SORORITÀ

Uomini e donne per la pace

Siamo invitate e invitati a misurarci tenacemente con nuove pratiche relazionali, con linguaggi da reinventare, con le politiche locali e con i grandi meccanismi della finanza e del mercato.
Senza alcuno sconto agli immaginari sul maschile e sul femminile che ci abitano.
Cristina Simonelli (Docente di Teologia Patristica)

“Santità, a nessun patto e mai in eterno desidero essere dispensata dalla sequela di Cristo!”. Questa frase, attribuita a Chiara d’Assisi (Leggenda, FF 3187, NdA), ha certo altro significato da quello cui queste righe ora la indirizzano: con essa Chiara rispondeva con sfrontato rispetto – se si può dire così – al premuroso ma non azzeccato intervento del papa Gregorio IX, che avrebbe voluto dispensare le dame dalla forma di povertà che avevano scelto. Dunque, un’altra cosa. Mi sembra tuttavia che potrebbe essere piegata a più semplice uso, in riferimento al tema della pace di questo anno che, indicando la fraternità come via e fondamento per la pace, almeno in prima battuta, occulta con grammaticale maschilità l’impegno e la forza delle donne nella costruzione di un mondo pacifico, giusto, accogliente.

Sono peraltro convinta che questa esclusione non sia intenzionale – e in ogni caso non affaticherei lo slogan con sororità e cose simili. Forse però proprio questa gaffe può far riflettere su una paradossale contraddizione: da una parte, appunto, si registra una mancanza, un’assenza di nominazione che è già il linguaggio a consegnarci e che tuttavia almeno dalla metà del secolo scorso (Simone de Beauvoir in testa) è stata chiamata per lo meno a riflessione e laboratorio. Dall’altra – e qui sta appunto il paradosso – si osserva un’attribuzione privilegiata alle donne del compito della pace, della custodia della vita e del creato. 

Non si tratta, pertanto, ritengo, dell’essere le solite “incontentabili” – “donne che puntualizzano”, come si esprime un recente spot pubblicitario – ma di approfittare del gap che si è così creato per riprendere e sviluppare temi da anni al centro della riflessione critica delle donne. È di diverso tempo fa un volume a cura di Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo (Donne disarmanti. Storie e testimonianze su  nonviolenza e femminismi, D’Auria, Napoli, 2004) volto a indagare proprio questo nesso per farlo uscire da presunte certezze. In questo senso il libro non ha affatto perduto attualità, anzi merita di essere nuovamente preso in mano. Infatti, se già nel I secolo un poeta latino come Orazio dava voce al comune sentire affermando che “le guerre sono invise alle madri” e se almeno statisticamente – il che comunque non è poco – “meno donne che uomini” sono impegnate non solo a condurre ma anche a programmare e decidere guerre e violenze, non ci si può accontentare di questo. Siamo – condivido in pieno l’assunto del libro citato – invitate e invitati a misurarci tenacemente e laboriosamente con le pratiche e i linguaggi, con le politiche locali e con i grandi meccanismi della finanza e del mercato, senza fare sconti agli immaginari sul maschile e sul femminile che ci precedono e ci abitano. Come nello stesso libro si esprime Rosangela Pesenti: “Non mi sottraggo alle parole brevi e incise degli slogan e degli appelli, ma sento la responsabilità di restituire alle parole tempi e luoghi adeguati perché avverto che, proprio nell’illusione di dover abbreviare i discorsi per raggiungere più in fretta le nostre mete, è nascosta una trappola che invalida poi ogni nostra azione” (p. 65).

Laboratorio permanente

Non dunque “mariano sacerdozio del cuore” o “genio femminile” per dotazione di natura, ma laboratorio permanente, che non faccia sconti all’immaginario maschile, ma neanche a un romanticismo presuntamente femminile. Tra i molti ambiti cui questo si può applicare, almeno due sono resi urgenti dal contesto prossimo: le politiche relative a immigrati e rifugiati e la violenza sulle donne, fino al femminicidio. Quanto al primo è evidente il suo nesso con i conflitti internazionali e con il commercio delle armi: le pratiche di accoglienza, soprattutto del sud italiano, sono luoghi di costruzione di pace, migliorabili certo ma dotate della forza di “un’Italia migliore” –  e meritano maggior spazio al di là delle singole evenienze drammatiche. In tali pratiche di pace, donne e uomini si accolgono e si confrontano, si fanno fisicamente spazio e pane. Quest’azione, tuttavia, non può essere isolata dalle più larghe istanze politiche, dalle posizioni critiche su meccanismi italiani e europei che usano l’idea di confine come respingimento; sulle leggi italiane che non eliminano il reato di clandestinità, sulla forma anomale e disumana dei “centri di identificazione e espulsione”. In questa lunghezza d’onda il femminileplurale che a Vicenza dal 2009 accompagna la contestazione della base militare è un esempio di come pratiche di prossimità e dibattito politico attraversino le azioni di donne e di uomini, senza spartizioni di attribuzione predefinita alle une o agli altri.

Con la stessa forza si impone l’azione, ma anche la riflessione, attorno al drammatico nodo della violenza sulle donne: potrebbe addirittura proporsi come prossimo ambito tematico per la giornata della pace, per tutti e tutte. Certamente è un luogo femminile, un contesto in cui le statistiche drammatiche lasciano aperto un interrogativo: in che proporzione la crescita dei fenomeni denunciati è dovuta all’aumento della violenza o piuttosto all’aumento delle denunce di fatti che prima erano taciuti e nascosti nelle mura domestiche. La pratica femminile di centri specifici antiviolenza, la maggiore consapevolezza sul tema, l’iter legislativo sono tutti elementi che possono lasciar supporre un aumento delle denunce e non solo delle violenze. E tuttavia non si può neanche purtroppo escludere questa seconda possibilità, come se i rapporti di genere fossero la cartina di tornasole del malessere di una società. Ed è proprio per questo che la riflessione su tutto ciò è laboratorio non procrastinabile, luogo di riflessione sulla maschilità e sulla sua “invenzione” (Bellessai), cioè sui modelli machisti che le vengono – non da oggi ma non meno oggi – consegnati. Cartelli come Maschile plurale o Campagne come Mai più complici vanno e sono andati in questa direzione. Questo è anche un terreno di riflessione comune: cioè sulle relazioni familiari e sociali, pedagogiche e relazionali, politiche ed ecclesiali in cui sia donne che uomini sono chiamati a riflettere sui modelli che ricevono, che vivono, che trasmettono. Non è, infatti, una novità, ad esempio, sottolineare quanto fino ad appena ieri e in molti casi ancora oggi, meccanismi di rimozione del problema tendano, nella comunicazione di massa come nei “discorsi sull’autobus e al supermercato”, a etnicizzare le informazioni, mettendo l’accento sulla violenza dello “straniero” e tranquillizzando così sulla violenza che è del compagno, del padre, del fratello dentro le mura domestiche. Ma la rimozione del problema assume forme ancora più subdole e può lasciar intatte le relazioni uomini/donne in contesti che si pensino “buoni a prescindere”: mi riferisco sia all’ambito dell’impegno politico che all’ambito ecclesiale.

Quanto al primo, il riferimento è a quanto scrive, ancora, Monica Lanfranco (www.cdbitalia.it/2013/10/26/e-se-i-compagni-antagonisti-sono-violenti) riferendo lo sconcertante episodio di violenza subito da alcune ragazze da parte di compagni di attivismo. In quel caso c’è stata anche violenza fisica, ma l’immaginario violento veicolato dal linguaggio è comunque parte del problema: lo manifesta ma anche lo realizza. Dal punto di vista ecclesiale si dovrebbe avere la stessa lucidità di analisi e anche di parola dell’articolo citato, mentre spesso, fatte salve lodevoli e importanti eccezioni, il tema della violenza sulle donne non è affrontato, le “giornate simboliche” istituite non sono ricordate, ogni appunto sull’uso sessista del linguaggio.. è tacciato di “femminismo machista”.

Questo significa che c’è molto da lavorare, con larghezza di cuore e naso largo: possono sembrare strani questi termini ma sono la versione greca (makrothumìa) e ebraica (erek appaim) di uno dei nomi di Dio al Sinai, che traduciamo con forse minor senso estetico “lento all’ira”. Unendo le tre versioni del Nome unico/plurale, possiamo pensare che i laboratori di pace che si prospettano conoscano il respiro profondo che apre alla larghezza del cuore: spazio accogliente e insieme condiviso, interiore e insieme politico nel quale ascoltare e parlare, avanzare istanze critiche e aprire convivenze di pace. 

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