Un volto che chiama
che oltrepassa i confini dell’umano.
V come volto, come viso, da vedere; ma anche come vettore. Ogni volto è un essere umano che chiama, ma anche ogni essere umano è un volto che mi guarda. Non è solo un viso, cioè qualcosa che si vede e di cui ci si accorge, un viso da guardare, talvolta da ammirare, da compatire. Ma è un volto, perché è rivolto verso di me, si gira per incontrare il mio sguardo, per intercettare i miei occhi, per essere guardato e, a sua volta, per guardare ancora. È un vettore di comunicazione e tende a essere uno strumento di comunione. Tocca l’essenza della persona umana che si gira e si protende verso altre persone per vedere...
Vedere che cosa? Vedere il mondo, con i propri occhi e con lo sguardo dell’altro. Ciò di cui Gesù diceva «La lucerna del tuo corpo è l’occhio. Se il tuo occhio è sano, anche il tuo corpo è tutto nella luce; ma se è malato, anche il tuo corpo è nelle tenebre. Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra» (Lc 11,34-35).
La frase alquanto sorprendente di Gesù può significare molte cose, ma in primo luogo indica la predisposizione che ciascuno ha per l’altro, che pertanto può essere approcciato di buon occhio, cioè con benevolenza; oppure con malevolenza, appunto di cattivo occhio. In ogni caso, l’occhio è la finestra dell’anima. È finestra, nel senso che lo sguardo è da essa predisposto e condizionato. Un animo intimorito e insicuro guarderà con sospetto e timore il volto altrui, un animo terrorizzato vi leggerà la minaccia, mentre un animo afflitto tenderà a commuoverlo o troverà strano che il volto altrui sia sorridente. È già un piccolo miracolo se quel sorriso riuscirà a rasserenare o almeno a confortare lo sguardo dell’altro.
Eppure è un miracolo possibile e la comunicazione, quella vera, quella che tende alla comunione, opera simili miracoli. In quali momenti e in che maniera?
Innanzi tutto nell’apprendimento della propria umanità. Sì, perché l’altro, attraverso la comunicazione dei volti, è la prima scuola di ogni io. Dall’altro imparo chi io sia e che cosa io ci faccia al mondo. Dall’altro ho appreso e apprendo il sorriso, altro piccolo miracolo, che qualcuno, collegandolo all’ironia e a ciò che scoppia nella scoperta dell’insolito, ha chiamato “segnale di trascendenza”. Giacché si tratta non di un teologo, ma di un sociologo, desidero segnalarlo a chi volesse approfondire l’argomento. È P. Berger e ne ha parlato ne Il brusìo degli angeli, mentre per il mondo culturale-spirituale a noi più vicino basterà qui ricordare ciò che la tematica del volto ha significato per un pensatore come Lévinas e per alcuni dei nostri testimoni di pace, che l’hanno ripresa e sviluppata sul versante della cultura della pace. Testimoni come don Tonino Bello e Alex Zanotelli.
Profezia e promessa
Il volto è anche una profezia e una promessa. Profezia, perché parla innanzi a me e agli altri, come parla davanti a ciò che è successo o sta per succedere. Promessa, perché, se è mosso dalla benevolenza, è un anticipo di una qualità positiva di rapporti e di soluzione di ciò che oggi sembra poco o per niente realizzabile. Il volto si protrae, così, non solo verso ciò che io sento e sono, ma verso ciò che io posso essere, superando me stesso e realizzando quanto gli occhi dell’altro mi suggeriscono e mi ispirano.
Ma in questa maniera il volto cerca, sia che l’essere umano lo sappia sia che non lo sappia, il volto di Dio, ed è nella ricerca di quel volto la positività e persino la bellezza di ogni volto.
Ricordiamo tutti il refrain di non pochi salmi: «Il tuo volto io cerco, Signore, non nascondermi il tuo volto!». La ricerca del volto è qui chiaramente la ricerca di Dio, la cui espressione forse più drammatica appare in Giobbe, emblema di ogni uomo tormentato fisicamente e moralmente. Egli si rivolge a Dio con l’accorata protesta «Perché nascondi il tuo volto e mi consideri un nemico?» (Gb 13,24). Sconfortato lamento, che anticipa il grido di Gesù sulla croce, nel momento in cui appare l’inquietante realismo dell’autoriduzione del Figlio di Dio all’uomo dei dolori, fino all’esclamazione suprema, che chiude la sua vicenda umana su questa nostra terra, con l’accorata nostalgia del Volto del Padre che è anche l’inizio del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Il grido è pur sempre espressione di una fede personale e collettiva, come quella che, ancora in un altro Salmo, prende questa forma: «Perché nascondi il tuo volto e ignori la nostra afflizione e la nostra oppressione?» (Sal 44,24). Vi si può cogliere un’invocazione personale, ma questa volta, a nome di una collettività confusa, alla quale non resta altra speranza che quella di rivedere un volto amichevole, al di là dei volti feroci o assolutamente indifferenti dei propri oppressori.
La via della pace
Il volto di Dio è in questi frangenti molto più che uno stendardo di riscossa intorno al quale raccogliersi. È il ritorno a una visione di libertà a fronte dell’asservimento, di salvezza nella totale disfatta, perché rende ancora possibile credere all’amore, avendo colto proprio l’amore nel volto di Dio: «Non con la spada, infatti, conquistarono la terra, né fu il loro braccio a salvarli; ma la tua destra e il tuo braccio e la luce del tuo volto, perché tu li amavi» (Sal 44,4).
In definitiva, attraverso il grande tema del volto, ritroviamo la via della pace perché ne ritroviamo gli indispensabili elementi che la caratterizzano: il rispetto dell’altro e della sua inalienabile dignità, la benevolenza e l’apprendimento reciproco di ciò che ci accomuna al di là delle nostre differenze, la ricerca di una positività, nonostante la precarietà e persino la negatività di situazioni contingenti.
Ma tutto ciò è possibile perché ogni volto contiene non solo il richiamo, ma il luccichio del divino nell’uomo. Contiene e diffonde qualcosa della luce di Dio e, attraverso di essa, l’insuperabile convincimento che ogni uomo è sempre oltre se stesso, così come la storia che viviamo non è altro che la preistoria di ciò che vivremo e per cui dobbiamo costantemente impegnarci.