Pastori in caserma
Allo scoppio della prima Guerra mondiale, la tradizione pacifista dei valdesi medioevali era sparita da un bel pezzo. Le persecuzioni, fattesi sempre più dure con l’adesione alla Riforma protestante nel 1532, avevano, infatti, spinto i valdesi sulla strada di una resistenza armata che ben si raffigura nella statua che ancora oggi campeggia a Torre Pellice, la “capitale” della comunità, dedicata a Enrico Arnaud: questo pastore evangelico a cui si deve l’organizzazione del “rimpatrio” di oltre mille valdesi in Italia nel 1689, dopo il forzato esilio in Svizzera, viene raffigurato con una spada in mano: l’icona di un condottiero militare più che di un uomo di chiesa.
L’atto di Carlo Alberto che nel 1848 concesse l’emancipazione ai valdesi, rafforzò in questi ultimi un sentimento di riconoscenza nei confronti della Casa Savoia e, con questo, una propensione favorevole alle sue imprese militari: l’Italia che si univa contro gli Asburgo, i Borbone ma anche contro lo Stato Pontificio, del resto, apriva un orizzonte ideale e politico nel quale i valdesi si riconoscevano con convinzione.
Quando l’Italia entrò nella Grande guerra, i valdesi non fecero fatica a inserirsi negli apparati militari e a nominare dei cappellani militari inquadrati come ufficiali dell’esercito. Si deve proprio al figlio di un pastore e per un breve periodo studente di teologia egli stesso, lo scrittore Piero Jahier, uno dei libri più popolari dell’epoca, intitolato “Con me e con gli alpini”: un classico della letteratura patriottica post-risorgimentale.
Il 1929 è l’anno del Concordato tra lo Stato e la Chiesa cattolica, strumento che consolida e rafforza l’istituto dei cappellani militari. Nello stesso anno il regime approva una legge sui “culti ammessi” con la quale si intende regolamentare il rapporto con le altre confessioni religiose, ovviamente compresi i valdesi. Nella legge vera e propria il tema della cappellania nelle Forze Armate non era menzionato; veniva invece codificato in un regio decreto dell’anno successivo nel quale si affermava che “in caso di mobilitazione delle Forze Armate dello Stato, l’assistenza religiosa dei militari acattolici, da esercitarsi da ministri di un culto ammesso nel regno la nomina dei quali sia stata approvata ai termini dell’art. 3 della legge, può essere autorizzata dall’autorità militare cui è stata affidata la suprema direzione delle operazioni belliche”. In altre parole la norma prevedeva il riconoscimento di cappellani anche valdesi che però non erano necessariamente militari. Non è un dettaglio: è questione di sostanza perché sottraeva la figura del cappellano alle logiche e alle gerarchie proprie dell’ordinamento militare. Il fascismo, inoltre, aveva raffreddato l’entusiasmo patriottico valdese e i cappellani che la Chiesa aveva nominato per l’assistenza ai militari avevano un ruolo e un riconoscimento assai diversi rispetto ai loro predecessori di venticinque anni prima: erano meno militari e più pastori, meno graduati e più curatori d’anime.
Per la comunità valdese, il dopoguerra segnò anche l’inizio di una lunga battaglia per la libertà religiosa e, in particolare, per l’applicazione dell’articolo 8 della Costituzione che riconosce la possibilità che esse possa stipulare delle intese con lo Stato. L’iter per arrivare all’applicazione di un articolo della Costituzione si concluse soltanto nel 1984, pochi giorni dopo la revisione del Concordato tra lo Stato e la chiesa cattolica. Nell’intesa non si menzionano i “cappellani militari”, ma si garantisce ai militari in servizio la possibilità di partecipare alle attività della Chiesa valdese e, più genericamente evangelica, più vicina alla sede del loro servizio. Soltanto nel caso nell’area non vi sia alcuna presenza o attività evangelica, un pastore può essere autorizzato a celebrare un culto “nei locali predisposti d’intesa con il comando da cui detti militari dipendono” (art. 5). Con questo articolo la Chiesa valdese ha di fatto rinunciato ai “pastori con le stellette” ma, soprattutto, indica e suggerisce un diverso modello di concepire l’assistenza spirituale a chi opera nelle forze armate: più comunitario, più “civile” e slegato da luoghi e simboli militari.
Infine, l’Intesa esplicita che gli oneri di questo servizio pastorale sono a carico della Chiesa e non dell’esercito o dello Stato. Non è una dichiarazione antimilitarista ma il frutto di una scelta teologica che indica come per i valdesi – e più in generale per tutti i protestanti che con varie intese hanno ribadito questa posizione – tra la Chiesa e la caserma c’è una distanza difficilmente colmabile.