Testimone-imputato più che mai assente
Il ragazzo è disteso a terra, il vomito alle labbra, un adolescente in rianimazione, tra la vita e la morte, la balbuzie esistenziale che non porta conforto né riparazione, solamente disperazione, coma etilico a tredici, quindici, diciotto anni, morire per abuso di sostanze non è un reality da playstation,
Poco più di un bambino, strangolato dall’alcol, dalla cecità ottusa dell’età, dai desideri adulti improvvisamente insopportabili, sconosciuti e prepotenti.
Quando un ragazzo rotola giù dall’amore che non arriva al cuore, la consuetudine sta nell’uso delle parole sempre più inutili, anche false, perché giustificano sempre e comunque, oppure nel rifugiarsi nella riparazione della “deduzione logica “, negli editti delle buone intenzioni, le solite frasi a effetto.
Un giovanissimo o poco di più, la spirale del rischio estremo, come se tutto fosse nella norma, accadimenti di routine, una specie di ben nota abitudine all’evento critico, non c’è altro da fare che raccogliere i cocci e sperare di riuscire ancora a rimetterli insieme, ma come amaramente s’è visto non sempre s’arriva in tempo.
Invece c’è qualcosa in più che deteriora gli anni più belli della gioventù, c’è qualcosa in meno a cui aggrapparsi per non andare incontro a un coma etilico a quattordici anni, c’è qualcosa che si sottrae confermando la sua presenza.
Rammento qualche anno addietro in una scuola del trentino, anche lì, un ragazzo di quattordici anni, stramazzato al suolo, in coma etilico, pensate: alle nove del mattino.
Fui invitato come operatore della Comunità Casa del Giovane di Pavia a raccontare la mia storia personale, senza badare troppo alla punteggiatura, per fare prevenzione, informare, comunicare, e non dare scampo alle giustificazioni, smetterla con l’incoerenza ipocrita, quando la richiesta di aiuto rimane appesa a mezz’aria, quando con amarezza ti accorgi che l’intero uditorio, ammutolito e scosso, è mancante di qualcosa, di qualcuno, c’è un’assenza che non è riconducibile solamente a quel giovane scivolato tra la vita e… la morte.
Ma ieri, e ieri l’altro ancora, qui, più lontano, più vicino, quando quell’adolescente crollava a terra, dove erano gli adulti deputati a conoscere, a leggere, a decodificare? Chissà se c’è davvero coscienza della distrazione che ha aiutato a trasformare quel disagio in una tragedia.
Diventa doveroso raccontare ai ragazzi la condanna insita nella bottiglia, nella droga, in quel maledetto vicolo cieco che affascina, posto là, mai troppo distante, a portata di mano, di bocca, di occhio sempre più spento, sempre pronto a colmare le lacune, le ansie, i tormenti degli interrogativi, le inquietudini delle risposte.
La bottiglia se ne sta in silenzio, non spreca parole, convincimenti, rimproveri, è “stronza amica discreta”, non ci mette il dito, né il becco, non azzarda consigli, lezioni di vita, non comanda stili né comportamenti, non fa commenti, neppure di fronte alla paura di un cambiamento che non arriva, ma alimenta inadeguatezza che non fa prigionieri.
Chissà se quest’altro adolescente affogato nei beveroni coloratissimi, ci lascia questo dolore lacerante, obbligandoci a intervenire, a non restare indifferenti, a chiederci con chi abbiamo a che fare, a pensare finalmente che solo l’amore arriva dove la volontà ci guida, solo l’amore per il rispetto di quelli ancora a spasso con il cuore, può sbarrare la strada alla resa più devastante, solo l’amore può trasformare i luoghi più impensabili in dignità ritrovate.