DIRITTO

Quale Onu oltre l’impero

Una struttura da riformare. Nel senso di una maggiore democrazia globale. E della pace.
Umberto Allegretti

Qual è la prospettiva in cui leggere la presenza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel mondo attuale? L’interesse a farlo sta nel fatto che essa, nonostante innegabili difetti e gravi e ricorrenti fallimenti, costituisce, per le sue caratteristiche d’origine, di storia e di azione, l’unica arena nella quale è pensabile di affrontare correttamente i più gravi problemi di dimensione globale. Alle sue origini, nel 1945, l’Onu è stata l’invenzione che, all’uscita dalle spaventose tragedie della prima metà del secolo che avevano trovato la loro massima condensazione nel bellicismo scatenato nel mondo dal nazifascismo, si è presentata alla ragione e all’immaginazione umana per ristabilire sulla terra una condizione di vivibilità collettiva. I principi posti alla sua base la presenza in un’unica organizzazione della rappresentanza egualitaria della generalità degli Stati; la rinuncia all’uso della forza nelle relazioni tra gli Stati e il correlativo obbligo di comporre con mezzi pacifici le loro controversie; il riconoscimento che la pace esige la costruzione, mediante la cooperazione internazionale, di rapporti di giustizia economica, sociale e culturale tra i popoli e di osservanza dei diritti umani sono il meglio che l’umanità ha potuto porre come ideale per le relazioni tra tutti i popoli.

I nodi irrisolti
Tuttavia, a questi ideali hanno corrisposto, nella concreta strutturazione data all’Organizzazione, carenze gravi e paradossali contraddizioni. Le maggiori sono legate non solo all’imposizione, attraverso il diritto di veto dei cinque grandi Paesi vincitori della guerra mondiale, della supremazia di questi Paesi sugli altri; e non solo all’affidamento della rappre sentanza degli Stati unicamente ai governi, con scarso senso della necessaria democratizzazione dei processi internazionali. Ma anche all’attribuzione alle Nazioni Unite del potere di usare la forza per la soluzione delle controversie non ricomposte in via pacifica: potere delicato e problematico perché dovrebbe (c) Olympia essere affidato a una forza armata mai costituita, e prima di tutto perché la forza dovrebbe normalmente essere resa non necessaria dal previdente impiego di una serie di strumenti pacifici di composizione delle controversie, a sua volta laborioso e complesso. Altre fondamentali manchevolezze dell’ordinamento delle N.U. stanno nell’attribuzione dei poteri nel campo della cooperazione internazionale in campo economico, finanziario, sociale e giuridico, anziché all’Onu stessa, ad altre organizzazioni, tra le quali hanno particolare potenza quelle economiche: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e il Gatt (poi Organizzazione Mondiale del Commercio).
Malgrado queste carenze, l’Onu ha contribuito in maniera rilevante ad alcuni progressi importanti della storia posteriore, come il processo di decolonizzazione politica e la cresci ta della coscienza giuridica mondiale, che ha portato al riconoscimento almeno teorico, su basi universali, dei diritti dell’uomo, sia di libertà che sociali. Ciò a sua volta non ha impedito che la storia complessiva degli interventi delle Nazioni Unite sia stata difettosa, paralizzata come fu per lungo tempo specialmente nel campo della guerra e della pace dall’insorto antagonismo dei due blocchi mondiali col suo corredo di minacce di guerra generalizzata e di numerose guerre locali, e insieme (questo in genere viene scarsamente rilevato) da un rapporto tra Nord e Sud del mondo che non ha corrisposto al bisogno da parte dei Paesi ex-coloniali di conquistare, accanto all’indipendenza politica, quella economica e insieme piena dignità culturale.
Dopo la fine del blocco sovietico, una grande speranza di pace e di cooperazione si diffuse in tutto il mondo, ma presto sfumò per l’insorgere di tensioni legate in gran parte al non diminuito, ma anzi accresciuto, divario tra un Nord ricco e sempre più proteso alla propria supremazia planetaria e un Sud in crescita di impoverimento e di difficoltà a veder riconosciuta la propria identità culturale e dilaniato, per conseguenza, da conflitti atroci.

Un programma politico mondiale
In questo contesto le Nazioni Unite, dopo un breve e contraddittorio periodo di reviviscenza della loro azione in relazione ad alcuni conflitti mondiali (1989 1993), non sono riuscite se non raramente (tra gli esempi migliori Macedonia, Timor est) a svolgere la loro azione di pace e di promozione della cooperazione internazionale. Viceversa, hanno dovuto cedere (Bosnia, Kossovo, Afghanistan, Iraq) agli interventi unilaterali del Paese rimasto più forte, talora coperto dall’Alleanza Nato, la quale peraltro resta un organismo bellico e unilaterale. E si sono dimostrate incapaci di riprendere un’azione economica per contrastare la gravissima situazione di ingiustizia mondiale, lasciandola invece alle grandi istituzioni del liberismo che, nonostante ogni pretesa di buona intenzione, non fanno che aggravare le condizioni di disuguaglianza planetaria. Quali sono, allora, le componenti profonde di questa situazione e quali le possibilità di pace e di giustizia riposte nei principi che stanno alla base dei documenti novecenteschi e riconosciute come aspirazioni profonde dell’umanità?
Sulle componenti, dobbiamo tener presente la loro complessità, resistendo alla tentazione della semplificazione. Pesano, innanzi tutto, quelle discendenti dall’inadeguatezza della struttura originaria delle Nazioni Unite e dei loro poteri, di cui abbiamo detto all’inizio. Tutte quelle rilevate. Non solo, dunque, le più note, come il potere di veto e la mancata democraticità degli organi di direzione, né soltanto la difficoltà di realizzare un’efficace organizzazione dell’uso della forza. Ma anche le carenze – poco notate in ragione di un’idea diffusa nel mondo politico, nell’opinione giornalistica e perfino nelle teorie accademiche, secondo la quale lo strumento politico principale risiederebbe nel monopolio legale della forza e nella sua buona organizzazione – che consistono nel mancato impegno per monitorare e affrontare in via preventiva, con mezzi assolutamente pacifici, la trattazione e la soluzione delle controversie che minano la vita della comunità internazionale e di singoli Stati e gruppi di Stati.
Qui lo sforzo di precisazione maggiore che non trovò se non in piccola parte uno sbocco normativo a opera dell’Assemblea fu compiuto all’epoca in cui, Segretario Generale Boutros Ghali, su invito del Consiglio di Sicurezza fu redatta la Agenda per la Pace, oggi dimenticata, ma che è stato l’unico tentativo di andare oltre le sparse raccomandazioni assembleari, per delineare un compiuto sistema per affrontare le controversie. Ma un ordine di cause non meno decisive sta nell’abbandono da parte dell’Organizzazione – se si tolgono generiche e forse puramente retoriche proclamazioni come la Dichiarazione del Millennio – del compito di mettere a punto un programma politico sul piano economico e sociale, che andasse oltre le pur significative elaborazioni compiute nei grandi Vertici degli anni Novanta, da quello di Rio sull’ambiente a quelli di Pechino sulle donne e di Copenhagen sullo sviluppo sociale, per tradurle in programmi di azione concreta, togliendo in pari tempo il primato degli indirizzi economici alla triade Fmi-Banca mondiale-Omc (Wto).

Il problema USA
I difetti di struttura dovrebbero essere affrontati anche con la spesso invocata ma mai affrontata riforma dello Statuto, ma prima ancora con una sua leale interpretazione e applicazione, nella quale dovrebbe impegnarsi maggiormente, tra gli altri soggetti, anche il ceto universitario. Tuttavia, al di là di quei difetti, occorre considerare che le Nazioni Unite, come ogni altra organizzazione internazionale, dipendono dalle prassi di funzionamento concreto a esse imposte dagli Stati. Le organizzazioni internazionali incluse quelle soprannazionali come la Comunità Europea non funzionano con autonomia come entità istituzionali autosufficienti, ma raccolgono, mediano ed esprimono le politiche e le volontà degli Stati, che danno corpo ai loro orientamenti e alle loro decisioni.
E naturalmente le politiche e le volontà degli Stati più forti sono più decisive, poiché la parità degli Stati è solo formale e invece è grande, tanto più in un’età di globalizzazione, la polarizzazione del mondo tra Stati e aree potenti e Stati e aree deboli. Vano quindi appellarsi all’Onu e protestarne le insufficienze, se non ci si pronuncia in pari tempo criticamente sul comportamento degli Stati, e specialmente dei più influenti, e dei nostri Stati, che sono quelli sulla cui politica possiamo agire.
Da questo punto di vista, si può censurare la politica di molti Stati, ma bisogna sottolineare – con una severità che non sarebbe fondato accusare di antiamericanismo ideologico – la gravità di quella statunitense. Non solo perché gli Stati Uniti sono il massimo attore dello scenario mondiale sia sul piano politico-militare che su quello economico-finanziario; ma anche perché, a differenza di quel che vale per altri, la loro azione internazionale non è puramente pragmatica, ma è ispirata e sorretta da precise prese di posizione dottrinarie, consapevolmente e accuratamente costruite. In questo senso, oltre i loro atti e i discorsi dei loro dirigenti, bisogna studiare attentamente espliciti documenti ufficiali, come le molte edizioni dei National Security Stategy firmati dai loro presidenti.
Quello molto noto del 2002 ha esposto con ogni precisione e con un impegnativo tentativo di giustificazione la dottrina della guerra preventiva e unilaterale. Ma le radici di questa teoria erano già presenti in misura preoccupante nei precedenti, compresi quelli del periodo Clinton. E inoltre, le dottrine in tema di pace e guerra vanno attentamente combinate – perché lo sono, ancora una volta nei fatti e nella teoria – con quelle relative allo spazio economico e culturale mondiale. Si vedrà, allora, che la unilateralità – che è quanto dire la conservazione della sovranità esclusiva del loro Stato e il mancato assoggettamento a limitazioni provenienti da trattati internazionali multilaterali – è il filo conduttore e il carattere generale della politica internazionale statunitense. Non solo in campo militare essa è andata sempre più affrancandosi da ogni condizionamento di altri Paesi (come considerare diversamente la svalutazione del ricorso alla Nato, sorprendentemente praticata, ad esempio, nel caso Afghanistan?).
Ma ciò si ripete, in pratica e in teoria, in campo economico e finanziario, dove gli Usa preferiscono accordi bilaterali con gli Stati deboli a un quadro multilaterale (come ha indicato perfino il caso Mai o quello Wto). In campo ambientale, dove essi si sono ritirati dal processo di Rio e di Kyoto. E in campo giuridico, nel quale hanno aderito con grave ritardo o non hanno mai aderito a patti fondamentali sui diritti umani e stanno sabotando con ogni mezzo il trattato istitutivo del Tribunale penale internazionale. Il tutto affermando con cinismo che non hanno bisogno di sottoscrivere vincoli a cui si sottomettono benissimo da sé stessi (...come dimostrano ogni volta che violano i diritti più sbandierati!).

Il ruolo dell’Europa
Certo, anche l’Europa nella pratica cade a volte nello stesso difetto: ne dà esempio il suo rifiuto di negoziare diminuzioni della protezione dei suoi prodotti nel ciclo di negoziati di Cancun; o, per quanto ad esempio riguarda la Francia, e nonostante la guida da essa assunta della difesa dei principi del multilateralismo nel caso Iraq, il suo ricorrere al rafforzamento della force de frappe e altri comportamenti non coerenti. E sicuramente non basta a purgare da accuse l’Europa la sua proclamazione, nello schema di nuovo Trattato europeo, della fedeltà al metodo multilaterale.
Sì, che fare? Il nostro campo di interesse maggiore dovrebbe essere la politica italiana e quella europea, delle quali siamo totalmente o in comune responsabili. Bisogna tornare a un’azione coerente, coraggiosa e tenace che riporti anzitutto nel quadro globale delle N.U. la discussione dei mezzi per mantenere la pace; mezzi che devono essere essi stessi pacifici e non bellici o comunque militari (compresi quelli da usare nella lotta contro il terrorismo). Ma inoltre è imprescindibile la messa a punto di un ordine economico mondiale meno ingiusto: questo infatti, come già rilevato, è il grande problema internazionale, che contrappone il Nord al Sud del mondo e che blocca ogni possibilità di sviluppo giusto e pacifico la vita del pianeta.
A questi fini, occorre abbandonare i fori separati di discussione e decisione, quali le coalizioni occasionali predilette dagli Usa, la Nato, il Fmi e l’Omc, o tornarvi solo dopo che si è chiarito che queste istituzioni devono procedere in armonia con gli orientamenti maturati e decisi in quella sede Onu che è la più rappresentativa di tutto il pianeta. Ormai la politica degli Stati e dunque quella italiana deve essere concepita come azione di promozione di decisioni comuni, da discutere dapprima in parlamento e nel Paese per dare democraticamente al governo le giuste direttive. Bisogna farlo anche in sede di Unione Europea e nella messa a punto del nuovo ordinamento europeo. Al riguardo, mi si permetta di rinviare al mio articolo e agli altri saggi appena pubblicati nel n. 2/2003 della rivista Democrazia e Diritto, dove, nel sostenere gli avanzamenti consegnati nella bozza Giscard di nuovo Trattato europeo, si notano però anche le insufficienze del quadro di politiche previste nel campo della pace, della giustizia internazionale e in genere nell’azione esterna dell’Europa.
Se non si faranno decisi avanzamenti in questi campi, il senso dell’Europa e il suo vantato ruolo mondiale non saranno davvero encomiabili e il mondo cederà sempre di più all’unico Impero degli Stati Uniti, con tutte le iniquità che ogni situazione imperiale contiene.

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