BIBBIA

Dov’è tuo fratello?

Le radici bibliche della fraternità: sui passi di una Chiesa capace di accogliere e lasciarsi rigenerare
in nuovi legami di fratellanza e sororità.
Giuseppe Platone (pastore della Chiesa valdese di Milano)

Se qualcuno va a cercare  in una Chiave biblica i vocaboli fratello, fratelli, fraterno oppure sorella troverà, specie per il termine fratello, pagine e pagine di  riferimenti biblici. A partire dal primo riferimento al fratello veicolato dall’agghiacciante interrogativo di Genesi 4,9 “Dov’è Abele, tuo fratello?”, via via sino al lieto carme (“Ecco quanto è bello e quanto è soave che i fratelli abitino insieme!”) del Salmo 133,1 e alle visioni messianiche di Isaia in 66,20 ss.; “Ricondurranno tutti i vostri fratelli, da tutte le nazioni, come un offerta al Signore, su cavalli, su carri, su lettighe, su muli, su dromedari, al mio monte santo, a Gerusalemme...”. Il significato del legame di sangue connesso alla relazione carnale viene ampliato, superando gli angusti confini della famiglia o meglio del clan, per diventare uno stretto legame sociale. I fratelli diventano i connazionali, i correligionari partoriti dallo stesso grembo. Che, nel caso specifico, è il Tempio di Gerusalemme dove si celebra la legge del Signore e la centralità dell’elezione del popolo. Nel Salmo 133 il legame sociale e religioso assume colorazioni intimistiche, quasi estatiche. 

Parte di un popolo

La fraternità, ovvero il sentirsi  parte di un popolo che si raccoglie  intorno all’unico Dio che lo ha liberato dalla schiavitù conducendolo a libertà produce nel singolo una gioia che, proprio perchè condivisa, diventa ineffabile, indescrivibile. O meglio: soltanto la poesia (ma potremmo ugualmente dire la musica, l’arte) può, in qualche modo, descrivere la dimensione della fraternità. Il salmista celebra  il passaggio dal paradigma familiare a quello nazionale cantando, in sostanza, un inno alla fraternità che, dal privato sale su su, sino alla dimensione sociale. Ci si apre così alle visioni messianiche del tempo nuovo in cui non ci sarà più né dolore, né morte, né odi, né violenze. Ma per giungere a questa visione la relazione di fratellanza deve essere alimentata  direttamente dall’amore di Dio che permette uno sguardo nuovo verso il domani.

La spiritualità del Nuovo Testamento è sostanzialmente giudaica. Lo fratellanza carnale, per opera dello Spirito, diventa una fratellanza spirituale. Ma la distinzione tra carne e spirito non viene mai completamente abolita, quanto piuttosto iscritta in un orizzonte più vasto, che va bel al di là dei confini domestici. Ci sono, merita notarlo, fratelli carnali tra i discepoli di Gesù, ci sono i figli di Zebedo, anche Marta e Maria sono sorelle. Ma i fratelli più famosi (e discussi) sono proprio i fratelli di Gesù. Sono proprio loro che cercano Gesù pensando che sia andato fuori di testa.  A Nazareth Gesù verrà trattato a pesci in faccia perchè è soltanto un falegname e figlio di Maria, che è una semplice ragazza palestinese e che non è certamente iscritta nell’album delle nobili di Gerusalemme, e per di più Gesù è fratello di Giacomo, di Giosuè,di Giuda e di Simone. L’evangelo di Giovanni racconta che neppure i suoi fratelli credevano nelle sue parole. Nel libro degli Atti si parla esplicitamente dei fratelli di Gesù (adelphoi) i quali insieme a Maria, sono tra i primi a costituire la comunità cristiana. Anche Paolo parla di Giacomo come fratello carnale di Gesù in Galati 1,19 e in I Cor.15,7. Su questi fratelli e sorelle di Gesù c’è stato un lungo dibattito. Da un lato vi è chi ritiene impossibile che Gesù abbia potuto avere dei fratelli o sorelle carnali data la perpetua verginità di Maria. 

I fratelli sarebbero (lettura cattolica) dei cugini o dei parenti prossimi, tipo figli avuti da Giuseppe nel quadro d’un precedente matrimonio (posizione più ortodossa). Ma al di là delle possibili interpretazioni (anche se, leggendo i testi evangelici, bisogna proprio arrampicarsi sui vetri per potere negare l’evidenza che Gesù abbia avuto fratelli e  sorelle carnali) vero è che Gesù stesso considera fratelli e sorelle coloro che fanno la volontà del Padre: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: ‘Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre’”. 

La condivisione

È un testo forte che presenta precisi paralleli in Matteo e Giovanni e, quindi, possiamo dire che questa presa di posizione di Gesù che antepone il legame spirituale, la condivisione di un progetto al legame della carne e/o familistico, è una posizione molto ben attestata. Nell’orizzonte degli scritti neotestamentari, come in quelli vetero-testamentari, fraternità, sororità devono fondarsi sull’amore del prossimo: “Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello rimane nella luce e non c’è nulla in lui che lo faccia inciampare: ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perchè le tenebre hanno accecato i suoi occhi” (I Giovanni 1,10): il nuovo legame spirituale per essere tale deve ispirarsi all’agape, ovvero  all’amore di Dio che si rivela in Cristo. Sorgente di nuove relazioni spirituali. È Paolo che soprattutto spinge sul tasto dell’agape che fonda la fraternità, la filia è costituitva dei legami di sangue che possono anche essere fraterni, l’agape però è superamento sia dell’eros sia della filia perchè è fondato su una realtà spirituale posta «fuori di te». L’agape non è  proprietà dell’uomo ma di Dio. I diletti amati di I Cor. 15,58 o Filippesi 4,1 sono persone sequestrate dall’amore agapico di Dio che ti fa considerare diversamente la realtà sociale. Nella prima lettera di Pietro si dice chiaramente che la vita cristiana va avanti solo se si amano i fratelli (I Pietro 2,17). Dai testi biblici, che qui ho preso brevemente in considerazione, pur sapendo che l’elenco, come dicevo prima, è piuttosto lungo, la terminologia fratello/fraternità  è facilmente entrata nella vita del cristianesimo intorno all’idea che i credenti sono, spiritualmente, tutti figli dello stesso padre e quindi sono, tra di loro, fratelli e sorelle. 

Il paradigma familiare diventa uno stile ecclesiastico. La Chiesa come nuova famiglia spirituale. Ma c’è di più, il fratello nel linguaggio biblico diventa il prossimo. E il prossimo può venirci incontro da fuori, può raggiungerci da molto lontano rispetto al  nostro orizzonte culturale e religioso. La parabola del buon samaritano veicola questo concetto che non basta solo uscire dalla ristretta cerchia familiare  per rientrare in quella ecclesiastica. Qui c’è anche e soprattutto la società. L’evangelo non è per la Chiesa soltanto, ma è destinato per il mondo. E il prossimo è figlio del mondo e non necessariamente della Chiesa. Il fratello  può diventare il prossimo che, anche se culturalmente lontano, pone degli interrogativi alla tua coscienza. È Dio stesso che, attraverso il fratello o la sorella che sono diventati prossimo per te,  pone l’interrogativo. 

Una comunità

Anche oggi nelle diverse Chiese cristiane, per quello che mi è dato di sapere, ci si chiama, a qualunque latitudine,  fratelli e sorelle. Nelle Chiese cristiane anche nel momento del congedo, e stando al linguaggio  dei funerali, ci si rivolge sempre nei confronti di membri della comunità con il termine di fratello o di sorella. Non c’è, del resto, un’espressione più alta di questa che allude alla dimensione della fraternità. Calvino preferiva parlare della Chiesa come la “compagnie des fidèles”, dei fedeli alla volontà di Dio. O la comunità degli eletti, dei predestinati, dei chiamati a compiti diversi  da quelli che loro prima di credere pensavano. La fraternità, se presa sul serio, nel senso che accetta di avere un fondamento spirituale fuori di sé, può anche avere un carattere destabilizzante. 

Ma la vera questione che mi pongo, a proposito di fraternità, è se le Chiese cristiane sono, in questa nostra società che vede continui crolli valoriali, che registra vistosamente l’assenza di grandi spinte ideali, che vede, di contro, l’affermarsi della finanziarizzazione delle relazioni e spesso anche dei sentimenti, che registra una cronica assenza di prospettive di lavoro per milioni di giovani generazioni e l’elenco di cose che non vanno è drammaticamente lungo. Davanti a tutto questo smarrimento mi chiedo se le Chiese sono veramente dei luoghi di fraternità. Quest’ultima intesa non come realtà statica, formale, tradizionale magari chiusa o ripiegata su se stessa, ma Chiesa capace di accogliere e lasciarsi rigenerare in nuovi legami di fraternità. C’è poco da fare, la fraternità la si può vivere soltanto a partire da una relazione che comincia almeno da due. Uno da solo s’illude di poter essere fraterno, in realtà è sempre l’altro che ti fa scoprire la tua capacità fraterna. Esercitarla significa anche sperimentarne la qualità, la durata, la resistenza ai fattori che tendono a corrodere i legami fraterni. Da soli non riusciamo ad essere pienamente fraterni, qualcuno ci deve dare la forza per poterlo autenticamente essere. Colui che ha dato se stesso per noi ci darà anche ciò che ci manca per potere essere finalmente  fraterni. Bisogna provare a chiedere e provare a vivere e provare a crederci. Se non ci s’incammina su questo sentiero verso una possibile piena fraternità, senza se senza ma, rischiamo di sciupare il tempo che ci resta. E, detto fraternamente, non è molto.

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