IMMIGRATI

Le carrette del mare

Chi arriva sulle nostre coste non lo fa sempre per turismo. Fugge da fame, guerra, miseria.
E attraversa più deserti, con il rischio di morire, prima di imbarcarsi. Siamo capaci di incamminarci
sulla strada della solidarietà?
Antonio Sciortino (direttore di Famiglia Cristiana)

Il primo viaggio di papa Francesco, a sorpresa, ha avuto come destinazione l’isola di Lampedusa, estrema “periferia geografica d’Italia” e “porta della fortezza Europa”, ma anche “periferia esistenziale” di uno dei più gravi drammi del nostro tempo: la strage di migliaia di immigrati che perdono la vita nella traversata tra una sponda e l’altra del Mediterraneo. Quel mare che, un tempo, era “culla delle civiltà, con intensi scambi economici e culturali tra i popoli del Nord Africa e dell’Europa, da qualche decennio s’è trasformato nella “tomba della civiltà”, in un immenso cimitero a cielo aperto, dove più di ventimila profughi, tra cui molte donne e bambini, sono morti annegati tra le onde del mare. E nell’indifferenza generale di chi non ha voluto aprire gli occhi su questa immane tragedia.

Chi mette piede su quelle autentiche “carrette del mare”, dove uomini, donne e bambini vengono ammassati come bestie, non viene in Italia e in Europa per una gita di piacere. Si ignora o si fa finta di non sapere che fuggono dalla disperazione, da persecuzioni, dalla fame e dalle guerre. Sono disperati che, pur di fuggire, mettono a rischio la propria vita. Vessati, sfruttati, abusati sessualmente, molti muoiono di fame e stenti nel deserto, prima ancora di raggiungere le coste nordafricane per intraprendere il “viaggio della speranza”. 

Quella stessa speranza che i nostri connazionali, nel secolo scorso, cercavano lasciando l’Italia per terre straniere, dove spesso entravano da clandestini, subendo poi ogni sorta di discriminazione e trattamento xenofobo. Un tempo, i “marocchini” o gli “albanesi” eravamo noi italiani. Ma la memoria è corta. E non sempre la storia è “maestra di vita”. Troppo in fretta abbiamo dimenticato che, per anni, l’Italia è stata terra di emigrazione. E che milioni di nostri connazionali sono andati in ogni nazione del mondo. Perché, allora, far patire agli stranieri oggi in Italia quel che i nostri connazionali hanno sofferto e subìto all’estero?

Oltre l’indifferenza

Papa Francesco, con il suo viaggio a Lampedusa, dove ha pregato per le tante vittime e deposto una corona di fiori nel mare antistante l’isola, ha acceso un faro di luce su una grave tragedia, scivolata in un cono d’ombra. Con la denuncia della “globalizzazione dell’indifferenza”, papa Francesco ha richiamato l’attenzione degli Stati sul fenomeno dell’immigrazione globale, e ha invocato uno spirito di accoglienza per questi “poveri cristi” in cerca di speranza, nel rispetto della dignità di ogni persona, perché tutti siamo figli dello stesso Dio e membri della stessa famiglia umana. 

Il suo viaggio a Lampedusa e la sua vicinanza a profughi e immigrati, considerati da molti “scarti dell’umanità”, sono state una terribile sferzata e un’implicita denuncia contro politiche e provvedimenti ispirati non all’accoglienza e all’inclusione, ma all’esclusione e ai respingimenti. In questi anni, nel nostro Paese il “reato di clandestinità”, che criminalizza lo straniero prima ancora che abbia commesso un reato, ha permesso che venisse violata una legge universale del mare, che obbliga a soccorrere chi è in pericolo o sta per annegare, chiunque esso sia, senza chiedere prima i documenti di identità, la provenienza o il credo religioso. 

Come è avvenuto, in più occasioni, per tanti marinai e pescherecci che hanno girato al largo dalle carrette del mare, ignorando le urla dei disperati in balìa del mare, per non essere indagati per favoreggiamento del reato di clandestinità e vedersi sequestrare la barca, come ben racconta Emanuele Crialese nel suo film Terraferma. O come ha detto un comandante di un peschereccio, rispettoso della legge del mare: “Dov’è il reato? Rifarei quanto ho fatto. Anche se per quell’intervento abbiamo perso sette ore di lavoro, senza contare il dispendio di gasolio. Il paradosso? Non solo lo Stato non ci indennizza per farci recuperare quanto perso per l’interruzione dell’attività di pesca, ma addirittura adotta una legge che ci fa rischiare d’essere processati”. Per queste ragioni, non solo va abolito il “reato di clandestinità”, ma va riaffermato con forza che chi salva una vita è, sempre e comunque, un eroe.

Un fenomeno massiccio come le migrazioni, che vede coinvolti milioni di persone nel mondo, si può affrontare e risolvere a partire da un semplice ma inequivocabile principio, come ha scritto Benedetto XVI nella Caritas in veritate: “Il migrante è una persona umana con diritti fondamentali inalienabili, da rispettare sempre e da tutti”. “La pace”, ha precisato nella celebrazione in San Pietro per la Giornata mondiale della pace 2009, “incomincia da uno sguardo rispettoso, che riconosce nel volto dell’altro una persona, qualunque sia il colore della sua pelle, la sua nazionalità, la sua lingua, la sua religione”. 

 

Non spegniamo 

i sorrisi 

“Ormai”, ha aggiunto, “è sempre più comune l’esperienza di classi composte da bambini di varie nazionalità, ma anche quando ciò non avviene i loro volti sono una profezia dell’umanità che siamo chiamati a formare: una famiglia di famiglie e di popoli. I volti dei bambini sono come un riflesso della visione di Dio sul mondo. Perché, allora, spegnere i loro sorrisi? Perché avvelenare i loro cuori? Purtroppo, l’icona della Madre di Dio della tenerezza trova il suo tragico contrario nelle dolorose immagini di tanti bambini e delle loro madri in balìa di guerre e violenze: profughi, rifugiati, migranti forzati. Ma proprio il volto dei piccoli innocenti scavati dalla fame e dalle malattie, sfigurati dal dolore e dalla disperazione, sono un appello silenzioso alla nostra responsabilità”.

La globalizzazione, oggi, ha permesso di raggiungere mete straordinarie in ogni campo. Il mondo è diventato un “villaggio planetario”, è l’“esplosione dell’interdipendenza planetaria”, come l’aveva definita Paolo VI. Ma se malintesa, cioè senza solidarietà e fraternità tra gli uomini e i popoli, o se si chiude alla diversità e al pluralismo, la globalizzazione “ci rende vicini, ma non fratelli”. Gli immigrati – è vero – sono una “scomodità”, ma è una “scomodità” che se ben accolta e se governata in modo responsabile, fraterno e solidale, si trasforma subito in una grande risorsa, che aiuta tutti a crescere.

Le migrazioni hanno sempre suscitato timori e chiusure. I Paesi tendono a difendersi come da un pericolo, alzando muri e barriere. Complici i mezzi di informazione, spesso poco responsabili, che alimentano paure e pregiudizi, dando un’immagine sempre negativa e problematica degli immigrati, come fossero tutti dei criminali. Lo si vede già dal linguaggio usato, per cui un immigrato non in regola è sempre un “clandestino” e non un “irregolare”. Per non dire dell’abuso del termine “extracomunitario”, che pone lo straniero fuori della convivenza civile. Poca attenzione, invece, i mass media danno alle storie di vera integrazione o alle “convivialità delle differenze”, come amava dire don Tonino Bello. Esperienze che pur esistono nel nostro Paese, ma sono “fantasmi” sui giornali e nelle Tv. 

Non solo ordine pubblico

L’immigrazione non è, né va trattata, come fosse solo un problema d’ordine pubblico. La sicurezza e il rispetto della legalità in un Paese sono più garantiti da una vera integrazione e dalla dignità tutelata delle persone, come il ricongiungimento familiare. Qualsiasi provvedimento dello Stato nei confronti degli stranieri ha un limite nel rispetto di quei diritti fondamentali della persona, che sono inalienabili, indipendentemente dall’essere cittadini di qualsiasi nazione. A cominciare dal diritto alla preghiera che non può essere conculcato o vietato a nessuno. L’incontro e il dialogo tra le religioni sono una via fondamentale per la pace. L’aveva ben compreso Giovanni Paolo II che nel 1985, con gesto profetico (non da tutti compreso anche nella Curia romana per timore del sincretismo religioso), convocò ad Assisi i capi delle religioni per pregare insieme per la pace. 

è quella “cultura dell’incontro” tra popoli e religioni che papa Francesco non si stanca di invocare, perché tutti si impegnino e collaborino in vista del bene comune, e per rendere più equo il mondo. L’altro nome della pace, ricordava Paolo VI, è la giustizia. I popoli della fame verranno a bussare alle porte dei popoli opulenti, e non c’è muro che potrà fermarli, fino a quando non ci sarà una più equa spartizione dei beni della terra, che appartengono a tutti. Oggi, purtroppo, la forbice tra ricchi e poveri s’allarga sempre più. E il venti per cento della popolazione consuma l’ottanta per cento delle risorse mondiali, lasciando le briciole al resto dell’umanità.

Anche se pongono problemi, gli immigrati sono da considerare una grande risorsa. Anzi, una risorsa di cui l’Italia non può più fare a meno in ogni ambito della vita economica e sociale. Il lavoro degli stranieri contribuisce al dieci per cento della ricchezza nazionale, il cosiddetto prodotto interno lordo. Il saldo è positivo a loro favore, perché oggi essi danno più di quanto non ricevano dallo Stato. Senza i loro contributi anche le nostre pensioni sarebbero a rischio. 

Ma gli stranieri sono una ricchezza anche dal punto di vista demografico per un Paese vecchio come l’Italia, con il più basso tasso di natalità al mondo, avviato a un vero e proprio “suicidio demografico”, che non lascia ben sperare per il futuro della nazione. Chi progetta il futuro dell’Italia non può che farlo a partire dai “nuovi italiani”, che sono i figli degli immigrati nati sul nostro suolo, non a prescindere dalla loro presenza. Nonostante una politica miope faccia fatica a riconoscere il diritto di cittadinanza a chi è nato sul nostro territorio, parla la nostra lingua e vuole che il proprio futuro sia qui da noi, dove i loro genitori lavorano e pagano le tasse. Così, pur essendo “italiani di fatto”, li facciamo crescere con sentimenti ostili nei confronti del Paese che amano. Il futuro dell’Italia non potrà che essere “arcobaleno”, ma questo non deve preoccuparci, perché sulla paura non si costruisce nulla di buono e positivo. Ormai, vivono sul nostro territorio più di cinque milioni di stranieri, e l’Italia è già multiculturale, multietnica e multireligiosa. La politica dello struzzo, cioè far finta che non sia così, è un terribile boomerang che ci tornerà addosso.

Giovanni Paolo II, che nella sua vita ha sempre incarnato una concezione positiva dei rapporti tra i popoli, ricordava: “L’esperienza mostra che, quando una nazione ha il coraggio di aprirsi alle migrazioni, viene premiata da un accresciuto benessere, da un solido rinnovamento sociale e da una vigorosa spinta verso inediti traguardi economici e umani”. 

Per questo, come recita il messaggio per la Giornata mondiale del 1° gennaio 2014, la “fraternità” non può che essere “via e fondamento” per la pace nel mondo.

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