Chiese parallele?
della Pacem in terris, è possibile ancora oggi sostenere che ci possa essere spazio per una partecipazione diretta del sacerdote alla struttura dell’esercito?
La figura del cappellano militare è da tempo oggetto di accese controversie. L’appartenenza all’esercito, cioè a un’istituzione che è, per sua natura, finalizzata a fare la guerra, sembra a molti (e non a torto) incompatibile con l’esercizio di un ministero, quello sacerdotale, il cui compito è, invece, l’edificazione della comunione e della pacificazione universale. La contraddizione stridente tra le “stellette” e la “croce” non ha mancato anche in passato di suscitare interventi infuocati: è sufficiente ricordare qui la lettera di don Milani ai cappellani militari, resa famosa anche dagli strascichi giudiziari che hanno fatto seguito al dibattito suscitato dalla sua pubblicazione.
Il clima creato dal Concilio ha contribuito, in misura determinante, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, ad accentuare nelle comunità cristiane l’atteggiamento critico verso tale categoria di ecclesiastici, dando l’impressione, almeno nel primo periodo del postconcilio, che, anche a livello di governo della Chiesa, si stessero studiando forme nuove di presenza dei sacerdoti nelle caserme non più contrassegnate dall’equivoco della loro iscrizione, a tutti gli effetti, nell’ambito dell’esercito. Tutto questo si è, tuttavia, dissolto nel volgere di pochi decenni e la figura del cappellano militare non solo ha continuato a persistere, ma sembra essersi persino rafforzata con il pieno avvallo delle autorità ecclesiastiche, che hanno provveduto a fornirle nuove giustificazioni e all’organizzazione che ad essa fa capo un nuovo statuto istituzionale.
Messaggio evangelico
Le ragioni dell’incoerenza segnalata continuano, d’altronde, a rimanere intatte, e coinvolgono aspetti diversi (e complementari) della riflessione teologica: dai fondamenti evangelici alla tradizione patristica, fino all’ecclesiologia e al significato della ministerialità sacerdotale nella comunità cristiana, nonché alle concrete modalità del suo esercizio.
Ma è bene procedere con ordine, partendo da ciò che è più importante. Non vi è dubbio che il messaggio biblico sia essenzialmente un messaggio di pace: il termine shalom, che ricorre con frequenza nella rivelazione, così da poter essere considerato una parola-chiave della Bibbia, evidenzia la tendenza già presente in Israele a concepire la pace come un dono divino e come un’esperienza proiettata nel futuro, che avrà cioè pieno compimento nei tempi messianici.
Con l’ingresso del Figlio di Dio nella storia e con l’avvento del regno, la pace diviene una realtà ormai presente, nei confronti della quale i cristiani sono chiamati a rendere anzitutto testimonianza. È significativo che, nel discorso della montagna, che contiene il programma etico del Nuovo Testamento, alla categoria degli operatori di pace venga riservato il titolo più alto delle beatitudini: “Saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9).
La modalità di tale testimonianza è ben espressa peraltro nei versetti successivi delle “antitesi”, dove viene indicato l’itinerario da percorrere per rendere operativo l’impegno di edificazione della pace: dalla realizzazione di rapporti veri che promuovano la qualità della vita (vv. 21-26), all’esercizio della nonviolenza (vv. 38-42), fino all’imperativo dell’amore del nemico (vv. 43-48). Un impegno, dunque, assai esigente, che comporta il ribaltamento di ogni logica mondana e l’adozione di un atteggiamento ispirato alla conversione, la cui meta da perseguire è la ricerca della perfezione del Padre: “Voi, dunque, siate perfetti, come è perfetto il Padre mio celeste” (v. 48).
La radicalità di questo messaggio esige da parte di tutti i membri della Chiesa, e in particolare dei sacerdoti chiamati ad esercitare in essa un ministero di particolare rilevanza, una specchiata coerenza, con il rifiuto di ogni forma di compromesso.
La Chiesa delle origini
Per questo, le comunità cristiane dei primi secoli (o almeno una parte preponderante di esse) rifiutavano con forza e pervicacemente – è eloquente in proposito la testimonianza dei Padri – il servizio militare, stabilendo che il cristiano non poteva entrare a far parte dell’esercito e che chi vi faceva parte e successivamente si convertiva al cristianesimo, doveva rinunciare da quel momento all’uso delle armi. Il ripudio della guerra era dunque assoluto, e ad esso si accompagnava una vasta attività volta a far crescere, a tutti i livelli, ordinamenti pacifici destinati a superare i conflitti e a comporre le controversie.
Solo più tardi, dopo l’editto di Costantino, che metteva fine alla persecuzione e instaurava un rapporto di reciproca collaborazione tra Impero e Chiesa, si introduceva la dottrina della “guerra giusta” – Agostino è il primo a parlarne e a delinearne i connotati – che, pur avendo di per sé il fine positivo di porre dei limiti alla legittimità del ricorso alla guerra mediante la definizione di precise condizioni e regole (lo ius ad bellum e successivamente lo ius in bello), finiva, tuttavia, per sancirne la legittimità, obbligando i cristiani, divenuti nel frattempo a tutti gli effetti cittadini, a entrare nell’esercito e, se necessario, a prendere parte alle azioni belliche.
Prendeva così il sopravvento una lettura spiritualizzata del discorso della montagna che ne destoricizzava il contenuto e ne stemperava la normatività, riducendone la portata a semplici consigli per “anime belle” e, in ogni caso, a istanze riguardanti le scelte individuali, ma che non potevano (e non dovevano) essere trasferite sul terreno sociale. La legittimazione della violenza e del ricorso alla guerra nasce, dunque, da una sorta di sdoppiamento della coscienza cristiana, per il quale si separa nettamente l’adesione interiore al Vangelo dai comportamenti esterni, soprattutto pubblici, dove a prevalere sono le logiche del potere mondano.
Questa schizofrenia spiega (ma non giustifica) la partecipazione all’esercito di sacerdoti, che contraddicono in questo modo la loro identità originaria in nome di un presunto servizio pastorale, che rischia di diventare una vera e propria contro-testimonianza. Non è certo facile (per non dire impossibile) comporre la funzione comunionale propria del ministero sacerdotale, che ha un carattere universalistico, con la partecipazione a un’istituzione di parte, che si propone, facendo la guerra, di sconfiggere il nemico!
Dopo la pubblicazione della Pacem in terris di Giovanni XXIII, che ha sconfessato definitivamente il concetto di “guerra giusta”, affermandone la radicale irrazionalità (alienum a ratione), è difficile sostenere che ci possa essere ancora spazio (se pure ce ne è stato in passato) per una partecipazione diretta del sacerdote alla struttura dell’esercito. È un vero controsenso continuare a mantenere tale presenza, che finisce per rendere meno efficace e addirittura ambigua la testimonianza ecclesiale, compresa quella che ha visto impegnati in prima persona i più recenti pontefici, ultimo fra tutti papa Francesco, con interventi puntuali e inequivocabili.
Accanto alle motivazioni di fondo segnalate, l’attuale ordinamento dei cappellani militari risulta poi anacronistico anche dal punto di vista ecclesiologico. Il fatto che esista per i cappellani militari un’apposita struttura di Chiesa, con a capo un vescovo, l’ordinario castrense (che per di più è anche un generale dell’esercito), risponde infatti a quella idea di “Chiesa parallela”, che sembrava essere stata del tutto sconfessata dal Vaticano II, il quale, facendo proprio il concetto di “Chiesa locale”, considera il territorio come il criterio decisivo del costituirsi della Chiesa.
In realtà, il caso della Chiesa castrense, per quanto singolare e – per le ragioni ricordate – particolarmente imbarazzante, non è l’unico esempio della tendenza ricordata. Il postconcilio ha visto purtroppo il pullulare, soprattutto durante il pontificato di Giovanni Paolo II, di Chiese trasversali legate a movimenti, associazioni e gruppi ecclesiali che, eludendo il criterio territoriale, conservano la loro piena autonomia. Lo stesso concetto di “Chiesa locale” appare per lo più ridimensionato (per non dire del tutto accantonato) e sostituito da quello di “Chiesa particolare”, che, oltre a guardare alle diverse Chiese come ad altrettante porzioni della Chiesa universale di Roma, dunque privandole della loro piena identità di Chiesa, e ripristinando il centralismo, creano segmentazioni preoccupanti (con esiti spesso conflittuali) all’interno della comunità cristiana, perpetuando privilegi, che attentano al principio della piena uguaglianza di tutti i membri del popolo di Dio e mettendo in pericolo l’unità della Chiesa.
Una nuova forma di assistenza
Affermare – come si è fatto – che non sussistano motivazioni plausibili a sostegno del mantenimento dell’istituto dei cappellani militari non significa automaticamente negare la necessità dell’assistenza religiosa e spirituale a chi svolge attività militare. Anche coloro che si sottopongono al servizio militare, che è oggi nel nostro Paese – è bene ricordarlo – volontario, o che fanno professionalmente la scelta di impegnarsi nell’esercito hanno diritto all’assistenza religiosa. Ma l’esercizio di questo compito potrebbe – ci pare – essere direttamente demandato alle Chiese locali e, per loro tramite, alle stesse parrocchie sul cui territorio sono presenti le caserme.
La delega a sacerdoti diocesani di occuparsi dei militari presenti sul territorio, oltre a garantire il loro inserimento nell’ambito della Chiesa locale e a evitare il mantenimento dell’equivoco attuale, consentirebbe di rendere più limpida la presenza del sacerdote in mezzo ai giovani militari. Il fatto che egli non appartenga alla loro istituzione, magari in posizione di vantaggio rispetto a molti di essi per titoli acquisiti, che non sussistano per lui possibilità di carriera all’interno del mondo militare e che non percepisca stipendi legati ai gradi militari sono altrettanti fattori che gli garantiscono libertà di movimento e rendono più efficace l’esercizio del ministero.
La povertà della Chiesa, che costituisce il giusto assillo di papa Francesco, è anche rinuncia a ogni forma di potere, specialmente se ispirato a logiche mondane o modellato su di esse. Il “no” alla perpetuazione dell’attuale sistema dei cappellani militari non nasce dunque da ragioni politiche e tanto meno da preconcetti ideologici, ma risponde a una profonda esigenza di fedeltà alla causa del Vangelo.