ECUMENISMO

In dialogo

A partire dallo spirito del Concilio Vaticano II e dal documento Ecclesiam Suam ripercorriamo il sentiero del dialogo. Necessario, importante per una sola umanità.
Brunetto Salvarani (Teologo, saggista, direttore della rivista Cem Mondialità)

In quel 1964 – penultimo anno del Vaticano II – Jorge Mario Bergoglio era un giovane docente di letteratura e psicologia nei seminari di Buenos Aires e Santa Fè, non ancora prete (lo sarebbe diventato un lustro più tardi, in ossequio alla tempistica gesuita). In quell’anno, il 6 agosto, Paolo VI firmava quella che è considerata unanimemente l’enciclica del dialogo per eccellenza, l’Ecclesiam suam, sorprendendo il mondo ecclesiale impegnato a seguire l’andamento del Concilio. Perché Montini aveva scelto di dedicare tempo e impegno a stilare un altro documento, oltre a quelli che i padri conciliari stavano (faticosamente) sfornando? Si tratta di una domanda non da poco. La risposta, peraltro, sembra evidente: egli intendeva fornire una chiave di lettura, personale quanto autorevole, da utilizzare per comprendere al meglio il senso profondo dell’assise vaticana. A suo parere era giunto il momento in cui “la Chiesa doveva venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere”; anzi, come scrisse con un bell’effetto di climax, “la Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio” (ES, n.67). Non è casuale, infatti, che il termine latino qui utilizzato sia colloquium, a indicarne la dimensione quotidiana, feriale, non necessariamente legata a una prospettiva filosofica; mentre dialogus sarebbe comparso solo nei testi conciliari successivi all’enciclica montiniana. Che ancor oggi risulta utile a chiarire il significato dell’esperienza del dialogare con gli altri, che per la prima volta nella sua lunga storia la Chiesa di Roma decideva di porre nel cuore della propria autocoscienza. classificarlo fra i fenomeni migliori dell’attività e della cultura umana”. 

Il dialogo

Ripercorrere l’Ecclesiam suam è importante, dunque, non solo per cogliere la portata dei due documenti che il Vaticano II dedica al dialogo: l’Unitatis redintegratio, sull’ecumenismo, e la Nostra aetate, sull’incontro con le grandi religioni mondiali; ma anche per spiegare le ragioni per cui, con l’elezione di Francesco lo scorso 13 marzo, il popolo del dialogo – reduce da stagioni non certo entusiasmanti, segnate più da delusioni che da attese compiute – ha risollevato il capo ed è tornato a sperare. Con motivazioni legate a segni emersi da subito, da quel saluto dal balcone di San Pietro: a partire dalla scelta del nome, che rimandava evidentemente al Povero d’Assisi, come ha spiegato un paio di giorni più tardi lui stesso, per il tema della povertà, della pace e della custodia del creato. Impossibile dimenticare, però, che San Francesco è anche colui che ebbe il coraggio di confrontarsi con l’Islam con un atteggiamento pacifico e aperto (fu a Damietta, in Egitto, nel 1219, in piena epopea crociata); e che al numero 16 della sua Regola non bollata, quella più vicina al suo spirito originario, affidava l’efficacia del suo messaggio evangelico sine glossa prima di tutto alle opere e alla testimonianza del buon esempio, e solo in un secondo tempo a un’esortazione verbale. Oltre al nome, è apparsa chiara la sua scelta di autodefinirsi preferibilmente vescovo di Roma, più che Papa. Non si tratta, sia chiaro, di un problema di modestia, o, peggio, di un bizantinismo: si è papi in quanto vescovi di Roma, e non viceversa, di quella Roma che presiede nella carità tutte le Chiese (citazione tratta da Ignazio d’Antiochia). Un’opzione carica di richiami anche nell’ambito del dialogo ecumenico, dato che le modalità con cui viene vissuto e percepito il primato petrino è ancor oggi uno degli ostacoli più significativi in chiave di unità delle Chiese. Ecco allora che non appare casuale che, una settimana dopo l’elezione, in occasione dell’incontro con i leader delle Chiese cristiane e delle grandi religioni, Francesco, nella Sala Clementina – dove uno strappo al protocollo evidenziava l’assenza del trono, sostituito da un semplice seggio – abbia rifatto il gesto che fece Paolo VI a Gerusalemme con il patriarca di Costantinopoli Athenagoras (5/1/1964): ha abbracciato il patriarca Bartolomeo I e l’ha chiamato Andrea in quanto erede dell’apostolo, così come Athenagoras chiamò Pietro l’allora papa Montini. Due giorni dopo, il 22 marzo, parlando al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Bergoglio ha indicato poi le linee-guida del pontificato, affermando fra l’altro che “non si possono costruire ponti tra gli uomini dimenticando Dio” e definendosi “costruttore di ponti”. Fino a dirsi desideroso che “il dialogo tra noi aiuti a costruire ponti fra tutti gli uomini, così che ognuno possa trovare nell’altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere e abbracciare”. Del resto, ha confessato con un cenno autobiografico, le sue stesse origini lo “spingono a lavorare per edificare ponti”. Infatti, “la mia famiglia è di origini italiane; e così in me è sempre vivo questo dialogo tra luoghi e culture fra loro distanti, tra un capo del mondo e l’altro, oggi sempre più vicini, interdipendenti, bisognosi di incontrarsi e di creare spazi reali di autentica fraternità”. In quest’opera è fondamentale anche il ruolo della religione: “Non si possono vivere legami veri con Dio, ignorando gli altri. Per questo è importante intensificare il dialogo fra le varie religioni, penso anzitutto a quello con l’islam”.

In questa chiave è doveroso, mi pare, leggere il messaggio di papa Francesco per la prossima Giornata internazionale della Pace. In riferimento al quale, in effetti, il richiamo all’esperienza francescana non può essere trascurato. Infatti, nella storia della vita religiosa, Francesco d’Assisi è il primo che designa con insistenza il gruppo formatosi attorno a lui con il termine di fraternitas. Una fraternitas, per di più, priva di chiusure preconcette e aperta a tutti: a borghesi come Bernardo, a piccoli come Egidio, a nobili come Angelo, per ricordare alcuni tra i suoi primi fratelli (come li chiama in quello straordinario documento che resta il suo Testamento). Frater, frate, deriva appunto da lì. Tutti i suoi frati dovevano sentirsi ed essere fratelli, nessuno di loro poteva essere chiamato padre, e non esistevano fra loro titoli onorifici particolari; mentre chi esercitava l’autorità era chiamato a comportarsi come un servo incaricato di lavare i piedi agli altri, come aveva fatto Gesù in un episodio evangelico da lui fortemente amato (Gv 13, 2-20).

In armonia

Francesco non visse la sua fraternità in una chiave puramente politico-sociale, e neppure in una prospettiva di tensione ascetica; ma piuttosto in dimensione teo-logale, percependola come un frutto diretto dello Spirito. Il dato emerge bene nella dodicesima Ammonizione, un testo raccolto dai suoi fratelli più prossimi e presente nei suoi Scritti, in cui si sostiene che è possibile riconoscere se qualcuno possieda lo Spirito del Signore: il che appare evidente se – quando il Signore per mezzo di lui realizza qualcosa di buono – egli non s’inorgoglisce per questo, ma “si stima ai propri occhi spregevole e si ritiene inferiore a tutti gli altri uomini”. Solo quando un credente è in grado di rivolgersi con tutto se stesso a Dio, secondo il futuro santo, le dimensioni di quanto vive intorno a lui si modificano, fino a fargli smarrire la consueta autocentratura che caratterizza da sempre l’umanità. A quel punto egli non mira all’affermazione del proprio sé, né al dominio sull’altro, e si trasforma persino il suo sguardo sulla rea-ltà: è questa la motivazione di fondo del famoso Cantico di frate Sole, che testimonia come l’autore fosse giunto a considerare le relazioni con gli altri uomini e con ogni creatura vivente come segnati indelebilmente dalla fraternità. Con quest’ultima che scaturisce naturalmente dall’acquisita coscienza di provenire tutti da una sorgente comune, e dal comune debito di riconoscenza verso Colui che ha fatto dal nulla ogni cosa. Perché ogni cosa di Lui, come canta nel primo componimento poetico in lingua volgare, “porta significatione”. Ai suoi occhi nessuno e niente al mondo è anonimo: egli assegna un nome a tutti e a tutto; tutti e tutto gli parlano; con tutti e con tutto egli comunica. E sempre con riferimento al Cantico, vi emerge allora, non certo casualmente, la nascita di un mondo fraterno come aspirazione profonda: vivere come fratelli e sorelle, senza impadronirsi di nulla, in un mondo in cui l’uomo si comporti come figlio rispettoso della terra, che costituisce per lui un elemento della natura (‘sorella’) e, nel contempo, un ambiente fecondo (‘nostra madre’). Questo il sogno di Francesco, ripreso otto secoli dopo da un vescovo di Roma dallo stesso nome, e consegnato a noi, perché lo facciamo nostro, nel cammino verso una pace autentica e duratura.

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