Tra rimozione e scoperta
Siamo immersi in una logica di antifraternità, frutto di un’evoluzione storica, in Europa, nella quale il messaggio cristiano è stato rovesciato: se nel Vangelo l’opacità del riferimento all’“altro” si illumina nella nozione di fratello e di sorella, nella nostra cultura il fratello o la sorella non sono niente più che un altro, cioè uno che sta fuori e vale meno di me. Conosciamo al massimo la fraternità biologico-familiare, la fraternità delle comunità ristrette, la fraternità patriottica, la fraternità umanitaria, la fraternità senza sororità. Manca la vera fraternità-sororità universale, senza esclusioni. Per lo più si verifica la rimozione della fraternità attraverso strategie analoghe a quelle che Freud analizza per mostrare come l’inconscio occulti il significato reale dei vissuti onirici: lo spostamento, la sostituzione e la censura.
Il primato della persona
Lo spostamento avviene con la retorica del primato della persona. Esso è inteso come il primato del soggetto singolo, dell’io, affermato in una prospettiva tendenzialmente individualista, che dunque lascia fin dall’inizio da parte il vincolo della fraternità. La sostituzione ha, invece, luogo attraverso il primato della famiglia quale “cellula della società” che perimetra lo spazio del vincolo interumano positivo e attraverso l’enfasi sul concetto di comunità (familiare, parrocchiale, etnica, ecc.).
Per capire come funzioni la censura bisogna tenere presente che la fraternità fa paura, perché evoca l’invasione degli estranei nel nostro spazio di vita e l’imporsi di un carico eccessivo di implicazioni economiche, sentimentali, etiche e politiche, al confronto del quale la possibilità di svincolarsi dal legame fraterno finisce per coincidere con la libertà. Il liberismo fa presa sul desiderio di non farsi carico della sorte degli altri proprio perché non mi sono fratelli e a loro nulla è dovuto.
L’evento della fraternità-sororità ha luogo quando, riconoscendo la dignità di chi è escluso, accedo alla condivisione e opero per la giustizia. Ma gli esclusi ci mettono davanti ciò che non vorremmo essere. Identificarsi con gli esclusi è arduo: occorre superare la paura, il pregiudizio, l’ignoranza e anche i confini abituali entro i quali assumiamo le nostre stesse convinzioni religiose, morali e politiche. Infatti, queste convinzioni sono radicate in una cultura identitaria. Essere cattolici o di un’altra confessione, essere di sinistra o di destra, e persino essere volontari o qualcos’altro si traduce quasi sempre in un sentimento di appartenenza che guarda come estranei gli esterni alla nostra comunità. Perciò, è facile provare compassione per gli esclusi, elogiarli, voler fare qualcosa per loro, senza accorgersi del fatto che però non rimettiamo in discussione questa mentalità escludente. Siamo un “noi” senza di loro. Una simile percezione della propria identità personale e di gruppo è già il primo ostacolo da superare. Altrimenti, anche quando faremo del bene, eluderemo la relazione reale e positiva con gli altri. Ci troveremo a operare secondo i nostri criteri – di comodità, di comprensione, di priorità, di autotutela, persino dettati dalla paura – e non secondo i bisogni e i diritti degli altri che diciamo di voler aiutare.
Superare l’antifraternità
La riprova della presenza di questo atteggiamento di “aiuto”, che in realtà è una strategia di censura, sta nel fatto per cui si è anche disposti a gesti di aiuto, ma mai a gesti politici per pretendere sistematicamente un trattamento civile degli esclusi e per costruire la giustizia dei diritti umani attraverso una svolta politica. Così il volontario si porrà non il problema di quale sarà la sorte dell’escluso se non si interviene con sollecitudine, ma di non farsi strumentalizzare politicamente, di non esporsi, di non essere giudicato male dalle autorità, dall’opinione pubblica, dalla Chiesa.
In chi ha una condizione troppo diversa dalla nostra per mille cause, ciò che disturba non è solo l’eccesso di fragilità, ma soprattutto gli errori o gli atteggiamenti sbagliati, reali o presunti, di chi dovrebbe essere aiutato. Così ci si trova a dire che l’altro “se lo merita” di stare in quella condizione estrema. La mancata identificazione con chi è più esposto di noi è la fondazione su cui poi si costruiscono le barriere che fanno dell’altro un escluso. Posto che gli altri sono solo gli altri, non fratelli o sorelle, che cosa giustifica che io resti indifferente o persino combatta la presenza degli altri per me più sgradevoli? Qui emergono gli argomenti dell’antifraternità:
a. il demeritevole rompe le regole della convivenza civile, offende il decoro e attenta alla sicurezza, più che un bisognoso è un criminale;
b. il demeritevole ci chiede di portare il peso, anzitutto economico, delle sue scelte irresponsabili e incivili; non possiamo permetterci questo lusso;
c. il demeritevole va sanzionato ed è un atteggiamento di buonismo demagogico quello che tollera la sua irregolarità;
d. sanzionare e respingere i demeritevoli porta a un buon ordine sociale (come ha esemplificato l’ex ministro Maroni dicendo che la sua politica di respingimento ha salvato vite umane).
Il sentimento sotteso a questi argomenti è la paura nelle sue diverse modulazioni: la gelosia per ciò che si ha, il disprezzo per il demeritevole, l’indignazione per il persistere di simili problemi.
Relazioni
Per giungere alla scoperta effettiva della fraternità-sororità bisogna partecipare con una diversa attenzione alle relazioni salienti della condizione umana: tra generi, tra generazioni, tra culture, tra i tutelati e i senza tutela (o tra chi ha e chi non ha), tra ciascuno e il senso misterioso della vita, che intanto si fa concreto come relazione con il Bene. In tutte queste forme di relazione la differenza può facilmente divenire divergenza e pretesto di esclusione o di dominio. Se, al contrario, mi apro a questa differenza – fatta eccezione per quella tra i tutelati e i senza tutela – come all’elemento di un’esperienza di condivisione che concretizza l’universale relazione umana con il Bene, allora ciò genera una fiducia che riassorbe la paura e una visione del legame essenziale con chi per me era soltanto un “altro”. Essenziale perché, se non onoro questo legame, io non posso essere io e perché questo legame appartiene a una storia comune che ricomprende nel contempo la mia storia.
Da ognuna delle forme delle relazioni salienti fraternità e sororità assumono elementi costitutivi; dalla relazione tra i generi: la ricchezza dell’intreccio delle due esperienze, maschile e femminile; non c’è fraternità senza sororità; dalla relazione tra le generazioni: la ricchezza della cura e dell’apprendimento; dalla relazione tra culture e tra condizioni diverse: la ricchezza dell’apertura oltre il proprio “luogo” e sguardo iniziale; senza tale apertura sono compromessi la libertà, la capacità di aderire all’universalità dell’umanità, l’apprendimento dell’ospitalità politica e dunque della politica come arte di tessere la convivenza oltre gli esclusivismi; dalla relazione tra ciascuno e il bene: la fonte (o fondamento) della fraternità-sororità, che è non solo un riferimento ideale a un’origine che accomuna, ma è anche esperienza incarnata della partecipazione a un bene più grande.
Dalla relazione più accidentale e inaccettabile, quella tra chi è tutelato e i senza tutela, si apprende il criterio decisivo per tutte le altre relazioni: l’amore vero, l’amore giusto, non è un sentimento di mancanza che mi spinge verso l’altro, ma implica il riconoscimento della mancanza che impedisce a mio fratello o a mia sorella di partecipare al bene comune. Non si tratta più di “aiutare” ma di costruire insieme la vita comune. Di impegnarsi politicamente a garantire nei suoi effetti il pieno riconoscimento della dignità di chiunque. Perciò bisogna prendere la parola, esporsi, pretendere democrazia a partire dalle vittime, superando la pratica di un “volontariato” senza immedesimazione, senza condivisione vera, senza coscienza e creatività politica.