Padre o tenente?

A colloquio con lo psichiatra Vittorino Andreoli.
Quanto l’essere graduati influenza la relazione tra militari e sacerdoti?
Intervista a cura di Vittoria Prisciandaro

Ha studiato i giovani e la malattia, il disagio e gli aspetti creativi della realtà. Vittorino Andreoli, fra i più autorevoli studiosi italiani della psiche, ha dedicato un’approfondita analisi anche al ruolo del sacerdote. L’ultimo testo, edito da Piemme, è su “Il Gesù di tutti”, dove scrive: “Quando a diciotto anni, da credente, da chi crede di credere, sono passato nella schiera di coloro che credono di non credere, Gesù non è sparito dalla mia vita, ha continuato a esistere come uomo davvero speciale; ha continuato a essere presente in me e a esercitare il suo fascino”.

Professore, i suoi saggi ci aiutano a capire come interpretare la società che ci circonda. Come vede oggi la presenza dei sacerdoti tra le Forze Armate?
Ho una discreta conoscenza dell’ambiente militare perché ho avuto modo di collaborare con lo Stato maggiore negli anni passati e mi sono occupato del comportamento e dei bisogni dei soldati. Le condizioni psicologiche evidentemente sono molto diverse se parliamo di soldati in tempo di pace e quelli che svolgono qualche missione, come si dice oggi per non toccare la parola guerra.
La vita militare è fatta per lo più di persone molto giovani, è piena di conflittualità, frustrazioni, una condizione innaturale rispetto a una vita in comunità, in famiglia, fatta di esperienze e compiti molto vari. Il sacerdote che sta tra i militari ha quindi una grande importanza, perché c’è bisogno di una persona che sia disponibile, possa ascoltare, avvicinare, capire. Un sacerdote per la comunità. In questo discorso la prima grande difficoltà è il grado militare. È una cosa che non ho mai visto con simpatia, perché il sacerdote deve essere percepito diverso dalla gerarchia militare. La gerarchia militare è parte della funzionalità di un esercito, non si guarda la faccia, ma le spallette, per vedere il numero, il potere, il comando. A mio parere il sacerdote non dovrebbe essere così, non dovrebbe avere un grado. E c’è pure una differenza tra il sacerdote ordinario di una caserma e il prelato che ha il comando, che è a capo di tutta l’organizzazione sacerdotale all’interno delle caserme.

Le stellette condizionano da un punto di vista relazionale?
Ho un grande rispetto per certe scelte, sia dello Stato che della Chiesa, ma la mia è un’osservazione che parte dal fatto che il grado condiziona. Il sacerdote deve essere colui che aiuta la comunità e i suoi membri. Il grado pone la comunità in uno stato di soggezione. Esattamente come un caporale maggiore è in soggezione di fronte a un tenente, a un maresciallo. Figuriamoci di fronte a un generale di brigata! È quel segnale che mantiene a distanza, la distanza del grado, e non è certo segno di quel “chi è più grande tra voi sia come colui che serve”. Il tenente prete è un tenente e porta le stellette.

In base alla sua esperienza, i soldati avvertono questa “distanza” ?
Sì, questa cosa non è molto amata dai soldati. Perché in fondo parlano con un superiore. Faccio un esempio: ciò che racconto al sacerdote tenente maggiore rimane tra me e lui o sto parlando con un superiore che serve l’organizzazione? Perché, tranne che chiaramente nel caso della confessione, non c’è nemmeno la privacy. Se lo incontro nei viali della caserma e sono giù di morale gli dico “Padre...” e non tenente! Un padre non ha gradi, ha l’autorevolezza che viene dalla relazione... il grado può essere un blocco. Anche perché il segreto di un’organizzazione militare c’è se sei in confessione, ma se si parla così, di vicende relative alle difficoltà della vita di caserma, quella chiacchiera può essere trasmessa e magari porre la persone che la raccontano in conflitto con altre.

Il sacerdote è anche colui che riunisce la comunità nei momenti delle liturgie…
È un altro punto. Sovente la presenza del sacerdote è solo come celebrante: delle messe, di alcune funzioni e liturgie. Le cerimonie militari prevedono sovente la presenza e la parola dell’ufficiale sacerdote. Predomina il rito – che poi è sempre alla presenza non solo dei soldati, ma anche degli ufficiali –; il rito ha certamente una funzione di partecipazione simbolica e in termini di psicologia certamente aiuta, da’ anche sicurezza. Però il soldato ha bisogno soprattutto di un rapporto diretto, di un linguaggio esplicito e non solo rituale. Adesso la scelta del mondo militare è quasi un’estrema ratio e c’è un’insoddisfazione di fondo, si avverte molto la solitudine, a volte c’è l’idea di aver sbagliato scelta. E poi non è più una comunità divisa paritariamente tra le regioni, è in gran parte una comunità della nostra Italia del Sud, si avverte quasi una separatezza. Il soldato, insomma, ha bisogno di parlare di qualcosa di molto più umano. Il sacerdote con le stellette è più la persona della celebrazione che della relazione. Occorrerebbe un sacerdote di caserma, tra i militari.

Che caratteristiche deve avere il sacerdote che fa questo servizio?
Abitualmente il sacerdote che è stato destinato a una caserma è da solo, bisognerebbe che fossero di più, ha bisogno anche lui di una comunità. Anche perché la situazione è complicata: ci sono soldati in uno stato di disagio e insoddisfazione che però non devono dimostrare, sono tenuti a un’obbedienza fatta obtorto collo. La comunicazione del prete deve partire dalle necessità. Per spiegarmi meglio faccio un’analogia con il sacerdote del carcere, che conosco particolarmente bene. Lì si parte dai bisogni più banali. Certo, non ci si ferma a quelli, ma sono un punto di partenza per poi parlare del bisogno di Dio. I riti non sono il contesto più adatto per questo tipo di relazione.

Lei ha scritto “Il Gesù di tutti”. Questo personaggio che continua ad affascinarla che cosa ha da dire alla vita militare?
È un modello universale di umanità a cui la società del terzo millennio – credente, non credente, atea, agnostica – dovrebbe tornare a ispirarsi. Anche in quell’ambiente bisognerebbe farlo conoscere, perché è il più grande esempio di uomo che abbiamo. Dovrebbero parlare molto di questa figura che insegna che in qualsiasi luogo e situazione domina un comportamento di amore. Una catechesi che rifletta sul potere militare e il potere dell’amore. Il generale del prete dovrebbe essere Gesù di Nazareth, la sua missione è insegnare l’amore in un luogo di comando.

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