MOVIMENTI

Verdetto finale

Con la sentenza della Corte di Cassazione, si chiude l’esame giudiziario di quanto avvenuto nel 2001 a Genova, in occasione del G8.
E noi ci chiediamo se l’Italia sia veramente in grado di garantire l’effettiva tutela dei diritti fondamentali.
Lorenzo Guadagnucci

Prima la Diaz, poi Bolzaneto: la Corte di Cassazione ha finalmente detto l’ultima parola sui grandi processi scaturiti dal G8 di Genova del 2001. Il giudizio d’insieme è impietoso, sotto ogni punto di vista. Per la gravità dei fatti: i giudici parlano esplicitamente di lesione della dignità umana, di sospensione dei diritti fondamentali. Per l’inadeguata risposta delle istituzioni: mai presi provvedimenti contro i dirigenti imputati e condannati nel processo Diaz, mai sospesi o rimossi gli agenti responsabili di maltrattamenti sui detenuti, mai avviata una seria verifica interna dei meccanismi di prevenzione e sanzione degli abusi. Per l’intrinseca debolezza dell’azione giudiziaria: quasi tutti i reati sono caduti in prescrizione, per cui la pena è stata effettiva solo per i maggiori imputati nel processo Diaz, perché colpiti, come pena accessoria, dall’interdizione dai pubblici uffici e quindi estromessi dai rispettivi incarichi ai vertici della polizia di stato.
Quel che sconvolge è il silenzio seguito a sentenze tanto clamorose. Il silenzio dei grandi media, dei maggiori partiti politici, del Parlamento. Le parole delle parti civili, ripetute per dodici anni, sono state ascoltate solo dai magistrati che hanno istruito i processi e dai giudici che hanno inflitto le condanne.

Via col vento
Erano parole di verità, ma non si potevano ascoltare fuori delle aule giudiziarie, perché avrebbero reso impossibile l’inerzia, l’indifferenza, la sufficienza delle istituzioni, che in questi anni hanno seguito una strategia poco responsabile che ha avuto due pilastri: il sostegno incondizionato ai vertici delle forze di polizia, a prescindere dai fatti e da quanto accertato in sede storica e giudiziaria; il rifiuto di trarre conclusioni (cioè azioni) politiche da quanto avvenuto a Genova nel 2001. La stessa sorte tocca ora ai giudici. Hanno scritto parole pesanti, rese solenni dal rango riconosciuto a magistrati prudenti e posati per ruolo e curricula, ma sono già ora, a poche settimane dalla loro pubblicazione, voci portate via dal vento. A guardar bene, sono grida disperate, quasi un’invocazione al potere politico e parlamentare. I giudici sembrano dire: intervenite, non girate le spalle, stavolta si è superato ogni limite: la dignità della persona è stata calpestata, non solo le leggi ma “i princìpi cardine dello stato di diritto sono stati accantonati” (parole dei giudici di Cassazione su Bolzaneto). Gli alti magistrati sembrano aver chiaro che è in gioco la credibilità democratica delle istituzioni, ma il loro messaggio non è stato ricevuto. Per averne riprova, basta pensare a due episodi recenti.
Il primo: la celebrazione “in mortem” di Antonio Manganelli, il capo della polizia scomparso nel marzo di quest’anno, otto mesi dopo la sentenza Diaz. Manganelli è un uomo che ha sofferto, che ha lottato contro la malattia a cui si deve piena solidarietà umana. Ma il giudizio sull’uomo pubblico riguarda la sua azione nelle istituzioni e il coro di elogi incondizionati venuto dal mondo politico, mediatico e culturale che conta (i potenti di destra e sinistra come i maggiori media, da Repubblica al Corriere della Sera fino a Roberto Saviano) è stato rivelatore. Ha messo in luce la totale rimozione del caso Genova G8. Nei luoghi del potere quanto avvenuto nel luglio 2001 non si può nemmeno nominare. È stato cancellato. È come se non fosse esistito. Eppure Manganelli è stato responsabile, al pari del suo predecessore Gianni De Gennaro, della protezione garantita ai dirigenti di polizia sotto processo per il caso Diaz, incredibilmente mantenuti al loro posto fino al giudizio di Cassazione e costretti, il 6 luglio 2012, a non presentarsi in ufficio – in luoghi rilevantissimi sotto il profilo operativo – per effetto delle condanne e delle interdizioni dai pubblici uffici inflitte il giorno prima. In quale altro Paese europeo sarebbe avvenuto qualcosa del genere? Manganelli non ha pensato di dimettersi a fronte di una sconfessione così grave della sua scelta di non sospendere né rimuovere nessuno, sfidando di fatto la Cassazione, né ha preso provvedimenti di alcun tipo per gli altri condannati non interdetti e quindi rimasti indisturbati ai loro posti.
È possibile ignorare tutto ciò, nel considerare la carriera di un altissimo dirigente di polizia? No, non è possibile, se non in un Paese privo di un’opinione pubblica capace di esercitare una seria e libera critica del potere.

Il dopo Bolzaneto
Il secondo episodio riguarda il “dopo Bolzaneto”. Le sentenze hanno sanzionato – sia pure con effetti pressoché nulli – causa prescrizione – ciò che la storia ha già registrato da un decennio, cioè che nella caserma genovese furono sospesi per tre giorni i diritti fondamentali e che si arrivò a praticare la tortura. Ebbene, quale è stata la risposta delle istituzioni? Il mantenimento ai loro posti di tutti i condannati – agenti e personale medico – e l’avvio in Parlamento della discussione di un progetto di legge sull’introduzione del reato di tortura che ha il sapore della macabra beffa. Il testo base si discosta dagli standard internazionali (dettati in sede Onu) ed evita di definire la tortura come reato specifico delle forze dell’ordine. Le maggiori forze politiche (il testo è bipartisan) hanno cioè recepito la richiesta venuta dagli apparati, insofferenti all’idea di una legge ad hoc sulla tortura, vissuta come un’implicita accusa di propensione agli abusi di potere. Così facendo, qualificando cioè la tortura come reato generico, si vanifica il fine principale della legge, cioè la prevenzione. Lo Stato rinuncia a inviare a chi lavora nelle forze dell’ordine un messaggio chiaro di rifiuto di ogni violenza e di ogni abuso; rinuncia a riconoscere ciò che i tribunali hanno certificato e ciò che Amnesty International segnala da molti anni nei suoi rapporti annuali, cioè che l’Italia è un Paese nel quale si pratica la tortura. Questo è lo stato reale dei diritti umani e civili nel nostro Paese. Diciamolo con chiarezza: l’Italia è sempre meno capace di garantire l’effettiva tutela dei diritti fondamentali. Anni di inerzia, di minimizzazione, di indifferenza a tutti gli allarmi e a tutte le evidenze, hanno prodotto una pericolosa assuefazione. La logica autoritaria prevale sull’etica dei diritti. Perciò il bilancio politico, a dodici anni dal G8 di Genova, è particolarmente pesante.
Le violenze istituzionali sono riuscite ad annichilire un movimento che mostrava un’insolita freschezza, un’inconsueta capacità di mettere a fuoco i veri nodi politici del tempo presente. Quel movimento era, al tempo stesso, una grande università popolare e un’aggregazione di tutte le forze protese verso il cambiamento, nella direzione della giustizia globale. I poteri, spaventati, hanno criminalizzato quel movimento attraverso l’uso della forza. Sono riusciti ad annichilirlo e a screditarlo, pagando tuttavia un prezzo altissimo, che grava oggi sulla nostra società. I nodi politici individuati dal movimento nel 2001 – le diseguaglianze crescenti, la diffusione di forme di neo schiavitù, l’espansione abnorme e mortale del sistema finanziario, la distruzione progressiva della natura, il collasso di un’economia votata a un’impossibile crescita continua dei consumi – sono ancora le questioni chiave del nostro tempo, ma è diminuita la capacità dei Paesi occidentali – Europa e Nord America – di trovare una via d’uscita da un’impasse ormai pluriennale. Siamo più poveri di idee, abbiamo una società civile meno vitale. E, intanto, sono cresciute e si sono radicate le tendenze autoritarie. Le violenze e gli abusi che nel 2001 scioccavano l’opinione pubblica, oggi sono un’eventualità accettabile. La criminalizzazione del dissenso è pratica quotidiana (la Val di Susa insegna), nemmeno la tortura scandalizza più. Mai come oggi appare chiara la contraddizione esistente fra sviluppo economico (così come lo intendono i poteri oggi dominanti) e democrazia. Ne deriva una lezione: la lotta per i diritti umani e civili non dev’essere disgiunta dall’impegno per la giustizia e i diritti sociali. E viceversa.

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