Tra caporali e omertà
Siamo in una terra per i più sconosciuta, per molti quasi dimenticata. Una terra che, da sempre, cambia il proprio nome in base alle genti che ci abitano o alle costruzioni che la costellano: Lucania - “terra di boschi” o Basilicata - luogo di Basiliche. Oggi si potrebbe chiamare “Terra dell’accoglienza mancata”.
La storia dell’immigrazione in Basilicata si caratterizza per due peculiarità: la prima è data dal graduale affiancamento della forza-lavoro straniera a quella autoctona, in particolar modo nel campo dell’agricoltura, della pastorizia e di recente anche dell’edilizia; la seconda è che questa regione si conferma “terra di passaggio” per i flussi migratori destinati principalmente al fenomeno della tratta umana e dello sfruttamento lavorativo. I cosiddetti lavoratori stagionali giungono in carovane all’inizio di ogni estate, quasi fosse un’antica liturgia da rispettare. Arrivano per lavorare chini sulle piante dei pomodori, arsi dal sole cocente che spacca la loro pelle. Arrivano silenziosi e rassegnati.
L’oro rosso della Basilicata è il motore che spinge un’economia agricola regionale caratterizzata da un profondo sommerso, da una diffusa irregolarità e, non di rado, da filiere criminali che si avvalgono dello strumento del caporalato per il controllo dei lavoratori stranieri. Il territorio lucano vive il fenomeno dello sfruttamento lavorativo di immigrati, vittime di meccanismi distorti. È un quadro inquietante, che ritroviamo nei territori delle diocesi di Acerenza (con Palazzo san Gervasio e campagne limitrofe al confine con la provincia pugliese di BAT), della diocesi di Melfi (con Boreano e Mulini Matinelle) e della diocesi di Matera (con la zona del metapontino). In questa grande area si muovono migliaia di lavoratori stranieri stagionali, che lavorano per la raccolta dei pomodori. Alloggiano in tuguri fatiscenti, case coloniche abbandonate, accampamenti di fortuna di ogni tipologia; quasi sempre privi di energia elettrica e di ogni genere di servizi igienici. Uomini sfruttati e mal pagati da caporali stranieri strettamente interfacciati con imprenditori locali conniventi. Ogni lavoratore straniero stagionale viene “deportato” in base alle decisioni dei caporali stranieri, che prendono accordi con gli intermediari italiani residenti nelle aree de “l’oro rosso”. Un bracciante agricolo straniero, che lavora nelle campagne della diocesi di Acerenza e di Melfi per la raccolta del pomodoro, è pagato a cottimo, ovvero 3,5 euro al cassone (circa 70 chili vuoto, circa 450 chili pieno) per la raccolta dei pomodori. Il tutto perlopiù “in nero” (senza alcun regolare contratto) o, nella migliore delle ipotesi, assicurato da un unico contratto regolare (es: con quattro contratti di lavoro regolarizzati, lavorano a turno circa quindici persone). Le giornate lavorative sono comprese tra le 8 e le 16 ore consecutive dalla cui paga totale vengono sottratti circa 5 euro per il trasporto da pagare al caporale e la percentuale (ancora sconosciuta) da sottrarre per il pagamento degli intermediari.
Come rilevato anche da un rapporto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, l’orario di lavoro dei braccianti parte alle 4:30 del mattino per terminare non prima delle 18.00. Ci si ammala per via delle durissime condizioni di vita a cui si è costretti (le patologie riscontrate sono principalmente osteomuscolari, dermatologiche, respiratorie e gastroenteriche). Come rilevato da un recente studio delle Caritas locali, la maggior parte dei lavoratori è sprovvisto di tessera sanitaria; si tratta in maggioranza di uomini provenienti da Paesi dell’Africa sub-sahariana, del Maghreb o dell’Est Europa, molto spesso senza alcun regolare permesso di soggiorno o con quest’ultimo in scadenza. Si sono registrati migliaia di migranti transitati ogni anno nella parte a nord-est della Basilicata e nel metapontino nella sola stagione agricola che va da maggio/giugno a ottobre inoltrato (nel 2010 sono state censite circa 13.000 persone quasi tutte provenienti dall’Africa subsahariana). Migliaia di persone, dunque, stanziano in condizioni di estrema precarietà, degrado ed emarginazione, sfruttati e privati di ogni dignità.
Non esistono strutture ricettive in grado di accogliere in maniera dignitosa il flusso annuale dei lavoratori stagionali; non esistono perché (così pare) la gestione del fenomeno, dal punto di vista amministrativo/politico, non è di facile risoluzione. Nel corso degli anni, alcune istituzioni civili (Regione, Provincia, Ispettorati del lavoro, ecc…) hanno tentato di governare la situazione in modo emergenziale e non come fatto consueto che si ripete da ormai trent’anni sempre nella stessa, identica maniera. La marea umana che si “sfrange” nel territorio delle diocesi in questione, infatti, è flusso che inonda (a partire da giugno/luglio) con la stessa forza delle tempeste e che si ritrae (a settembre/ottobre) con lo stesso silenzio dei riflussi, lasciando dietro di sé l’indifferenza per richiamare le coscienze solo nella stagione successiva. Nel momento topico della raccolta vi sono stati nel 2012 oltre 6000 immigrati sparsi; la dislocazione degli accampamenti, la disomogeneità del territorio, la vastità delle campagne, le strade sterrate fanno sì che il raggiungimento degli stagionali sia molto complesso per le Caritas locali e che, quindi, diventi ancor più complicato operare al sostegno degli stessi.
A questa situazione di profondo disagio, registrata sul territorio lucano, hanno cercato di dare delle risposte le realtà del privato sociale pianificando alcuni interventi volti ad alleviare le gravi condizioni in cui versano i lavoratori stagionali. Le Caritas e altre associazioni no-profit, con alcuni micro interventi delle istituzioni civili, hanno promosso assistenza sanitaria, giuridica e psicologica e orientamento legale, la distribuzione di beni di prima necessità, la fornitura di acqua potabile. Questo meccanismo è divenuto ormai sì utile ma vano e connivente anche da parte delle associazioni di volontariato e degli enti no-profit che, continuando a operare così, nient’altro fanno che addolcire la pillola amara della vergogna.
Rimane irrisolta una questione a monte di tutto: la piaga del caporalato esiste perché c’è un mondo imprenditoriale agricolo troppo spesso ambiguo sulla condanna del lavoro nero. Il perpetrarsi di questa pratica “criminale” è frutto anche di un sistema d’inserimento nel mercato del lavoro non sostenibile.
Crediamo opportuno riflettere su come le attuali politiche italiane basate sulle quote d’ingresso, con permessi sulla base di un contratto scritto, possano apparire funzionali al nostro mercato del lavoro, incrementando così lo sfruttamento del lavoro dei migranti. Infatti, i datori di lavoro, come sottolineato da Amnesty International, preferiscono assumere lavoratori già presenti in Italia a prescindere dalle quote d’ingresso fissate dal governo. Nonostante i decreti-flussi e le sanatorie, vi sono moltissimi irregolari e clandestini. Le nuove forme di schiavismo si sviluppano proprio in conseguenza dell’assenza di regolarità e i datori di lavoro non hanno quasi mai un rapporto diretto con i lavoratori prima che avvenga l’assunzione stessa.
Durante l’incessante operare della Caritas negli accampamenti dei lavoratori stagionali immigrati è emerso che i caporali, per questa stagione 2013, hanno alzato la percentuale delle tangenti e che mandano al lavoro sempre gli stessi lavoratori lasciando negli accampamenti ragazzi “novelli” in preda alla miseria e alla fame. I ristoratori (delle stesse nazionalità) speculano come avvoltoi sui pasti preparati a tal punto da alzare di circa un euro al giorno il tasso di interesse sui crediti fatti; questo fa sì che chi non lavora non mangia. Per questo le Caritas si adoperano nella consegna alimentare, non soltanto per sollevare dalla fame chi per giorni è costretto al digiuno, ma anche per aggirare il meccanismo illegale dell’estorsione.
Il flusso dei lavoratori stagionali non è più un evento emergenziale né tanto meno una calamità naturale inaspettata ed è impensabile, se non inaccettabile, che continui a essere gestito come tale. Quel che occorre è una presa di coscienza e un atto coraggioso da parte di tutti, in primis delle istituzioni civili. Il silenzio e l’indifferenza non sono più ammissibili.