CHIESA

Il Papa del grembiule

Il futuro ha i piedi scalzi. Ciò che conta è incontrarsi nel far del bene. Papa Francesco, l’incontro
con i più emarginati, le sue parole controtendenza, i segni della povertà e della giustizia.
Sergio Paronetto (Vicepresidente Pax Christi Italia)

“Essere pontefice, osserva il Papa il 22 marzo, “vuol dire costruire ponti fra tutti gli uomini, così che ognuno possa trovare nell’altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere e abbracciare! Le mie stesse origini poi mi spingono a lavorare per edificare ponti. Infatti, come sapete la mia famiglia è di origini italiane; e così in me è sempre vivo questo dialogo tra luoghi e culture fra loro distanti, tra un capo del mondo e l’altro, oggi sempre più vicini, interdipendenti, bisognosi di incontrarsi e di creare spazi reali di autentica fraternità”. 

Con questo spirito nasce la Giornata mondiale della Pace 2014 sul tema “Fraternità, fondamento e via per la pace” che intende promuovere la cultura dell’incontro. Ci siamo arrivati attraverso tappe significative: le parole e i gesti di inizio pontificato; i colloqui con i giovani a Pasqua e Pentecoste; la visita a Lampedusa; il viaggio in Brasile e a Cagliari,;l’impegno orante e politico contro la guerra in Siria (i primi dieci giorni di settembre); la memoria di Giovanni XXIII e della “Pacem in terris”; il pellegrinaggio ad Assisi; la giornata per la pace in Medio Oriente; la “Evangelii gaudium”. Sintetizzo il pensiero del Papa, vicino al “pensiero femminile” che parte dal primato della relazione, su quattro temi generatori.

Prendersi cura

Prendersi cura, curare le ferite, costruire relazioni. In tale ambito spicca “il potere dei segni”: la lavanda dei piedi a bambini e bambine (di famiglie anche non cattoliche) detenuti nel carcere minorile di Casal del Marmo proprio nei giorni di inizio pontificato e la visita a Lampedusa dove risuona ancora il grido: “Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me? Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, nell’illusione del futile, del provvisorio, che porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!”. Due mesi dopo, al Centro Astalli di Roma, il Papa propone una bella triade. In primo luogo, servire, cioè “accogliere la persona che arriva, con attenzione; chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli Apostoli. Servire significa lavorare a fianco dei più bisognosi, stabilire con loro prima di tutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà. Significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione”. Per il Papa (come per Camara, Romero e Tonino Bello) i poveri esprimono un forte potenziale evangelizzatore, “sono anche maestri privilegiati della nostra conoscenza di Dio; le loro fragilità e semplicità smascherano i nostri egoismi, le nostre false sicurezze, le nostre pretese di autosufficienza e ci guidano all’esperienza della vicinanza e della tenerezza di Dio”. Le domande del Papa riguardano la nostra capacità di vedere: “Mi accorgo di chi ha bisogno di aiuto? Guardo negli occhi di coloro che chiedono giustizia o indirizzo lo sguardo verso l’altro lato, per non guardare gli occhi?”. 

Il secondo verbo è accompagnare. “La sola accoglienza non basta. Non basta dare un panino se non è accompagnato dalla possibilità di imparare a camminare con le proprie gambe. La carità che lascia il povero così com’è non è sufficiente. La misericordia vera, quella che Dio ci dona e ci insegna, chiede la giustizia, chiede che il povero trovi la strada per non essere più tale. Il terzo verbo è difendere, “mettersi dalla parte di chi è più debole. Per tutta la Chiesa è importante che l’accoglienza del povero e la promozione della giustizia non vengano affidate solo a degli ‘specialisti’, ma siano un’attenzione di tutta la pastorale, della formazione dei futuri sacerdoti e religiosi, dell’impegno normale di tutte le parrocchie, i movimenti e le aggregazioni ecclesiali. In particolare, vorrei invitare anche gli istituti religiosi a leggere seriamente e con responsabilità questo segno dei tempi. Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati”.  

Camminare verso le periferie, incontrarsi facendo il bene. Rispondendo a un giovane alla veglia di Pentecoste, il Papa presenta la pace come cammino permanente: “Una Chiesa chiusa è una Chiesa ammalata. La Chiesa deve uscire da se stessa. Dove? Verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano, ma uscire. Preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite! È importante andare all’incontro. Dobbiamo creare con la nostra fede una “cultura dell’incontro”, una cultura dell’amicizia. Tutti hanno qualcosa in comune con noi: sono immagini di Dio, sono figli di Dio. Andare all’incontro con tutti, senza negoziare la nostra appartenenza. E un altro punto è importante: con i poveri. Se usciamo da noi stessi, troviamo la povertà. Oggi – questo fa male al cuore dirlo – oggi, trovare un barbone morto di freddo non è notizia. Oggi, pensare che tanti bambini non hanno da mangiare non è notizia. Non possiamo restare tranquilli! Non possiamo diventare cristiani inamidati, quei cristiani troppo educati, che parlano di cose teologiche mentre prendono il tè, tranquilli”. Anche per papa Francesco, come per don Tonino, “il futuro ha i piedi scalzi”. Ciò che conta è incontrarsi nel fare il bene. Così il 22 maggio: “Siamo creati figli con la somiglianza di Dio e il sangue di Cristo ci ha redenti tutti! E tutti abbiamo il dovere di fare il bene. E questo comandamento di fare il bene  credo che sia una bella strada verso la pace”

Povertà e giustizia

Condividere la povertà, lottare per la giustizia, custodire il creato. Ne è un segno la memoria della spoliazione di S. Francesco, proposta proprio ad Assisi come “imitazione di Cristo”, come itinerario di una Chiesa povera, lontana dall’idolatria della ricchezza, dal carrierismo, dal clericalismo. Nella visita ad Assisi prende luce l’intenzione originaria del pontificato, espressa il 19 marzo 2013: “Il centro della vocazione cristiana è Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato! La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. Siate custodi dei doni di Dio! Quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna. Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! L’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore. E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza! Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio. Solo chi serve con amore sa custodire!”.

Una scelta politica

Il grido, la preghiera e la scelta politica della pace. Nella convocazione della veglia del 7 settembre, il Papa dice di farsi “interprete del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace! È il grido che dice con forza: vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace, vogliamo che in questa nostra società, dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace; mai più la guerra! Mai più la guerra! La pace è un dono troppo prezioso, che deve essere promosso e tutelato. Quanta sofferenza, quanta devastazione, quanto dolore ha portato e porta l’uso delle armi in quel martoriato Paese [Siria], specialmente tra la popolazione civile e inerme! C’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire! Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza! Con tutta la mia forza, chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi, ma di guardare all’altro come a un fratello”. Così insiste la notte della veglia: “Vorrei chiedere al Signore, questa sera, che noi cristiani e i fratelli delle altre religioni, ogni uomo e donna di buona volontà gridassero con forza: la violenza e la guerra non è mai la via della pace! La guerra segna sempre il fallimento della pace, è sempre una sconfitta per l’umanità. Vorrei che da ogni parte della terra noi gridassimo: Sì, è possibile per tutti!, che ognuno di noi, dal più piccolo al più grande, fino a coloro che sono chiamati a governare le Nazioni, rispondesse: Sì, lo vogliamo!”. Il giorno dopo, viene introdotto il tema fondamentale del commercio delle armi con una denuncia autorevole che ricorda il documento vaticano del 1976 in cui la corsa alle armi è vista come un furto collettivo, anzi  “un’aggressione che si fa crimine”. Per questo, nella lettera a Putin del 5 settembre, il Papa vede le guerre come “inutile massacro”. 

 Una pace inquieta 

Per il Papa rilanciare la Pacem in terris a 50 anni dalla sua pubblicazione vuol dire “promuovere e praticare la giustizia”, “garantire i diritti civili e politici, ma anche offrire ad ognuno la possibilità di accedere effettivamente ai mezzi essenziali di sussistenza, il cibo, l’acqua, la casa, le cure sanitarie, l’istruzione e la possibilità di formare e sostenere una famiglia”. L’invito è alla convocazione mobilitante, all’inquietudine creativa. Il 15 giugno, il Papa osserva che “i filosofi dicono che la pace è una certa tranquillità nell’ordine. Quella non è la pace cristiana! La pace cristiana è una pace inquieta” per realizzare cammini di riconciliazione. Sembra di udire la voce di don Tonino sulla pace come cammino e ricerca del volto, servizio e sogno, stola e grembiule, politica e profezia, “segno dell’inquietudine, richiamo del ‘non ancora’, stimolo dell’ulteriorità, spina di inappagamento”. Per questo il suo progetto pastorale 1984 aveva come titolo “Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi”. Ora possiamo aggiungere: insieme con Francesco, Papa del grembiule.

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