Responsabilità condivisa
Rifugiati: un popolo immenso, che aumenta costantemente anno dopo anno. Un numero che cresce, ma che non ha alcuna capacità di incidere nelle grandi scelte internazionali o nel futuro del proprio Paese. Di fronte a una dimensione del fenomeno della migrazione forzata mai raggiunta nella storia recente, i sistemi di protezione appaiono sempre più fragili e incerti. Le priorità dei politici sembrano altre. Le voci delle vittime incolpevoli dei conflitti si perdono, inascoltate, sempre più lontane dai luoghi dove si prendono le decisioni.
Alcuni dati
Come dimostrano i dati forniti anche quest’anno dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, i Paesi dell’Africa e del Medio Oriente continuano a sobbarcarsi il carico più ingente dell’accoglienza dei rifugiati. L’Europa, invece, non cessa di concentrasi sul controllo spasmodico delle sue frontiere, ricorrendo spesso a misure che violano apertamente la normativa internazionale. Ad esempio, con la cosiddetta sentenza Hirsi, la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo ha condannato all’unanimità l’Italia per la vergognosa pratica dei respingimenti verso la Libia, ribadendo che le misure di controllo non esonerano gli Stati dai loro obblighi internazionali: l’accesso al territorio alle persone bisognose di protezione dovrebbe essere sempre garantito. Eppure l’accento continua a rimanere sulle misure di contrasto degli arrivi e si continua a definire indebitamente “emergenza” ogni sbarco.
Intanto, nel Mediterraneo continua la strage silenziosa dei naufragi e la lista delle vittime ignote della Fortezza Europa si allunga. Tanti, troppi morti: si parla di 20 mila persone che in questi anni hanno perso la vita. I viaggi si fanno più lunghi, più costosi, più pericolosi: ma restano inevitabili per chi non ha alternativa. Rimane senza risposta l’unica domanda che ci poniamo da anni: come possono giungere in Italia, nell’Unione Europea, senza rischiare la vita in mare, quanti scappano da guerre e persecuzioni? Se il Mediterraneo è diventato da “culla di civiltà” a “cimitero”, è responsabilità dell’intera comunità internazionale. A questa comunità chiediamo canali umanitari sicuri per impedire che le persone continuino a trovare la morte nella traversata. Consentiamo loro di liberarsi dai trafficanti.
Sono veramente contento che papa Francesco abbia deciso, lo scorso luglio, di accendere un faro su questa situazione drammatica con la sua visita a Lampedusa. Il Papa ci ha sempre invitato a vedere nel volto dei rifugiati il volto di Cristo. E non si è sottratto nemmeno lui a questo incontro in un luogo dove la nostra umanità è portata al limite. Sapere che il Papa ha scelto di andare lì – in forma discreta, perché i luoghi di sofferenza meritano profondo rispetto – è una testimonianza che ci incoraggia a rimanere nel servizio di queste persone che hanno pagato già un prezzo altissimo per rimanere in vita, scappando da persecuzioni nelle quali anche noi dovremmo riconoscere una nostra parte di responsabilità.
Per la Pace nel mondo
Il 1 settembre, il Santo Padre all’Angelus ha fatto sentire ancora con decisione la sua voce a sostegno delle vittime della guerra in Siria, alcune delle quali ha incontrato poi il 10 settembre in visita al Centro Astalli, e ha richiamato tutti gli uomini del mondo, credenti e non, a non sentirsi indifferenti alla loro tragedia: “Che cosa possiamo fare noi per la pace nel mondo? Come diceva papa Giovanni: a tutti spetta il compito di ricomporre i rapporti di convivenza nella giustizia e nell’amore (cfr Lett. enc. Pacem in terris [11 aprile 1963]. Una catena di impegno per la pace unisca tutti gli uomini e le donne di buona volontà! … Ripeto a voce alta: non è la cultura dello scontro, la cultura del conflitto quella che costruisce la convivenza nei popoli e tra i popoli, ma la cultura dell’incontro, la cultura del dialogo: questa è l’unica strada per la pace”. In Italia molti si impegnano ogni giorno per accogliere in maniera progettuale migranti e rifugiati. Non riusciamo, purtroppo, a pacificare il nostro mondo. Non possiamo accontentarci di quello che già riusciamo a fare. Per questo l’appello è ad aprire le nostre comunità per essere un segno, una testimonianza concreta; chiediamo alle famiglie di aprire le porte – così come è già avvenuto e avviene in altri Paesi – a questi fratelli, a queste sorelle che devono sperimentare nella prima accoglienza il calore di un’umanità che non è indifferente.
La crisi che stiamo attraversando, prima che economica, è umana e culturale. Non è certo la mancanza di risorse che non permette, ancora oggi, all’Italia di adempiere con dignità ed efficienza ai suoi obblighi di accoglienza. Proprio in una stagione in cui si richiamavano tutti i cittadini a compiere sacrifici abbiamo assistito a intollerabili ritardi e a un vero e proprio spreco di risorse nella gestione della cosiddetta emergenza Nord Africa, che si è conclusa la primavera scorsa senza soluzioni dignitose per le circa 20.000 persone arrivate in Italia dalla Libia in guerra. Due anni di misure improvvisate, poco progettuali, che nella maggior parte dei casi non hanno aiutato le persone accolte, pur gravando pesantemente sulla spesa pubblica. Non si può continuare a tollerare che un Paese come l’Italia non sia in grado di offrire a ciascun richiedente asilo un’accoglienza dignitosa e a ciascun rifugiato un percorso di integrazione realistico e sostenibile. Gli sprechi estemporanei in nome dell’emergenza non fanno che rimandare temporaneamente le questioni: lo dimostrano le situazioni di grave emarginazione sociale in aumento in molte città e le occupazioni di edifici abbandonati da parte di numerosi titolari di protezione internazionale.
Il Centro Astalli continua a spendersi per mitigare l’impatto di questo “non sistema” sulla vita di persone già duramente provate. I servizi di prima accoglienza, nonostante il calo degli arrivi, sono saturi, a dimostrazione del fatto che le necessità primarie, in mancanza di strategie sociali efficaci, si ripresentano immutate anche a distanza di anni dall’arrivo: i percorsi verso l’autonomia sono così faticosi e fragili che ad annullarli basta un imprevisto qualunque. Ci preoccupano particolarmente i molti che arrivano in Italia dopo aver subito tortura e violenze intenzionali: le loro necessità, delicate e complesse, sempre più spesso passano in secondo piano nella generale approssimazione e superficialità che caratterizza servizi ormai ridotti all’osso. La politica, europea e nazionale, deve ricominciare a far sentire la sua voce. Il tema dell’accoglienza e della protezione dei rifugiati, così strettamente legato al rispetto dei diritti umani e all’identità stessa delle nostre democrazie, non può più essere delegato ad apparati burocratici inadeguati e rigidi, o all’iniziativa privata di pochi volenterosi.