Islamismo ed economia morale
I recenti episodi legati al film blasfemo su Maometto e le conseguenti violenze contro le ambasciate americane in vari paesi arabi e islamici hanno riportato alla ribalta sui nostri media il dibattito, se così si può chiamare, sul binomio “Islam e violenza”, e insieme ad esso, come sempre, una enorme confusione su “chi è cosa”: musulmani, islamici, islamisti, islamisti radicali, estremisti, fondamentalisti, salafiti, terroristi islamici, sono tutte espressioni che sentiamo in continuazione ma che vengono quasi sempre usate senza spiegazioni, in modo superficiale, spesso come se fossero sinonimi o quasi.
Bisogna distinguere, e fare chiarezza, e quello che oggi ci interessa di più è secondo me capire, al di là di episodi di violenza comunque spregevoli, cosa sta succedendo dall'altra parte del Mediterraneo, liberando il campo da alcuni preconcetti. Tra i maggiori protagonisti dello scenario post-primavere arabe oggi ci sono i movimenti e partiti islamisti. Mentre le parole “musulmano” o “islamico” fanno riferimento solo alla religione (come “cristiano”), islamista propriamente definisce quei gruppi organizzati politicamente (quindi in partiti o movimenti sociali) con lo scopo di costruire uno stato islamico, o ispirato a principi islamici (non necessariamente con la violenza!).
La loro nascita è legata alle esigenze di riforma e modernizzazione largamente percepite nel mondo islamico ai primi del '900, quando la presenza coloniale europea metteva profondamente in discussione i fondamenti stessi della religione, con le sue idee di sviluppo, progresso, scientificità, razionalità. Il loro obiettivo, semplificando molto, era respingere la modernità imposta dall'Occidente, vista come forma di colonialismo culturale e strumento di dominio, e promuovere dall'interno una rinascita culturale, economica e politica a partire da valori propri, declinando la modernità in termini islamici; non quindi in contrasto con il progresso economico e tecnologico, ma contro i valori materialistici insiti nel capitalismo e la condizione di dipendenza che questo imponeva ai paesi del terzo mondo, e tra essi molti paesi musulmani.
Dopo decenni di repressione, le cosiddette primavere arabe e la destituzione dei regimi in carica, hanno aperto uno spazio di pluralismo prima inimmaginabile (ma questo non è vero in tutti i casi!), e alcuni di questi movimenti, dopo anni di attività semi-clandestina, si sono ritrovati ad essere i più organizzati e attrezzati ad affrontare elezioni democratiche, e a vincerle, come nei casi di Tunisia ed Egitto.
Anche se è in buona parte vero che le forze e gli ideali che hanno animato le rivolte dell'anno scorso avevano poco di islamico nelle loro richieste, sta di fatto che oggi questi movimenti si trovano al governo (Fratelli Musulmani in Egitto, e al-Nahda, “
Vivere perennemente all'opposizione non ha facilitato agli islamisti il compito di elaborare una politica economica articolata, semplicemente perché non avevano alcuna prospettiva realistica di andare al potere, ed era molto più facile criticare i governi di turno che proporre un'alternativa che non avrebbero mai potuto attuare. Eppure molti intellettuali e accademici, membri attivi di questi movimenti, si sono cimentati nell'elaborazione di idee e proposte concrete in campo economico.
Il caso che mi è più familiare (e forse anche il più esemplare essendo stato per decenni il centro politico del mondo arabo) è quello dell'Egitto, dove a partire dagli anni '70 la politica di “apertura” di Sadat significò, da una parte, un maggior pluralismo e la fine del carcere per molti islamisti, dall'altra, la liberalizzazione economica e il graduale passaggio ad un'economia di mercato. Ma l'intesa con Sadat, se mai ci fu, durò poco, e anche se non tutti rimpiangevano le nazionalizzazioni e l'economia pianificata del ventennio precedente, ben presto l'opposizione islamista si concentrò sulla lotta alle politiche neoliberiste. (Un altro tema scottante era l'alleanza con gli USA e la pace con Israele. È in questo periodo inoltre che alcune frange islamiste dichiarando il regime infedele e illegittimo prendono la via della lotta armata e del terrorismo).
In questi anni era centrale nella loro opposizione l'enfasi sulla necessità dell'indipendenza del paese dalle potenze straniere, enfasi che aveva poco a che fare con l'Islam e molto di più con idee nazionaliste o terzomondiste di impronta marxista. Ma il richiamo alla religione era e resta fondamentale nella denuncia del capitalismo (ma anche del socialismo) come sistema amorale, basato solo sulla considerazione dei bisogni materiali dell'uomo, ignorando quelli spirituali. Ad esso, rifacendosi a principi tratti direttamente dal Corano e dalla Sunna (vita, atti e detti) del profeta, gli islamisti oppongono un'economia sì di mercato, ma regolata e limitata da un inquadramento etico di fondo.
I principi fondamentali alla base di questa “economia morale” ruotano intorno al modo in cui sono intesi i concetti di proprietà e di solidarietà. Sin dalle sue origini l'Islam ha riconosciuto e tutelato la proprietà privata come diritto, mai inteso però in senso assoluto, perché la proprietà di tutto ciò che esiste in ultima istanza appartiene sempre a Dio, e l'uomo in quanto suo vicario è tenuto a farne un uso responsabile e giusto. L'accumulazione non è necessariamente vista come un male, ma quando va contro i bisogni della società e il dovere della solidarietà, allora diventa illecita. Ed ecco che una serie di regole già previste dai testi sacri vengono oggi prese dagli islamisti come esempi a dimostrazione che l'Islam può essere al passo coi tempi senza per forza doversi rifare a canoni occidentali: il divieto del monopolio; il divieto di interesse (ogni guadagno che non proviene dallo sforzo umano è considerato usura); il dovere di pagare la zakat, una tassa patrimoniale che si applica a tutti coloro al di sopra di una certa soglia e i cui introiti vanno a soddisfare i bisogni delle categorie più deboli.
L'uso morale della proprietà e la necessità di realizzare la giustizia tra gli uomini portano ad altri due principi molto significativi: il diritto dello stato ad intervenire nell'economia (per correggere situazioni di squilibrio, ma anche per dirigere lo sviluppo in maniera che sia a beneficio della nazione e non di pochi), e il diritto delle generazioni future ad ereditare un pianeta sano e altrettanto ricco di risorse sufficienti al benessere di tutti (spesso articolato in maniera ancor più radicale dell'idea di sviluppo sostenibile usata in contesti internazionali come l'ONU).
Ovviamente tutto ciò, secondo questi attivisti/teorici, può essere possibile solo in una società dove tali regole sono non soltanto imposte dall'alto, dalle leggi dello stato, ma interiorizzate attraverso il ritorno alla fede, rinnovata e rivitalizzata attraverso l'educazione e l'attivismo sociale. È per questo che pur non avendo mai avuto accesso al potere per decenni questi movimenti non si sono arresi ma hanno continuato un instancabile lavoro dal basso, sia fornendo servizi là dove il sistema di welfare statale non era più in grado di arrivare, sia portando avanti la loro battaglia sul piano culturale ed educativo.
Ma allora perché, se queste sono le premesse, gli islamisti giunti al potere, in Egitto in particolare, sono visti da chi ha animato quei giorni di piazza Tahrir, come traditori della rivoluzione? Perché, come spesso accade, con il passare del tempo, specialmente negli ultimi venti anni, i Fratelli Musulmani, o almeno i gruppi al vertice, si sono parecchio allontanati dalle loro origini. È vero che rappresentano ancora la classe media impoverita dei dipendenti pubblici che non arrivano a fine mese, o gli studenti e i giovani che sanno che non riusciranno mai a trovare un lavoro adeguato alle loro qualifiche, ma è anche vero che molti dei leader più influenti sono oggi molto vicini a potenti circoli economici o sono essi stessi grandi uomini di affari, che spesso hanno beneficiato delle privatizzazioni dell'era Mubarak, acquisendo privilegi a cui non intendono affatto rinunciare. E questo causa non pochi malumori e dissensi all'interno del movimento stesso.
Probabilmente gli interessi più forti prevarranno all'interno del partito, e spetterà alle sinistre, per ora piuttosto frammentate e marginali, e ai movimenti sociali, il compito di riportare i temi dell'equità e della giustizia sull'agenda politica nazionale, contro un'élite che non ha alcun reale interesse a cambiare lo status quo. Tuttavia le idee degli intellettuali che, negli anni '80 soprattutto, hanno dato forma al pensiero economico islamista, dandogli contenuto nelle battaglie quotidiane contro il governo Mubarak, secondo me vanno attentamente studiate e prese in considerazione da chi (movimenti di tutto il mondo, anche religiosi) è alla ricerca di una piattaforma comune nella lotta per un'alternativa al sistema economico attuale. La distanza che separa le due sponde, dal punto di vista geografico, religioso, culturale, potrebbe rivelarsi sempre meno incolmabile, e i nostri vicini apparirci un po' alla volta sempre più vicini.