PAROLA A RISCHIO

Ama i poveri

U come ultimo, o meglio ultimi, ma anche come Unico, cioè l’Unico Dio.
20 settembre 2013 - Giovanni Mazzillo (Teologo)

Ogni riflessione sulla pace passa attraverso la riconsiderazione degli ultimi (umanamente) come i primi (teologicamente). Scrivo mentre papa Francesco è in procinto di incontrare, a Lampedusa, alcuni di quegli “ultimi” che, quando riescono a scampare alle insidie del mare, affrontato su gommoni o carcasse galleggianti, raramente rie-scono a sopravvivere alle procedure di respingimenti e di rigetto. E quando non si tratta di respingimenti militari, non è detto che manchino i “respingimenti”… mentali. Anche da parte di alcuni “cristiani” (spero davvero che siano pochi) e persino da qualcuno che è stato battezzato da un Papa, in pompa magna e sotto i riflettori di mezzo mondo. Parlo di Magdi Allam, che, avendo già espresso, dopo l’elezione di papa Bergoglio, il suo volontario auto-allontanamento dalla Chiesa cattolica, sembra non riesca oggi ad accettare nemmeno la scelta di Lampedusa come prima tappa di un itinerario di un altro Papa, che tra i suoi punti programmatici ricorrenti pone la preferenza per le periferie dell’esistenza e s’intende anche per quelle della società in cui viviamo.

Al di sopra di tutto
Rileggendo le dichiarazioni del fratello Magdi cristiano del 25 marzo 2013, mi colpisce e mi affascina tuttavia una sua professione di fede e d’amore in Cristo, al punto che egli scrive: “Continuerò a credere nel Gesù che ho sempre amato e a identificarmi orgogliosamente con il cristianesimo come la civiltà che più di altre avvicina l’uomo al Dio che ha scelto di diventare uomo”. Tuttavia la mia immediata contro domanda è in tutta umiltà e fraternità, in spirito autentico di pace: “Ma come si può amare Cristo senza non amare quelli che egli ama?”.
Non sembra una risposta valida quella espressa dallo stesso autore in data odierna (7 luglio 2013), che, pur professando il suo amore per Cristo, aggiunge che “prima dell’amore per il prossimo viene l’amore per se stesso”, convinzione che “i relativisti, i buonisti, i globalisti e gli immigrazionisti vorrebbero toglierci, obbligandoci a rispettare solo la prima parte ‘ama il prossimo tuo’”. In realtà se c’è uno che ha amato gli altri più di se stesso, questi è proprio Cristo, altrimenti non sarebbe morto sulla croce. E inoltre, l’amore vero –- da quello di una mamma a quello di una qualsiasi persona verso un altro essere umano, come Massimiliano Kolbe (che in un campo di concentramento offrì la sua vita al posto di un altro) – se è amore vero, non fa le sue ponderazioni sul bilancino del farmacista, su quale sia l’amore da privilegiare: quello di se stesso o quello del prossimo. Ama e si dona. Ama e offre la sua vita, non per amore della morte, e nemmeno per amore dell’amore, ma per amore dell’altro.
Senza questa “realtà” non potrei mai capire Cristo, né i suoi martiri, né quanti danno la vita per lui e per gli altri, e – giacché ci siamo – nemmeno qualcosa come il celibato. Perché anche questo ha senso solo se è offerta di sé per un amore più grande, che almeno inizialmente va contro l’amore di sé e, pur nelle gratificazioni di un amore purificato e sublimato, resta sostanzialmente sempre lotta contro il puro e semplice amore di sé.

Cristo e i poveri
Sì, Cristo e i poveri, identificati negli ultimi, non sono cristianamente scindibili. E quanto a Dio, adorato e da adorare come Unico e solo, non è pensabile al di fuori di un binomio che qualcuno ha formulato in questi termini: Dio il primo: da adorare e da amare, ma in forza dell’amore verso di Lui non è separabile da questo l’amore verso i poveri, a partire dagli ultimi, perché proprio essi sono criterio e garanzia di un amore che, diversamente, rischia sempre di scadere nell’esaltazione mistificatoria, più che mistica. L’enciclica pubblicata recentemente da papa Francesco ce lo ricorda, unendo indissolubilmente, come sempre deve essere, l’amore alla fede. Se la fede è senza amore, non solo il misticismo autoreferenziale, ma anche il fondamentalismo è a portata di mano.
Solo se è abitata dall’amore e abita la regione del dono di sé, la fede non costituisce un pericolo per gli altri, per le “diversità”, per l’umanità: “Essendo la verità di un amore, non è verità che s’imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo. Risulta chiaro così che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede” (Lumen fidei, 34).
È questo che bisogna tener presente, non per sminuire l’adorazione dell’Unico Dio, né per eclissare l’adesione incondizionata a Cristo, ma per capire che l’una e l’altra e, pertanto sia Dio sia Cristo, non sono comprensibili al di fuori dell’amore che va all’esterno da sé, perché è dell’amore darsi e persino preferire la vita degli altri a quella di se stessi. Per cui sottoscrivo la locuzione che afferma: il povero è il primo dopo l’Unico (T. Goffi, 1983). In questa logica, proprio il povero è il primo (da scegliere, da amare, da servire), dopo Dio, che è l’Unico (da adorare e da ascoltare come fonte di verità per la propria vita e per il senso della storia).
A parte qualche brano in cui viene anche considerata la pigrizia che talora attecchisce sulla povertà, nella Bibbia c’è non solo la denuncia dell’ingiustizia e della mancanza di solidarietà come causa prima della povertà, ma la predilezione di Dio per i poveri. Ciò ha come conseguenza il coinvolgimento nella stessa predilezione per chi “crede in” (cioè si affida) a Dio e al suo modo di valutare le cose. Troviamo qui un principio cardine dell’antropologia biblica: “Chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del misero lo onora” (Pr 14, 31).
Il seguito del Nuovo Testamento nasce in questo alveo e passa per due affermazioni centrali. La prima lega inesorabilmente la fede in Dio con l’amore del “prossimo”: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4,19-21).
L’altra indica, diremmo oggi indicizzandolo, il punto di partenza preferenziale di tale amore, declinandolo concretamente come cura dei più emarginati. Sono appunto i più piccoli, gli infimi, nelle prigioni di allora come in quelle di oggi, nei centri di accoglienza, come in ogni luogo dove l’uomo vede vilipesa la sua dignità e soccombere la speranza, a Lampedusa come altrove. È Gesù stesso, colui che ha dato la vita per i fratelli, che in questa sua Regalità, da re, appunto dice “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). Ogni teologia della pace non può prescindere da queste due affermazioni. Pace è amare concretamente. Pace è amare cominciando dagli ultimi.

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