastica fra le mani Hitler prendeva possesso del Reich. Le fiamme si abbattevano sul diritto, il fuoco inceneriva il Reichstag (era il 27 febbraio 1943), la cultura bruciava nel falò con migliaia di libri e migliaia di autori (10 maggio 1943). I dannati si aggiravano nudi nelle distese infuocate di un’Europa senza bussole e banderuole. La guerra diceva i suoi nomi più reali: morte, distruzione, dominio, vittoria, spietatezza, crudeltà, omicidio, persecuzione. Guerra totale, infinita, metafisica.
Ben presto i cancelli del male assoluto aprirono il sipario allo spettacolo macabro del festino satanico dove i corpi dei bimbi, inceneriti, uscivano neri dai forni crematori. Il gas, dall’altra parte, scioglieva le vite degli innocenti senza età o distinzione di sesso. Altre vite venivano appese alle funi, ad altre calava la lama affilata della ghigliottina, ma i più venivano finiti alla buona, a colpi di pistola. La fame inaridiva anche i fisici più prestanti. Il lavoro li faceva a pezzi. Il gelo li schiantava a terra.
Il fiore reciso
Eppure Wagner suonava nell’aria.
Dieci anni più tardi – precisamente settant’anni fa – il fiore della resistenza tedesca veniva reciso. Gli studenti della Weisse Rose (Rosa Bianca) dicevano Europa. Nei loro sogni quel continente aveva il sapore della pace e della libertà. Sophie Scholl lo vedeva così, come un torrente a cui bagnarsi i piedi o come un albero da abbracciare. Nessuna costrizione, nessuna violenza, nessun Führer. Non capivano, questi ragazzi, come mai l’Europa dovesse scendere sempre più in fondo, fino a toccare il limite dell’abisso mortale. Non avevano letto Dante, men che meno il Mein Kampf, ma conoscevano Heine a memoria: “Chi non conosce Heinrich Heine non conosce la letteratura tedesca”. E molti, ahimé, non lo conoscevano.
Sophie aveva inciso la parola libertà nel muro della sua prigione: “Freiheit”. Il 22 febbraio del 1943 venne ghigliottinata. Insieme a lei suo fratello Hans e l’amico Christoph Probst. Poi fu la volta di Willy Graf e Alexander Schmorell e infine del professore di filosofia Kurt Huber. La rosa perse i sui petali ma non la sua primavera: “Noi non rimarremo in silenzio, siamo la vostra cattiva coscienza; la Rosa Bianca non vi lascerà in pace”.
Giro nei corridoi dell’università di Monaco in attesa di incontrare l’unico sopravvissuto di quel gruppo di resistenti, il professore Franz Josef Müller, presidente onorario della Weisse Rose Stiftung. Entro nell’atrio bloccato dai lavori di risanamento. Posso solo immaginare quell’ultimo attimo di terrore, prima della morte, quando a Sophie scappò un volantino dalle mani e il guardiano nazista la rincorse facendola arrestare insieme ad Hans. Immagino il volo del foglio e la denuncia del volenteroso guardiano di Hitler.
Percorro un corridoio sulla destra e mi trovo davanti al memoriale (Denkstätte). Entro e seguo il racconto della mostra con le foto dei protagonisti, la ricostruzione della vicenda, i testi dei volantini, le biografie dei ragazzi. C’è sempre una bella rosa bianca all’entrata accanto al libro degli ospiti. Pochi giorni prima il presidente della Germania, Joachim Gauck, aveva visitato la mostra lasciando un messaggio di stima e di riconoscenza.
Volevamo l’Europa
Franz Josef Müller arriva puntuale con il suo basco rosso e un cappotto marrone scuro. Ride, scherza, Ha barba e baffi bianchi e un sorriso sornione. Insieme alla coordinatrice del festival della pace di Berlino, Ina Edelkraut e ad altri amici ci sediamo intorno a un tavolo per ascoltare le parole della Weisse Rose settant’anni dopo.
“Volevamo l’Europa”, si avvia a dire Franz Josef Müller, commentando la crisi che investe il vecchio continente. “Quando aiutai i miei amici a scrivere il quinto volantino, avevamo una visione grandiosa, piena di ideali. Sognavamo un’Europa federale in cui fosse scritta a lettere di fuoco la parola libertà”. Leggiamo il volantino: “Ogni potere centralizzato – scrivevano i ragazzi – come quello che lo stato prussiano ha cercato di esercitare in Germania e in Europa, deve essere soffocato sul nascere. La Germania del futuro può essere soltanto federalista. Oggi, solo un sano ordinamento federalista può dare ancora nuova vita all’Europa indebolita. Con un ragionevole socialismo, la classe dei lavoratori deve essere liberata dalla sua condizione di profonda schiavitù. L’illusione di una economia autarchica deve scomparire dall’Europa. Ogni popolo, ogni individuo ha diritto ai beni del mondo. Libertà di parola, libertà di religione, difesa del singolo cittadino dall’arbitrio della violenza di Stati criminali: questi sono i fondamenti della nuova Europa”.
“Sì, proprio così” commenta Müller: “Oggi dobbiamo lavorare per un’Europa di pace, non per un’Europa che pensi soltanto agli interessi dei singoli Stati aderenti ma a un’Europa che si faccia carico dei problemi del mondo. La visuale etnocentrica e nazionalista della politica ha fatto fin troppo male ai popoli e agi individui”.
Per quell’idea di Europa sono morti i giovani della Weisse Rose. Franz si salvò per miracolo dopo essere stato rinchiuso per cinque anni in un carcere: “Fu un periodo terribile – racconta – perché eravamo sottoposti a privazioni radicali. Non potete immaginare che cosa significhi rimanere giorni e giorni senza cibo e acqua in una cella maleodorante sotto il controllo delle SS con l’accusa di essere un nemico del Reich”.
Venne liberato dagli americani. Si commuove al ricordo della mamma, che lo aspettava davanti alla prigione. “Lei è stata una donna coraggiosa. Ma in Germania il coraggio, sotto il nazismo, era una prerogativa di pochi, troppo pochi. Noi, amici della Rosa Bianca, non avevamo alternative. Pensavamo all’unisono: o saremmo morti per Hitler o contro Hitler”.
Müller solleva il tema del crimine militare legato alla totale inesperienza dei giovani tedeschi mandati al fronte dopo solo due mesi di addestramento. Su questo crimine gli storici, e in generale la società tedesca, non si è ancora soffermata abbastanza. “Eravamo convinti che il nazionalismo e il militarismo fossero le due facce di una stessa medaglia. Bisognava rompere questo schema e solo un’Europa confederata avrebbe potuto, secondo la nostra visione, togliere linfa vitale al Reich. Già nel 1942 abbiamo affermato: “Solo attraverso un’ampia collaborazione dei popoli europei si possono creare le basi per una costruzione nuova di società e di politica nel vecchio continente”.
Sono le parole che ci accompagnano alla fine dell’incontro, nel viaggio da Monaco a Berlino. Forse quei sogni non si sono ancora avverati. L’Unione dell’Europa è ancora tutta da fare. Troppe le divergenze, troppe le disuguaglianze e i problemi aperti. Non solo la crisi economica incombe come una spada, come una minaccia. Gli spettri del nazionalismo, dell’antisemitismo e dell’odio sono in agguato. Le società europee sono in preda a una crescente violenza fatta di rancore, di odio, di conflitto. L’Ungheria è sotto sorveglianza da tempo. Il governo Orban sta tentando di imporre restrizioni costituzionali alla libertà di stampa e di espressione, mentre le voci dell’opposizione vengono attaccate e minacciate come è accaduto ultimamente alla filosofa Agnes Heller apostrofata con frasi antisemite che hanno raggiunto anche la sede dell’università dove insegna: “Ebrei, l’università è nostra, non vostra”.
A ottant’anni dall’inferno, il memoriale della Rosa Bianca è un qualcosa di sacro. Vedere le foto, leggere i racconti, ascoltare le voci, percepirne la memoria viva nella piazza, nella strada antistante l’università, fa bene al cuore. Significa che quelle vite non sono state spezzate invano e che l’inferno del Novecento, grazie al cielo, rimane ancora sullo sfondo del secolo, come un monito, come un tabù. Perché il male – come ci ricorda la Heller – anche se nelle sue forme esteriori può essere vile e borghese, non è mai banale.