Settantesimo anniversario del martirio di Franz Jägerstätter

St Radegund, 9 agosto 2013
Enrico Peyretti

Franz Jägerstätter, umile contadino autodidatta, sacrestano nella sua parrocchia,  affermò la sua forte coscienza religiosa contro l'idolatria hitleriana. Il motivo del suo rifiuto di essere arruolato fu essenzialmente religioso-morale. Per questo fu condannato e ghigliottinato il 9 agosto 1943.

La relazione dl prof. Otto Schwankl, tenuta nel convegno del 9 agosto, nella Pfarrsaal di Tarsdorf (presso il piccolo villaggio natale del martire, St Radegund, nell'Alta Austria, sul confine tedesco), afferma che Jägerstätter non fu “pacifista”: «Non rifiutò di combattere perché rifiutasse l'uso delle armi, ma perché rifiutava il nazionalsocialismo». «Nel vangelo ci sono parole che non suonano assolutamente pacifiste, ma piuttosto marziali, e Jägerstätter vi fa spesso riferimento».

Nella discussione sono state presentate alcune osservazioni, a questo riguardo.

Il rifiuto di quel massimo di violenza materiale e ideale che fu il nazismo non implica certo la giustificazione dell'uccisione bellica, quale è la guerra, la soluzione di un conflitto affidata alle armi, ma implica semmai la condanna della guerra.

Così, la condanna di Hiroshima non riguarda solo quell'atto estremo, ma condanna anche la logica che porta a quel punto. Giovanni XXIII, nella Pacem in terris, afferma che  «nella nostra era, che si vanta della potenza atomica, è insensato (alienum a ratione) pensare che la guerra possa risarcire i diritti violati». Se non bastavano i precedenti argomenti di condanna della guerra, il culmine della guerra nella strage atomica dimostra l'insensatezza anche della guerra convenzionale, che ha condotto a quell'esito, ancora sempre possibile.

Così, la condanna della Shoah comporta logicamente la condanna di ogni razzismo, anche di quello che produce discriminazione sociale, e non solo di quello che produce lo sterminio. 

Così, il rifiuto di obbedire alla violenza morale e politica di Hitler implica il rifiuto di ogni violenza, e non  giustifica affatto le violenze minori di quella. 

Noi possiamo raccogliere la testimonianza-martirio di  Franz Jägerstätter in ciò che implica per la nostra coscienza odierna, al di là di ciò che Franz sentiva, data la consapevolezza di quel tempo, data la sua formazione personale, dato lo sviluppo della morale cristiana e politica di quel momento. Franz Jägerstätter, come altri testimoni eroici, è per noi uno stimolo potente a proseguire il cammino morale che egli ha compiuto con coraggio fedele, oltre gli inevitabili limiti storici di ogni esperienza personale. La concretezza determinata di ogni vita e testimonianza non nega affatto lo sviluppo successivo dei valori vissuti e testimoniati.

Nella cultura e nella morale a cui apparteneva, Franz Jägerstätter giustificava la guerra come difesa dei giusti diritti di un popolo, ma, col suo resistere totale all'abuso che lo hitlerismo faceva di questa ragione, egli appartiene alla cultura che lavora per superare la difesa violenta dei diritti con lo sviluppo delle forze morali e sociali nonviolente. È essenziale la distinzione tra forza (Ktaft), che è un carattere della vita, e violenza (Gewalt), che è azione di morte. La nonviolenza è una forza.

Quanto al linguaggio “marziale” presente in alcuni passi della Bibbia cristiana, che Jägerstätter cita, come per dimostrare la propria leale disponibilità alla difesa del popolo, ma non alla dittatura pagana, Adolf von Harnack ha mostrato che tale linguaggio, adattato al senso spirituale, è penetrato nel cristianesimo quando i cristiani si sono in parte adattati alla società romana e alle sue strutture (si può vedere, per brevità, una mia scheda-recensione del 2006 sul libro di von Harnack, Militia Christi. La religione cristiana e il ceto militare nei primi tre secoli (prossimamente reperibile nel sito www.peacelink.it/tools/author.php?l=peyretti  oppure: peacelink peyretti).

Franz Jägerstätter è stato proclamato “beato” dalla chiesa cattolica nel 2007, per la sua testimonianza della fede e della giustizia fino al martirio. Singolare coincidenza: non lontani da St Radegund si trovano i villaggi natali di Hitler, Braunau, e di Josef Ratzinger, Marktl am Inn. La moglie di  Jägerstätter, Franziska, che lo sostenne nell'isolamento morale della sua decisione, è morta nel marzo di quest'anno all'età di cento anni.

Indico: franzitalia@infinito.itwww.jaegerstaetter.at 

Enrico Peyretti, 11 agosto 2013

 

 

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Libri

Un cristianesimo non innocente

 

Adolf von Harnack, Militia Christi. La religione cristiana e il ceto militare nei primi tre secoli, (1905), a cura di Sergio Tanzarella, edizioni L’Epos, Palermo 2004, pp. 189, euro 15,80.

 

Sergio Tanzarella, studioso di storia del cristianesimo, ha curato e introdotto la prima traduzione italiana di questa opera classica negli studi su cristianesimo antico e servizio militare. Il Curatore avverte che negli ultimi decenni questi studi rispondono più alla precomprensione degli studiosi (pacifisti o giustificazionisti della guerra) che all’impostazione scientifica. Le tesi di Harnack  (1851-1930), a loro volta, risentono dello stato degli studi su chiesa antica e patrologia nel 1905.

Il rapporto chiesa-impero è una questione molto delicata perché coinvolge la sostanza stessa del “vangelo della pace” (l’espressione è nella lettera paolina agli Efesini 6,15, proprio nel contesto di una metafora militare, di “militia Christi”! In Atti 10,36 è detto che Dio “evangelizza la pace” per mezzo di Gesù).

Nell’esercito imperiale il soldato aveva ampi compiti, anche amministrativi, anche di polizia, ma non esclusivamente pacifici. Tertulliano distingue militare (in tempo di pace) da bellare (combattere, uccidere). Il rapporto tra cristiani e mondo militare dell’impero era complesso e sfumato, nel più vasto e incerto terreno della ricerca di soluzioni a problemi morali. La chiesa non dette particolare attenzione al problema del servizio militare e della nonviolenza, ma esiste un filo rosso di sensibilità pacifista e nonviolenta, minoritaria e circoscritta, che dà testimonianza fino al martirio. Tale situazione, del resto, non è molto diversa da quella di oggi, in cui la chiesa predica la pace, ma non impegna quanto impegna in altri campi morali nella scelta di nonviolenza attiva, che resta propria di minoranze profetiche.

Harnack si poneva due problemi: 1) in che misura il cristianesimo ha assorbito nella sua organizzazione caratteristiche militaresche, cioè la  visione della fede come combattimento in una guerra santa da parte dei  “soldati di Cristo”?  (Chi ha l’età sufficiente, oggi ricorda che questo titolo veniva conferito ai bambini col sacramento della cresima, confermazione del battesimo). 2) Quale fu la posizione della chiesa riguardo alla professione militare dei singoli cristiani?

Effettivamente, nei Vangeli, nell’Apocalisse, in Paolo si riscontra talvolta un linguaggio militare come figura letteraria, che però esercita un’influenza e un’assuefazione concreta. Tra i padri della chiesa, Origene ha il problema (che fu già di Marcione) di conciliare la Buona Novella col Dio delle battaglie e degli eserciti del primo Testamento. Per lui, i cristiani sono milites Christi, il bellicismo è spiritualizzato, il battesimo è sacramentum (giuramento militare), Cristo è imperator; i martiri e confessori sono veri guerrieri.

Harnack riscontra una differenza tra le opere letterarie (idealizzanti) e la prassi quotidiana dei cristiani. Le fonti, silenziose fino al 170, successivamente presentano un «esercito percepito con sempre maggiore familiarità nella Chiesa», a causa sia del diffuso linguaggio militare cristiano, il quale ottenne il pericoloso effetto di rendere familiari immagini e azioni di un universo tanto lontano dal vangelo, sia delle molte conversioni nell’esercito. La fede cristiana è intesa come militanza nell’esercito di Cristo. Vi sono importanti eccezioni (Massimiliano e Marcello, obiettori martirizzati), ma la linea è quella, e si compirà nella svolta costantiniana. Il Dio cristiano è riconosciuto come Dio di guerra e di vittoria. I più anziani di noi ricordano l’inno abituale nell’Azione Cattolica, simile a un barbaro-liturgico grido di guerra: «Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat!». Ciò che ieri sembrava esprimere la fede, oggi la umilia.

Sulle tesi di Harnack vi furono reazioni e discussioni che Tanzarella documenta. Pare certo che la prassi, nella chiesa antica, sopravanzi definitivamente ogni norma o preoccupazione morale, anche perché la grande conversione al cristianesimo avvenne a partire proprio dall’esercito. Tuttavia, nelle chiese africane (poi soppiantate dall’islam) si trova una comune sensibilità al tema della nonviolenza e una coerenza tra le affermazioni degli scrittori e le scelte concrete dei cristiani: Tertulliano scrive il De Corona; vi sono testimoni della pace fino al martirio. Eppure, anche questi scrittori adottano, persino più di altri, immagini militari della vita cristiana, ma insieme al rifiuto del servizio militare e della violenza. Non si tratta solo, p. es. nel martire Massimiliano, di opposizione politica all’occupazione romana; sarebbe una lettura riduzionista.  Massimiliano è la voce di quel cristianesimo sommerso che ci è pervenuta generalmente attutita dalla mediazione dei vescovi e dei teologi (si vedano gli studi di Remo Cacitti). È da rigettare la tesi che in questi martiri non vi sarebbe obiezione antimilitarista, ma solo antidolatrica, e che ci sarebbe per loro piena compatibilità tra servizio militare e religione cristiana. Il testo originale degli atti processuali di san Massimiliano martire, decapitato, si legge nel lavoro storico-filologico di Paolo Siniscalco, Massimiliano: un obiettore di coscienza del tardo impero (Paravia, Torino 1974, pp. 159-161). Da questo testo e dall’analisi di Siniscalco risulta che il motivo dell’obiezione di Massimiliano sta nelle parole: «Non possum militare; non possum malefacere», dove il malefacere riguarda non pratiche idolatriche, ma l’uso delle armi (Siniscalco, p. 72 e 133-135). 

Le immagini militari come modello della vita cristiana sono soltanto spirituali, non fanno impugnare le armi, ma quel linguaggio non restava innocente. Origene, per rispondere all’accusa di Celso ai cristiani di abbandonare l’imperatore durante le guerre (dunque, era un fatto avvertibile) dice che i cristiani fanno più e meglio che combattere, pregano Dio per la vittoria! Così si avvia una bellicosità spirituale. La battaglia spirituale tende a diventare reale, guerra santa. La militia metaforica si trasformò in servizio militare alla causa di Cristo: pax romana e pace di Cristo, del tutto estranee, finiscono per identificarsi!

Il Sinodo di Arles del 314 punisce i disertori, su richiesta di Costantino. Ma ciò dimostra che c’erano casi non pochi di disertori! Lattanzio e Eusebio di Cesarea offrono appoggio alla collaborazione dei cristiani con l’impero, facendo una vera teologia politica, imitata fino a tempi recenti, e inseriscono Costantino nel disegno divino! Le vittorie sono attribuite all’intervento divino, nasce una “teologia della vittoria” (Lepanto, del 1571, è un modello anche per certi cristiani di oggi). Il miles Christi diventa un eroe che uccide i nemici della Chiesa. Bernardo di Chiaravalle, nel De laude novae militiae (1128), dice papale papale che  uccidere il nemico non è un omicidio ma un “malicidio”. Oggi l’imperatore d’Occidente dichiara, in un discorso dopo l’11 settembre 2001, che la sua “guerra infinita” durerà fino a «togliere il male dal mondo». Padre Gemelli, durante la prima guerra mondiale porrà i soldati italiani sotto la protezione del Sacro Cuore di Gesù, così esortandoli a restare docilmente ubbidienti alle esigenze di quella folle guerra. Padre Sertillanges, un maestro, quando Benedetto XV definì “inutile strage” quella guerra, chiedendo la pace, proclamò: «Santo Padre, non vogliamo saperne della vostra pace!».  Scoprirlo mi ha scandalizzato.

La militarizzazione del cristianesimo, antitesi del vangelo, è l’ennesima sacralizzazione della violenza scaricata sul capro espiatorio, nell’illusione di liberarne la società. René Girard mostra la capacità demistificatrice dei Vangeli, che ingiustificano sacrifici e violenza dal momento che il “capro” Gesù è il pienamente innocente, colui che pienamente «prende su di sé» il male del mondo, per sostituirlo con l’amore senza limite, invece di respingerlo con quell’aggiunta di male che è la violenza “giustificata”. Anche la teologia sacrificale della redenzione, dominante per secoli nella catechesi, e solo oggi generalmente abbandonata, dipende dal fascino tetro della violenza purificatrice, attribuita anche a Dio Padre, che vorrebbe l’unica soddisfazione adeguata all’offesa infinita fatta dall’umanità alla sua infinita maestà, con la morte sacrificale del proprio Figlio divino!

Per tutto ciò le chiese cristiane, salvo minoranze,  hanno evitato la scelta chiara della nonviolenza evangelica, quasi allarmate perché tale opzione, effettivamente, toglie la possibilità di confidare ancora nella guerra, seppure come extrema ratio. Evitare l’opzione nonviolenta, o anche solo prendere le distanze dal pacifismo, significa volersi riservare la possibilità morale della guerra.

Torniamo alla storia. Ipazia, filosofa pagana (stimata dal vescovo Sinesio), fu linciata nel 415 ad Alessandria da cristiani fanatici che l’accusavano di perseguitare il vescovo Cirillo (responsabile indiretto di quel delitto). Militia Christi diventa così  intolleranza, prima verso i pagani poi verso eretici e infedeli.

L’espansione della cristianità avviene in modo anche bellico, da Carlo Magno alla Reconquista spagnola alla conquista americana, denunciata dal vescovo  Bartolomé de Las Casas. La crociata non è solo un evento storico ma diventa una categoria perenne dello spirito cristiano.  All’inizio del XVI secolo, negli stessi anni di Machiavelli e di Lutero, Erasmo da Rotterdam scrive nel grande Dulce bellum inexpertis: «Si scontrano eserciti cristiani, tutti sotto l’insegna della croce [rimasta fino ad oggi in tanti stemmi statali], che da sola ammonisce come dovrebbero vivere i cristiani. Sotto quel segno della perfetta comunione dei cristiani ci si precipita alla reciproca strage». Ho pubblicato una lettera di Ernesto Balducci, inviatami il 21 gennaio 1989, nella quale egli afferma che la riforma pacifista di Erasmo, se fosse stata capita, avrebbe inciso sulla modernità più positivamente della riforma di fede, ma non pacifica, avviata da Lutero, perché la vera questione evangelica era la pace (cfr il foglio n. 238, aprile 1997, p. 7; v. anche David Maria Turoldo, Ernesto Balducci, La terra non sarà distrutta, l’uomo inedito la salverà, Ed. Gribaudi 2002, pp. 38-39. Le mie lettere di Balducci sono depositate presso la Fondazione Balducci).

Guerre di religione intercristiane; guerra sacra ai turchi; valore religioso del giuramento militare; benedizioni della bandiera e delle armi; preghiere del fante e del marinaio; cappellani militari in tuta mimetica e stola (spettacolo, quest’ultimo, dei nostri giorni, in televisione); “croci” al merito militare, guadagnate sul campo di guerra; “altare” della patria al milite ignoto; omaggi all’eucarestia e al papa mediante esibizione di uomini in armi; retorica della “religione civile”, fino  all’ipocrisia offensiva dei monumenti ai “caduti” – non alpinisti precipitati, ma soldati ammazzati - eretti in ogni più piccolo villaggio ai contadini strappati a famiglia e terra per essere mandati a morire e uccidere: dilaga così l’inverosimile possibilità di una fedeltà cristiana armata e disposta a guerreggiare da buon soldato cristiano.

Ecco, allora, che il soldato ucciso in guerra diventa un eroe, anzi un martire, come letteralmente è stato detto da vescovi celebranti anche nei funerali recenti dei soldati italiani morti in Iraq, portando la “pace” con la guerra! Ma quel titolo usurpato spetta soltanto a chi viene ucciso per non uccidere, da Massimiliano a Franz Jägerstätter (decapitato come Massimiliano e come i giovani della Rosa Bianca), e a tanti altri conosciuti o  sconosciuti, ma scritti nel libro della vita.

Enrico Peyretti , 5 giugno 2006 

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