ARMI

Exa e dintorni

Le armi leggere sono vere e proprie armi di distruzione di massa e non possono essere considerate come altri beni di consumo immessi nel mercato globale. Considerazioni a margine della mostra d’armi Exa e della scelta inopportuna di farvi accedere scolaresche.
Anselmo Palini (Docente di Materie Letterarie nella scuola superiore)

Diverse aziende hanno esposto armi leggere a Exa 2013 (Brescia, aprile 2013). Per stare alla “Beretta Holding spa” – una multinazionale che, nel bilancio 2012, ha dichiarato di avere 2600 dipendenti per un fatturato netto di 566 milioni di euro – il comparto ordine pubblico e difesa incideva sul giro d’affari totale del bilancio 2012 per il 16%.
Produrre armi non è come produrre pentole: le armi sono costruite perché sparino, cioè per essere usate contro qualcuno. Certo, qualcuno la pensa diversamente, come il ministro della Difesa Mario Mauro il quale, nel mese di luglio 2013, in occasione del dibattito sugli F35, ha detto testualmente: “Per amare la pace bisogna armare la pace”. Sarebbe interessante capire come Mario Mauro, che si è sempre fatto paladino della dottrina sociale della Chiesa, riesca a coniugare con tale dottrina la sua posizione di ministro della Difesa e il suo sostegno all’acquisto di F35.

Riconversione
Le armi leggere italiane sono state usate in tutti i contesti di guerra e nelle attività di repressione attuate nel secolo scorso dai regimi dittatoriali, come in Brasile, in Argentina, in Cile, in Perù e in Sudafrica ai tempi dell’apartheid.
Il 17 marzo 1983, nel corso del dibattito parlamentare sulla produzione e la vendita di armi leggere italiane, nel suo intervento il sen. Raniero La Valle, riferendosi all’assassinio di Marianella Garcìa Villas, presidente della Commissione per i diritti umani in Salvador e collaboratrice di mons. Romero, avvenuto pochi giorni prima, nel chiedere un ripensamento della politica italiana in materia di armamenti, domandava: “Contro chi sono rivolte le armi che vengono fornite ai regimi dittatoriali dell’America centrale se non contro gli indigeni, i contadini, gli intellettuali? Quelle armi sono state usate in Salvador domenica scorsa per uccidere Marianella Garcìa Villas. L’hanno ammazzata selvaggiamente con le nostre armi, con le armi che servono alla difesa della civiltà occidentale e con il viatico del nostro maggiore alleato. E non solo uccisa, torturata, e con le braccia e le gambe spezzate”.
L’uso di armi italiane da parte di feroci dittature militari o comunque in contesti di guerra pose problemi di natura etica anche a livello sindacale e, infatti, tra gli anni Ottanta e Novanta si organizzarono tre convegni sindacali sulla riconversione dell’industria bellica. Fim-Fiom-Uilm nazionali firmarono un documento unitario dal titolo “Industria bellica. Fim, Fiom e Uilm per la riconversione”.
L’attenzione a queste tematiche raggiunse anche le aule parlamentari e, nell’aprile 1989, il ministro delle Partecipazioni Statali, Carlo Fracanzani, istituì una Commissione ministeriale di studio e l’anno successivo una Commissione per la riconversione. A conferma di questa sensibilità, si ricorda anche, nel 1994, l’istituzione dell’Agenzia per la riconversione dell’industria bellica ad opera della Regione Lombardia. Quest’Agenzia ha lavorato per alcuni anni e ha finanziato progetti di riconversione, salvo poi essere chiusa nel 2003 da Roberto Formigoni.
Allo stesso modo una grande mobilitazione ha portato a far sì che l’Italia aderisse al Trattato di Ottawa per la messa al bando delle mine antiuomo, prodotte anche nel bresciano a Ghedi e a Castenedolo dalla Misar e dalla Valsella. Per effetto di quel trattato, le due aziende citate hanno riconvertito la propria produzione (anche se le mine bresciane, disseminate in decine di Paesi del mondo, continuano a fare vittime e a mutilare bambini e adulti…).

Una legge di civiltà
Grazie alla mobilitazione di associazioni, Chiese e gruppi politici, nel 1990 è stata approvata la legge 185, che ha posto precisi limiti alla vendita delle armi, vietandone esportazioni non conformi alla politica estera e di difesa italiana e la vendita a Paesi che violino i principi della Costituzione italiana o che non rispettino i diritti umani. Tuttavia questa legge è stata diverse volte aggirata, ad esempio vendendo armi non considerate militari ma poi usate nella repressione delle rivolte, come più volte documentato da Opal nei suoi Rapporti. Negli anni della guerra nella ex Jugoslavia, ingenti forniture di armi Beretta sono approdate in Albania, Paese che sosteneva direttamente vari gruppi come l’Ukk. Nel febbraio 2005 i servizi segreti statunitensi comunicavano ai colleghi italiani di aver trovato un certo numero di armi Beretta in Iraq in mano a gruppi vicini a AlQaida. Le commesse militari italiane destinate alla Libia sono passate dai 15 milioni di euro del 2006 ai 112 milioni del 2009 e ciò ha portato il nostro Paese a essere il primo fornitore europeo di armi al regime di Gheddafi. Nel novembre 2009, due mesi dopo la coreografica visita del dittatore libico in Italia, la Beretta ha venduto 11.500 tra pistole, carabine semiautomatiche e fucili a presa di gas alla Libia, armi classificate come “civili” ma in realtà usate dalla polizia di Gheddafi per la repressione delle rivolte.
Armi Beretta e di altre aziende italiane sono in dotazione a forze armate e dell’ordine di un centinaio di Paesi, in alcuni casi adoperate anche per attività di repressione del dissenso.
Secondo i dati Opal (a luglio 2013) nel 2011, 2012 e nei mesi iniziali del 2013, armi italiane, e bresciane, sono state esportate in Kazakistan, il Paese diventato famoso per la vicenda dell’espulsione dall’Italia della moglie del dissidente Ablyazov e della figlia di sei anni. Il Kazakistan è stato più volte denunciato da Amnesty International per la violazione diffusa e sistematica dei diritti umani.

Conclusione
Eppure a Exa ha partecipato una scuola! Exa non è una fiera come tante. Esporre delle armi non è come esporre degli elettrodomestici. Ha scritto Giovanni Paolo II nel messaggio per la Giornata della pace del 1999: Le armi non possono essere considerate come gli altri beni che vengono scambiati sul mercato globale, regionale o nazionale. Il loro possesso, produzione e scambio ha profonde implicazioni etiche e sociali e deve essere regolamentato prestando la dovuta attenzione agli specifici princìpi di ordine morale e legale”.
Le armi leggere sono le principali protagoniste nelle guerre dimenticate e nei conflitti “a bassa intensità” per una serie di motivazioni: la relativa facilità di trasporto, l’ampia disponibilità, il facile impiego e la lunga durata, il basso costo, la manutenzione elementare. Le armi leggere incrementano la violenza (esemplare il caso degli Stati Uniti), l’insicurezza, la paura, l’instabilità. La diffusione delle armi leggere per la difesa personale diffonde l’idea della giustizia “fai da te” e della visione dell’altro come potenziale nemico da cui difendersi con ogni mezzo.
“Produrre armi nella settimana e poi manifestare il sabato per i popoli contro i quali quelle armi saranno usate, è semplicemente incoerente e vergognoso” (Alberto Tridente (1932-2012), sindacalista torinese della Fim-Cisl): una scuola non può da un lato educare alla pace, alla tolleranza, al rispetto, ai diritti umani e, nello stesso tempo, partecipare a una fiera che pubblicizza anche produzioni belliche che nulla hanno a che fare con tali valori.

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