DONNE

Una Chiesa per due

Perché identificare l’immagine di Dio con quella trasmessaci da una cultura maschilista? Da Martini a papa Francesco: la presenza e il ruolo della donna nella Chiesa.
Nicoletta Dentico

Dalle donne emergono domande sofferte e sincere, segnalava nel 1981 il card. Martini aprendo il convegno “La donna nella Chiesa oggi” con una sfilza di questioni decisive per il futuro della Chiesa: “Perché identificare l’immagine di Dio con quella trasmessaci da una cultura maschilista? Quale annuncio kerigmatico per lei, non rinchiuso in una visione moralistica? Quali indicazioni per un cammino spirituale e di santità che stimolino la donna adeguatamente? Quali indicazioni per una rinnovata prassi pastorale, per un cammino vocazionale per il matrimonio, per la consacrazione religiosa, la famiglia, in considerazione della nuova coscienza di sé che la donna ha acquisito? Quali indicazioni per un linguaggio globale, anche liturgico, che non faccia sentire esclusa, nella sua elaborazione, la donna? Perché così poche e inadeguate risposte alla valorizzazione del proprio corpo, dell’amore fisico, dei problemi della maternità responsabile? Perché la pur grande presenza delle donne nella Chiesa non ha inciso nelle sue strutture? E nella prassi pastorale perché attribuire alla donna solo quei compiti che lo schema ideologico e culturale della società le attribuiva, e perché non esplicitare i suoi carismi opera dello Spirito Santo?”.

 Nel solco evangelico

Parole rigorose ancora abbandonate a se stesse, nella dolorosa assenza di una risposta. Le donne sono state a lungo le garanti della dottrina, paladine del radicamento della tradizione cristiana nell’infanzia, nelle famiglie, nella società attraverso il processo di secolarizzazione. Lo hanno fatto quasi sempre con il limite di dover ospitare un messaggio trasmesso da altri, un condizionamento da addebitare perlopiù a un ordine ecclesiale che le ha volutamente tenute fuori, le donne. Tant’è che ancora oggi ci troviamo ad attraversare linguaggi già codificati, e non ci sentiamo ancora del tutto legittimate a far agire, nel presente nostro e delle nostre Chiese, quella forza (la sentiamo dentro di noi) che trasforma e trascina, fino a rendere possibili nuovi orizzonti. Perciò le riflessioni di Martini sono un punto di partenza irrinunciabile, oggi, se vogliamo prendere sul serio le parole che papa Francesco ha pronunciato a più riprese, negli ultimi mesi, sulle donne. Il fatto che sia tornato sulla questione lascia ben sperare. Il solco evangelico segnato dalla dirompente parabola del pontificato di Jorge Bergoglio può finalmente aprire la potenzialità di una Chiesa paritariamente dialogante con i due generi.  

Nell’attesa di novità ancora inesplorate, la questione femminile attende al varco il vescovo di Roma come un passaggio ineludibile, lo sa benissimo Francesco. “La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo”, ha detto a Civiltà Cattolica, quasi a voler indicare una delle ragioni strutturali della crisi attuale. Sa anche che si tratta di un terreno accidentato: la valorizzazione del significato evangelico della differenza di genere nella vita ecclesiale non è facile da compiere. Il maschilismo dell’ambiente oscura la visibilità e l’importanza della presenza delle donne. Nel frattempo, le donne hanno radicalmente trasformato la società con la loro soggettività, riscattandosi da un’atavica schiavitù legata alla maternità e alla famiglia. Questo scarto ha germinato a lungo anche nelle Chiese. La Frauenfrage – l’incalzante domanda della fede proveniente dalle donne – cominciò a prendere forma tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, fino a uscire allo scoperto. Grazie al Concilio Vaticano II, oggi la prassi teologica – ancora saldamente ancorata agli stereotipi di genere – deve fare i conti con la presenza sulla scena di una vivace comunità di studiose, protagoniste di una ricca messe di riflessioni indirizzate all’elaborazione di una teologia sulle donne e per le donne. Costoro hanno ispirato un notevole ripensamento degli ambiti disciplinari, contestualizzando traduzioni, simboli, immagini, linguaggi. Da loro viene la spinta per un’attenta rilettura dei ministeri, dei carismi e dei servizi. Il vescovo di Roma non può ignorare questa energia indispensabile alla Chiesa. 

 Maria

“Una Chiesa senza le donne è come il Collegio Apostolico senza Maria. Il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, la mamma di famiglia, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine, della Madonna; quella che aiuta a crescere la Chiesa! Ma pensate che la Madonna è più importante degli Apostoli! È più importante! La Chiesa è femminile: è Chiesa, è sposa, è madre”.

Nella continua tensione tra autorità e creatività, tra identità e cambiamento, le frasi di Francesco lasciano intendere una sincera tensione verso nuove vie di riconoscimento dell’azione delle donne. Ma le sue parole raffigurano ancora una volta la donna come una categoria antropologica a sé, ingabbiata nella funzione “naturale” che ne fissa deterministicamente ruoli e identità: quello di custode di un’umanità da accudire e da salvare. 

La modellizzazione della donna sulla figura di Maria Vergine tanto cara a Francesco (è ripresa nell’intervista a Civiltà Cattolica) forse è inevitabile dopo decenni di “una mariologia che non procede dalla Rivelazione ma ha l’appoggio dei testi pontifici” – per dirla con il cardinale Congar. Questa interpretazione tuttavia non produce alcun senso d’identificazione tra le donne, né tanto meno le rassicura quanto al rispetto da parte di preti e vescovi del fermento teologico e pastorale di cui esse, oggi, sono capaci. Ben altro orizzonte teologico tracciava Giovanni XXIII nella Pacem in Terris (1963), quando accennava alla donna come a un “segno dei tempi”, presenza storica nella nuova scena mondiale “con un’influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto”, e una coscienza sempre più operante della sua dignità. Quella coscienza di sé, sotto costante assedio, è un dato sociologico consolidato dall’esperienza di generazioni. Non si può tornare indietro. 

La posta in palio, dunque, è l’altro e la sua differenza. L’altra che, con la sua differenza, consente alla comunità dei credenti di crescere in consapevolezza e comprendere la propria identità. I racconti evangelici lo spiegano bene. Nei Vangeli non c’è un discorso sulla donna. Ci sono individualità femminili che incontrano Gesù nella materialità della loro esistenza. Marta accoglie Gesù “in casa sua” (Lc,10,11,38), da padrona di casa. Le donne hanno un ruolo primario nella storia della salvezza, sono loro che accompagnano il passaggio terreno di Cristo fino ai piedi della croce. Non si addormentano, non fuggono, non tradiscono. Alle donne è consegnato il protagonismo inedito e sconvolgente dell’annuncio della resurrezione. 

In piena dignità

Persone in piena dignità dunque, e non categorie. Neppure nelle prime comunità cristiane viene riservata loro qualche forma di marginalità. Lidia gode dello status economico di commerciante che le assicura il ruolo di guida religiosa della sua famiglia (Atti 16,11-15). Febe è presentata da Paolo con le credenziali di “nostra sorella”, “diaconessa della Chiesa di Cencre” (Rom. 16, 1-20), “patrona”: titolare quindi di un riconoscimento funzionale. È plausibile che sia stata lei la portatrice della lettera ai Romani, Paolo la raccomanda nella chiusa dell’epistola. è un discutibile segno dei tempi la severa esigenza di assottigliarne la funzione che troviamo nel passaggio semantico della CEI da “diaconessa” – come nella vecchia traduzione della Bibbia degli anni Settanta – al generico compito, testualmente insufficiente, di “colei che è al servizio” che compare nella nuova traduzione del 2008. Elisa Salerno forse, un secolo fa, avrebbe definito questo scivolamento alla stregua delle “eresie antifemministe”. 

Non ci esalta l’idea di fare una nuova “teologia della donna”, se a determinarla saranno, ancora una volta, gli uomini. Assumere la teologia di genere vuol dire avviarsi concretamente verso lo sviluppo di una nuova capacità della Chiesa di interagire con il mondo. Sarebbe un errore fatale se il Papa fosse indotto a bollare questo percorso creativo come “machismo in gonnella”. Per secoli le donne, fortezza silenziosa della Chiesa, hanno trasmesso la fede nell’istituzione familiare. Sono pronte ormai a farlo anche all’interno delle istituzioni civili e religiose. “Pure in epoche e contesti di rigide prescrizioni, la saggezza e soprattutto lo spirito evangelico hanno favorito quel peculiare discernimento capace di generare personalità flessibili e proiettate verso il non ancora”, ha scritto suor Marcella Farina. Se Francesco è l’esito di questa sapienza, a lui chiediamo il coraggio di “scelte rischiose” per la Chiesa. Corpo vivo di uomini e di donne. 

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