POPOLI DIMENTICATI

Primavera sahrawi?

Nessuno ne parla, ma la protesta che ha coinvolto il Nord Africa e il Medio Oriente è cominciata nel Sahara Occidentale occupato dal Marocco. Protagoniste? Soprattutto le donne.
Anna Assumma

La primavera araba, che tra delusioni e nuove fiammate attraversa Medio Oriente e Nord Africa, è cominciata nel Sahara Occidentale occupato dal Marocco. Era il 9 ottobre 2010: nell’accampamento di Gdem Izik 20.000 sahrawi si erano radunati per rivendicare i propri diritti e la fine delle discriminazioni. Nayem Elgarhi, un ragazzino di 14 anni, venne ucciso dall’esercito marocchino mentre con la famiglia cercava di raggiungere il luogo della protesta. Pochi l’hanno scritto (tra i pochi Noam Chomsky), quindi pochi lo sanno.

Il deserto il muro
Pochi sanno che il Sahara Occidentale è l’ultima colonia, in Africa.E che per “difenderla” esiste un muro, nel deserto, lungo 2500 chilometri. L’ha costruito il Marocco. È fatto di sabbia, preceduto da mine, e disegna il limite tra le terre liberate dalla resistenza sahrawi prima del cessate il fuoco del 1991 e quelle ancora occupate dall’esercito marocchino.
Pochi sanno che c’è un popolo, quello sahrawi, che da trentanove anni si vede negato il diritto di esistere, e che dal 1974 vive diviso: circa 200 mila persone in Algeria, da un lato del muro, in tendopoli allestite in fretta dopo la fuga e, caso unico, gestite dagli stessi rifugiati; circa 84 mila dall’altro, sotto occupazione marocchina, nel Sahara Occidentale. Lì, in un territorio che era il loro e che molte mappe impropriamente annettono al Marocco – giuridicamente non lo è – da anni manifestazioni pacifiche vengono represse con una brutalità documentata da fotografie e video inequivocabili. Le poche cronache libere raccontano di atti di violenza, sparizioni, morti (38 solo a Gdem Izik), arresti arbitrari. Ma nessuno ne parla.
Come possa realizzarsi un’omissione di questa portata – la cancellazione di un popolo dalla carta geografica, dalle cronache e dalle priorità in campo di giustizia internazionale – è difficile dirlo. Probabilmente per una serie di concause, che vanno dall’asservimento dei media alla notizia che fa audience e quindi numeri; ma soprattutto per una serie di intricati intrecci.
Quelli economici, visto che il territorio occupato rende, e molto bene. Solo le miniere di Bou Craa fanno del Marocco (che le sfrutta senza averne diritto) il secondo produttore di fosfati al mondo.
Quelli strategici: il difficile equilibrio nei rapporti tra Occidente e Paesi arabi “amici”, in vista di una lotta comune alla rete di al Qaida, può anche mettere in secondo piano i diritti.
Un’altra ragione va ricercata nel fatto che i sahrawi sono relativamente pochi, e la loro resistenza si è espressa con modalità pacifiche. Che, quindi, non fa “pagina”, sui giornali. Per questo sono in tanti a sperare che la questione, per sfinimento, si sgonfi, che nei campi profughi la gente accetti una seconda diaspora (verso cosa non si sa), che gli occupati accettino l’occupante.

Protagonisti
Ma c’è una variabile di cui gli affossatori, attivi e passivi, della questione sahrawi non hanno tenuto conto: sono i giovani. E soprattutto le donne. In un mondo arabo dove la ribellione giovanile, la sottomissione femminile e il terrorismo sembrano essere i temi portanti, ecco che talvolta le carte si accoppiano in modo diverso, mettendo ragazze per nulla sottomesse e avvolte nella loro coloratissima melfa, l’abito tradizionale, in prima linea accanto ai manifestanti maschi. A piccoli gruppi occupano piazze e vie gridando le loro ragioni, sventolando bandiere che lì, sotto occupazione, sono illegali. Non le ferma la paura delle conseguenze che il loro gesto, sicuramente, porterà con sé: schedatura, arresto, violenze.
Per vederle, non è necessario superare i divieti posti dalla polizia marocchina agli occidentali che vogliono “visitare” i territori occupati. Basta guardare i video girati dagli attivisti durante le manifestazioni, e fare i conti con scene di violenza inaudita, probabilmente mai trasmesse da un media internazionale. Ci sono anche le fotografie, dove le donne aggredite e torturate mostrano, scoprendo parti del corpo, i segni lasciati dalle violenze. Bandiera di resistenza pacifica e di indipendenza che mai avrebbero voluto usare. Dal 2010 il loro corpo, il loro volto, si sono trasformati in uno strumento visibile di lotta. Il volto di Aminatou Haidar, attivista sahrawi che ha subito violenze, detenzione, sequestri, è stato il “manifesto” che, per qualche tempo, ha portato la questione sahrawi in tutto il mondo, sui giornali, sugli stendardi appesi ai balconi dei municipi. Vale la pena di ricordare la sua storia: di ritorno dagli Stati Uniti, dove aveva ricevuto, dalla Train Foundation di New York, il Civil Courage Price 2009 “per la sua coraggiosa Campagna contro gli abusi e le sparizioni dei prigionieri di coscienza”, venne fermata all’aeroporto di Layoune, nel Sahara Occidentale. La ragione del fermo: sulla carta di sbarco aveva scritto Sahara Occidentale anziché Marocco. Ma naturalmente sotto accusa era il suo lavoro di ambasciatrice itinerante del popolo sahrawi. Venne letteralmente deportata a Lanzarote, dove iniziò uno sciopero della fame che si concluse solo con il permesso di ritornare a casa. Nel Sahara Occidentale.

Rivoluzione in rosa
Anche nei campi profughi c’è stata, negli anni, una grande, silenziosa ma energica rivoluzione al femminile. Durante la prima fase della lotta di liberazione le donne hanno avuto una posizione di primo piano, erano loro a prendersi cura di questo nuovo modello di società, occupandosi dell’organizzazione dei servizi, dell’amministrazione, della macchina dello Stato. Paradossalmente, proprio la diaspora si è trasformata in un’opportunità di trasformazione della precedente società tribale, alzando il livello di scolarizzazione, facendone una parte attiva e visibile. E sono molte le donne che si sono occupate, all’estero, dell’attività diplomatica, indispensabile per far conoscere nel mondo la condizione di rifugiati.
Tra loro c’è Fatima Mahfoud, instancabile tessitrice di relazioni di pace. Come rappresentante del suo popolo ha lavorato a Ginevra, in Svezia, in Italia. La sua forza è l’ottimismo, la certezza che tutto sia possibile. Anche la realizzazione di un sogno come quello sahrawi. Chi è riuscito a costruire uno “Stato in esilio” nel deserto, con tendopoli organizzate in distretti, con dipartimenti amministrativi e ministeri, probabilmente ce la può fare ancora, a resistere, nonostante nei decenni pochi passi avanti siano stati fatti verso il riconoscimento del diritto al ritorno.
Nonostante anche nei campi serpeggi un’insoddisfazione palpabile, critica nei confronti di un governo che tende a conservare cariche e ruoli nelle mani delle stesse persone. Come il presidente Mohamed Abdelaziz, tale da 35 anni.
E nonostante un nuovo clima d’insicurezza pesi su tutti, dopo il rapimento di Rossella Urru e altri due cooperanti spagnoli. Tornarono a casa nel luglio 2012, dopo 9 mesi. Da allora niente è più come prima: scorte armate per giornalisti e cooperanti, muri di sabbia a proteggere le wilaya.
Eppure… lei la ricorda, la fuga nel deserto, con i camion e le bugie dei grandi: “Andiamo a trovare i nonni”, dicevano. Da allora, la sua casa, quella vera, è un miraggio, e così si divide tra Tindouf e Roma. Il suo lavoro è ovunque, perché è parola e testimonianza, fatto di incontri che le hanno insegnato molto, dice, come quelli con Josè Saramago o le nonne della Plaza de Majo, e che altrettanto hanno insegnato a chi della questione sahrawi era all’oscuro. Parla con amore delle donne che nelle tendopoli si ritagliano ogni giorno spicchi di speranza, magari strappando un orto al deserto. Ricorda un’altra emergenza, quando il clima si fece beffe di loro e inondò d’acqua il mare di sabbia. Era il 2006, e l’80 per cento delle abitazioni venne spazzato via. Ancora una volta, furono le donne a ricostruire un’idea di famiglia e di futuro.
Guardando queste donne, quelle invisibili e silenziose e quelle visibili e battagliere, simili alla ‘ragazza in rosso’ che affronta gli idranti della polizia turca in piazza Taksim, a Amina e alle femen tunisine, alle ragazze che sfidando violenti e stupratori non rinunciano a manifestare in Egitto, qualcosa sull’identità femminile nel mondo arabo contemporaneo dobbiamo rivederla, noi occidentali. Anche lì, non è la prima volta che le donne si sono fatte carico della resistenza e della rivendicazione dei diritti. Ma che accada ora, mentre ovunque soffia forte il vento conservatore e greve degli integralismi, racconta di un altro pezzo di società. E ci fa capire che non siamo sole, che stanno lottando anche per noi.

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