Fuori dal gruppo?
“Bisogna avere molta cautela con chi è felice”- pensava Jack Frusciante, protagonista del fortunato cult-book di Enrico Brizzi che ha spopolato tra i giovanissimi negli anni Novanta.
Figurarsi allora con chi vive il disagio di sentirsi “fuori dal gruppo”, non per scelta personale, come succedeva al 17enne del romanzo giovanile, ma per incapacità di adattarsi alla legge del branco, di seguirne conformisticamente le mode, di avere una venerazione narcisistica per il proprio ego e per la propria virilità guadagnandosi così l’approvazione collettiva. Quando tali comportamenti degenerano in violenza pura, allora si parla di “bullismo”. Vittime predestinate di questi comportamenti sconsiderati sono coloro che sentono cucito addosso l’epiteto del “diverso”, che avvertono il male di vivere confinati nella loro frustrante solitudine. E’ nell’adolescenza che si forma l’identità, anche sessuale, di un individuo. In questa fase magmatica si forgia il carattere della persona, temperandolo alle sollecitazioni esterne, quasi si perpetrasse come una legge naturale quel darwinismo sociale che ha generato creature mostruose nel secolo scorso.
E in una società omofoba come la nostra, a soccombere secondo la famosa interpretazione della teoria sulla “evoluzione (conservazione) della specie”, sarebbero proprio coloro ai quali il diritto naturale ha negato il dono della riproduzione. Lo hanno ripetuto per anni parti del clero e della borghesia, la cui omofobia “assomiglia come una goccia d’acqua al razzismo dei padri del Ku Klux Klan”. A Carbonia, vicino Cagliari, alcuni anni fa, un gruppo di adolescenti aveva persino ripreso col cellulare il tentativo di suicidio di un loro compagno che minacciava di gettarsi dalla torre cittadina denunciando di essere discriminato perché gay. La scena è finita su Youtube con tanto di voci delle ragazze che lo incitavano a lasciarsi cadere. Poi c’è stata la morte del sedicenne dell’istituto tecnico Sommelier di Torino, per le stesse ragioni, che ha prodotto un’interrogazione parlamentare dell’ex on. Franco Grillini.
Nell’interrogazione si ricordava che almeno il 40 per cento dei gay negli anni dell'adolescenza ha tentato, almeno una volta, il suicidio, perché vittima di bullismo; che una ricerca europea condotta in 37 Stati ha inoltre rivelato come il 51,2 per cento dei giovani omosessuali sotto i 26 anni abbia avuto esperienze di violenza verbale e fisica a scuola a causa del proprio orientamento sessuale; che in una ricerca condotta nelle Marche attesta che su 2.849 studenti delle superiori, le offese verbali o fisiche o discriminazioni hanno riguardato il 41 per cento degli omosessuali. Su questi temi il Ministero della Pubblica Istruzione nel passato aveva attuato alcuni protocolli di collaborazione ad esempio con L’Agedo, l’associazione dei genitori di omosessuali, che però non sono stati rinnovati. Da uno studio dell´Agedo, l´Associazione Genitori di Omosessuali, che ha elaborato i dati di diverse ricerche, emerge che in un campione di ragazzi e ragazze gay dai 14 ai 25 anni, soltanto il 20% accetta la propria condizione di omosessuale, contro il 60% che la rifiuta, il 22% che pensa ad atti di suicidio, e di questi il 5% compie effettivamente alcuni tentativi di togliersi la vita. Dati dell’OMS rivelano che tra tutti i suicidi degli adolescenti, almeno un terzo è caratterizzato dalla scoperta della propria “diversità”. L’epidemia dei suicidi in Italia raggiunge l’8% delle cause di morte nella fascia di età tra i 15 e i 25 anni. In Italia solo di recente è stata compiuta una ricerca che dimostra come “l'omosessualità si intreccia con la problematica suicidaria in quanto la letteratura ha identificato gli omosessuali e i bisessuali come categoria ad alto rischio”.
Alessandro Buffoni, laureato in Psicologia presso l’Università di Padova, ha condotto uno studio sul significato del suicidio giovanile nella popolazione italiana. Gli adolescenti gay o lesbiche sono più esposti ai messaggi negativi che ricevono dalla società che li circonda e per questo sono soggetti a rischio. Per esempio, quando sentono usare nei loro confronti parole come "disordine" morale o mentale, che sono "male", che sono "innaturali", che le loro relazioni sarebbero comunque "minori", tutto questo ha un impatto psicologico sulla loro abilità di formare un'identità e una sessualità che siano positive e serene. Si sentono separati dai loro coetanei, diversi e non accettati; sovente non hanno supporto alcuno da parte della famiglia, e questo rende più difficile per loro l'interazione con gli altri ragazzi e ragazze della stessa età.
Numerose sono le pubblicazioni che riportano le cifre del disagio giovanile e che fanno la fortuna di studiosi e psichiatri (da Crepet ad Andreoli) intenti a lanciare un allarme che spesso rimane inascoltato.
Ma chi nella propria vita non ha mai meditato, neppure lontanamente, l’idea di farla finita?
Con questo interrogativo si cade inevitabilmente nella tentazione di archiviare il problema e catalogarlo tra gli effetti di una depressione acuta. Un fatto assolutamente “personale”, di cui nessuno si deve sentire in colpa, come hanno precisato chiaramente alcuni compagni del ragazzo torinese che insultavano “Jonathan”.
La colpa, come si fa in questi casi, si attribuisce a quella entità astratta e informe che chiamiamo “società”.
Ma se l’orientamento sessuale cominciasse a diventare un fatto inconfutabile della identità di una persona e non una “malattia” come tanti ancora credono, ci sarebbe almeno un motivo in meno per far vergognare un sedicenne e spingerlo ad atti inconsulti. Per questo ogni iniziativa culturale, giuridica e politica che aiuti la comunità omosessuale a uscire dalla clandestinità, vanno accolte come importanti passi in avanti nel recupero di una maggiore civiltà.