La teologia delle donne africane
La teologia africana ha bisogno di due ali per volare. La teologia degli uomini non puo’ raggiungere la giusta quota senza il contributo delle donne e la teologia delle donne non vuole procedere senza quella degli uomini. Questo il messaggio principale del discorso con cui Mercy Amba Oduyoye, maggiore teologa africana, formata a Cambridge e con esperienze d’insegnamento ad Harvard e allo Union Theological Seminary di New York, ha inaugurato nel 1989 ad Accra, Ghana, il Circle of Concerned African Women Theologians (Circolo di teologhe africane impegnate), un Circolo di studiose africane impegnate a riflettere principlamente su questioni di religione e cultura e sul loro impatto sulla vita delle donne in Africa. Non si definiscono femministe ne’ donniste (Womanist). La loro e’ la teologia delle donne africane. L’immagine del circolo, o cerchio, e’ stata scelta per affermare l’equidistanza di tutte dal centro e l’interconnessione tra tutte coloro che partecipano e contribuiscono alla vita dell’organizzazione. L’immagine del cerchio vuole anche esprimere e sottolineare l’idea intrinsecamente legata alla cultura africana, che la produzione teologica e’ opera comunitaria più che impresa individuale.
La finalità principale del Circolo è dare alle teologhe africane la motivazione e la possibilità pratica di fare ricerca, scrivere e pubblicare. Consolidata è la pratica di offrire consiglio e supporto alle colleghe più giovani per permettere a queste di affermarsi in ambito accademico. Pubblicazioni sulle riflessioni teologiche delle donne africane non erano mancate prima del 1989 da parte di teologi e teologhe europei e nord americane e, in parte, di teologi africani, ma come è stato detto da Oduyoye e Musimbi Kanyoro, fino a quando le maggiori autorità su questioni di cultura, riti e religioni saranno uomini e teologhe straniere, delle donne africane si parlerà come se queste fossero morte[1]. E’ necessario che le donne e le teologhe africane si esprimano in prima persona sulle questioni che più urgentemente le riguardano e facciano udire la propria voce anche in ambito accademico. Le finalità del Circolo non sono però rimaste puramente accademiche. Tra le altre, l’emergenza causata dalla diffusione dell’HIV/AIDS ha spinto l’organizzazione a riformulare le proprie priorità oltre ricerca e pubblicazione, in direzione di un impegno pratico per affermare, in linea con le maggiori teologie della liberazione, il diritto di tutte e tutti ad una vita piena.
Non dimenticando il fatto che la teologia cristiana africana è antica e conta tra i suoi esponenti figure quali Tertulliano e Agostino, essa è rifiorita negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso con i movimenti di liberazione dal dominio coloniale di molti paesi africani. Il processo di liberazione politica è stato accompagnato da un processo di liberazione culturale mirante a riscoprire ed affermare il valore delle culture africane considerate primitive, arretrate e pagane da colonizzatori e missionari. La cultura cristiana in Africa è stata imposta in alternativa alle culture locali e accettare il vangelo ha richiesto, almeno formalmente, un rifiuto della propria ancestrale cultura.
Un’immagine usata dai missionari era quella dei due bicchieri, uno pieno di acqua pura, simbolo del vangelo, ed uno pieno di sabbia ossia cultura africana. Tanta acqua pura doveva essere versata nel bicchiere africano fino a quando tutta la sabbia ne fosse fuoriuscita e fosse rimasto solo il chiarore del vangelo. I missionari non erano forse consapevoli del fatto che il loro bicchiere assieme all’acqua del vangelo contenesse la sabbia delle culture europee, e una volta svuotato il bicchiere delle culture africane, lo si sarebbe riempito di vangelo e sabbia importata. Assieme ai movimenti di liberazione politica e sociale, anche la teologia in Africa riscopre e rivaluta il proprio patrimonio culturale. E non può farne a meno. In Africa ogni aspetto della vita associata ed ogni espressione culturale è imbevuto di elementi religiosi e come la cultura non è pensabile a prescindere da una dimensione religiosa, così un’elaborazione teologica che voglia essere propriamente africana non può non ripartire dalla cultura. Continuando con la metafora dei bicchieri, i movimenti di risveglio culturale in Africa rivendicano il valore del terreno culturale e la teologia vuole crescere saldamente piantata in quel terreno, riconoscendolo come sostrato significativo per l’impresa teologica. La teologia africana si colloca tra le teologie della liberazione anche nella sua rivendicazione che ogni produzione teologica è irrimediabilmente contestuale e ogni produzione teologica che voglia essere rilevante è chiamata ad essere contestuale in modo consapevole. Un teologia contestuale deve essere consapevole anche del proprio contesto culturale.
Le teologhe africane, al pari dei loro colleghi, riconoscono la necessità di recuperare, riscoprire e rivalutare la propria cultura. Le donne tuttavia sono consapevoli del carattere patriarcale della cultura africana e sottolineano che questa va rivalutata ma non romanticizzata. Poiché la cultura africana è intrisa di elementi patriarcali è necessario applicare quella che Kanyoro definisce un’ermeneutica culturale[2] per distinguere quanto afferma la vita, la dignità e l’integrità delle donne da quanto nega pienezza di vita. Attraverso quest’opera di ermeneutica culturale vanno esaminate credenze, pratiche, riti e quanto regola la vita sociale e culturale di una comunità.
Quest’opera di ermeneutica culturale è propedeutica alla lettura della bibbia. Come ogni teologia è contestuale, condizionata dal contesto nel quale viene prodotta, anche la lettura della bibbia è condizionata dalla esperienza di chi legge e dalla sua collocazione sociale e culturale. Una lettura liberante della bibbia richiede consapevolezza del carattere patriarcale del contesto culturale nel quale tale lettura avviene. Le teologhe africane sono anche consapevoli del fatto che la bibbia stessa porta evidenti tracce del carattere patriarcale dei contesti nei quali è stata redatta. La bibbia è intrisa di elementi patriarcali tanto quanto il contesto della cultura africana nel quale viene letta. L’ermeneutica culturale critica deve essere accompagnata da un’ermeneutica biblica critica tesa a distinguere il contenuto patriarcale della bibbia dal suo messaggio liberante. Il messaggio biblico libero da costrizioni patriarcali diventa un importantissimo strumento di critica liberante della cultura, e una cultura libera da elementi patriarcali diventa la lente adatta a cogliere appieno il messaggio liberante della bibbia.
Un’ermeneutica critica va dunque applicata sia alla cultura sia alla bibbia in modo che esse divengano strumento di liberazione reciproca e possano diventare strumento di liberazione per le donne.
Un esempio a tale proposito è la questione del levirato ossia la prescrizione secondo la quale una donna rimasta vedova viene ereditata da un fratello del defunto. La pratica del levirato è ampiamente diffusa in Africa ed estremamente difficile da mettere in discussione proprio perché supportata da una prescrizione biblica (Deut 25,5). E’ molto probabile che una tale prescrizione sia stata sancita nell’interesse della donna, visto che in contesto biblico come in quello africano una vedova si ritrova spesso in condizioni di estrema vulnerabilità e povertà, ma la permanente pratica del levirato in Africa ha anche implicazioni economiche a beneficio della famiglia del marito. La donna, per la quale è stata pagata un’ingente dote, è considerata un bene trasferito da una famiglia all’altra, proprietà della famiglia acquisita e sottoposta alle decisioni della stessa. A lei non è riconosciuto nessun diritto di decidere del proprio destino. Un’ermeneutica critica del testo biblico è necessaria per sostenere un’ermeneutica culturale critica di una prescrizione che riduce le donne a proprietà. La pratica del levirato inoltre si sta rivelando una pratica pericolosa in contesti gravemente segnati dalla diffusione dell’HIV/AIDS. Nell’Africa del Sud, Zimbabwe, Botswana, Sud Africa, dove la media di persone contagiate è del 30% con punte del 50%, e’ altamente probabile che una donna rimanga vedova a causa del virus. Se il marito muore di malattie legate all’AIDS, è verosimile che la vedova sia stata contagiata e che a sua volta trasmetta il virus al parente della marito che la eredita. Questo, a sua volta, contagerà la moglie o le mogli. Il levirato e quelle pratiche tradizionali che prevedono rapporti sessuali o interventi cruenti sul corpo, diventano sempre più pratiche mortifere in contesti segnati dalla diffusione del virus.
HIV/AIDS, questioni di genere e cultura si rivelano strettamente interconnesse e chiamano ad una riflessione teologica che affronti tali questioni contemporaneamente. La diffusione dell’HIV/AIDS ha un impatto maggiore sulle donne per una serie di motivi. Per questioni puramente anatomiche, le donne corrono una percentuale maggiore di rischio di contrarre il virus. In molti Paesi africani è pratica consolidata che ragazzine di tredici, quattordici anni vengano date in moglie ad uomini maturi. E’ provato che una ragazzina di tredici anni ha probabilità molto elevate di contrarre il virus rispetto ad una appena un paio d’anni più grande. La pratica culturale della poligamia, più esattamente poliginia, per cui un uomo ha rapporti con più donne, spesso anche fuori dal legame matrimoniale, espone la donna anche monogama ad un elevato rischio. Le donne hanno culturalmente pochissima forza contrattuale nel matrimonio, quindi anche una donna consapevole dell’infedeltà del marito ha poca voce in capitolo in materia di prevenzione. A livello mondiale, le donne costituiscono la percentuale più alta di persone povere. In Africa ciò dipende anche dal fatto che le donne non hanno diritto di ereditare né dai padri né dai mariti. Le proprietà del padre passano ai figli maschi. In situazioni di povertà le donne sono più esposte a sfruttamento sessuale, e dunque al rischio di contagio. Per donne povere è difficile avere accesso alle cure antiretrovirali le quali, anche quando disponibili, hanno un effetto limitato se non supportate da una corretta alimentazione. Molte donne africane sono costantemente esposte al rischio di violenza sessuale ed un rapporto violento espone ad un maggiore rischio di contagio.
Per queste e altre ragioni, il nodo tra HIV/AIDS, questioni di genere e cultura si fa sempre più stretto e la teologia è chiamata a pronunciare una parola rilevante e liberante, a farsi teologia impegnata.
Le teologhe africane si sono poste in prima linea nell’elaborare prospettive teologiche liberanti in relazione alla diffusione dell’HIV/AIDS. Si può anzi dire che la teologia delle donne è al momento l’espressione più vitale e creativa della teologia africana proprio perché le donne sono state capaci di affrontare e tematizzare, insieme ad altre, una questione così urgente come la diffusione del virus[3]. Un nuovo impulso è stato dato all’interpretazione biblica e a quella che viene definita una rilettura del testo biblico attraverso la lente dell’HIV/AIDS per cogliere un messaggio che affermi il diritto alla vita e la dignità di ogni persona.
Il confronto con la realtà segnata dalla diffusione del virus ha anche dato un forte impulso alla produzione teologica, soprattutto in materia di cristologia. Chi è Cristo nell’era dell’HIV/AIDS per una donna che ha subito violenza sessuale? Chi è Cristo per una donna che convive con la malattia senza accesso agli antiretrovirali? Chi per la bambina che si ritrova all’improvviso unica responsabile della sopravvivenza di fratelli e sorelle? Cosa significa Cristo per le donne in Africa, oberate dal peso della vita quotidiana? Sofferenza e lotta sono il contesto di questa cristologia che non mira ad analizzare la natura di Cristo, ma ad identificare atti salvifici e costruire su questi una speranza di liberazione. La risposta alla domanda ”Chi è Cristo?” è senza troppe sorprese “il salvatore”, ma è considerato necessario chiarire da cosa si è salvate affinché una nuova vita possa emergere. Proprio da qui intende ripartire una riflessione cristologica contestuale[4]. Poiché il male, la morte e le forze che negano la vita sono una realtà estremamente concreta per molte donne africane, la loro speranza è riposta in Cristo Vincitore del male e della morte[5]. Cristo Vincitore è il Liberatore dal peso delle malattie e dei tabù che limitano la partecipazione delle donne alla vita delle loro comunità. Cristo Vincitore libera da razzismo, povertà ed emarginazione. Cristo è anche amico, compagno e insegnante. La salvezza che porta è liberazione materiale e spirituale. La sequela di Gesù può anche implicare sacrificio, ma questo, dicono le donne africane, deve essere volontariamente assunto, perché Cristo ha preso su di sé la sofferenza volontariamente e non l’ha considerata il destino degli esseri umani. In un continente in cui la sofferenza fisica è endemica, un Cristo sofferente è un Cristo vicino.
La sofferenza, però, come le doglie, deve portare ad una nascita, deve condurre ad un nuovo inizio ed affermare la vita.
“Arise Daughter” è il titolo scelto per la conferenza del 1989 durante la quale è stato inaugurato il Circolo. “Thalita kum”, “ragazzina, ti dico: alzati!”, è la piena espressione della fede e della speranza delle donne africane, la fede in Gesù che prende per mano colei che era morta e la chiama a nuova vita.