In queste giornate per noi così evocative, con tredici anni difficili alle spalle, due pensieri si sovrappongono. Uno riguarda la dimensione politica del movimento nato per contrastare il pensiero unico neoliberista, l'altro le dinamiche repressive e di limitazione della democrazia. Questioni che si intrecciano e che sono oggi il fondamento di una nuova consapevolezza.
In questo 2014 con la cosiddetta crisi – giunta al suo settimo anno – che si rivela in realtà un sistema di governo e di dominio destinato a durare, può sembrare perfino superfluo rimarcare la fondatezza e l'attualità delle ragioni di fondo del movimento sceso in piazza nel 2001. Potremmo parlare a lungo del dominio della finanza, delle oligarchie sovranazionali che sottraggono democrazia, del neocolonialismo e del debito come leva di potere del forte contro il debole, della logica di guerra che ispira l'ideologia del libero mercato, cioè dei temi affrontati nei seminari, nei forum e nelle iniziative pubbliche di allora, ma possiamo limitarci a far notare che in questi anni si è avuta una radicalizzazione del pensiero unico e dei suoi strumenti di dominio. E che le chiavi di lettura introdotte dal movimento contro il neoliberismo a cavallo del millennio sono oggi imprescindibili se vogliamo capire quel che davvero accade nell'economia globale e nel suo sistema di governo. Altro che “crisi”, altro che “crescita da rilanciare”: siamo più che mai di fronte alla necessità di uscire dalle gabbie mentali, sociali e politiche di un sistema destinato a sopravvivere a se stesso accrescendo il livello di autoritarismo.
Genova 2001 portò novità dirompenti anche nel modo di fare politica, d'essere attivi nella società. Imparammo in quei giorni a ragionare in termini globali, a lavorare con spirito di cooperazione, a prendere decisioni cercando di allargare il consenso, a favorire la partecipazione dal basso. Questa lezione di metodo è il tesoro più prezioso di cui ancora disponiamo, ed è da questo tesoro che dovremmo attingere nel guardare al domani, in una fase storica pervasa da un senso di sconfitta che rischia d'essere paralizzante. Le migliori esperienze di movimento emerse in questi anni – pensiamo a Occupy Wall Street, agli Indignados spagnoli e anche del Movimento italiano per l'acqua pubblica - sono tutte caratterizzate da un alto livello di competenza, dalla centralità di nuove figure sociali ignorate dalla politica ufficiale (il precariato giovanile, i migranti), da un'originale attitudine al pluralismo, da una forte capacità di attrarre partecipazione popolare, da una tendenza a svilupparsi per vie orizzontali senza derive gerarchiche o leaderistiche. Se una nuova convincente idea di sinistra non si è ancora affermata nella società e negli ambiti istituzionali, è anche perché in questi anni, nei vari tentativi messi in campo, si è caduti nelle antiche logiche del personalismo, delle forme verticali di organizzazione, soffocando di fatto la creatività diffusa e la voglia stessa di partecipare. E non si è investito abbastanza, a nostro avviso, nella concreta elaborazione di un credibile progetto politico di “conversione” dell'economia, in grado di dare risposte alle urgenze del momento – in testa la disoccupazione di massa - e d'essere “capace di futuro”.
Dicevamo che un altro pensiero preme in questi giorni in cui cade la ricorrenza del G8 genovese. Riguarda l'esercizio dei diritti civili, la qualità della democrazia italiana. E' un punto sul quale non possiamo farci illusioni, ma che dev'essere dal centro della nostra attenzione. La prepotenza istituzionale, al limite dell'eversione, che caratterizzò le giornate del luglio 2001 è ormai consegnata alla storia, sotto forma di sentenze della magistratura. Sotto questo profilo abbiamo ottenuto risultati di portata storica, con le condanne per la Diaz e per Bolzaneto e la sospensione dai pubblici uffici di altissimi dirigenti della polizia di stato. Risultati che certo non mitigano la sofferenza al pensiero che dieci persone sono state imprigionate con condanne pesantissime e sproporzionate, persone che stanno pagando sulla loro pelle – in maniera profondamente ingiusta e inumana – quella specie di compensazione che è stata concessa all'istituzione-stato, insieme con i mancati processi per l'omicidio di Carlo Giuliani e per il vilipendio del suo cadavere, a fronte della miserabile prova offerta in piazza, nelle scuole, nelle caserme e nei tribunali di Genova da numerosi funzionari e dirigenti delle forze dell'ordine.
Molti, troppi abusi e violenze fino all'omicidio hanno macchiato negli ultimi anni le varie forze di polizia per poter dire che la “lezione di Genova” è stata accolta ed elaborata dentro gli apparati di sicurezza. Forse è avvenuto il contrario. Si è cioè affermata, in risposta alle condanne di Genova e al fallimento del tentativo di ostacolare il corso della giustizia, un'evasione dai canoni della democrazia che rischia d'essere inarrestabile. La chiusura corporativa è addirittura ermetica. Niente sappiamo di quel che avviene nella caserme, dei criteri di formazione degli agenti, di come sono state recepite le clamorose sentenze genovesi. La stessa nuova fase politica, tutta all'insegna della rottamazione e del “nuovo che avanza” non ha toccato i gruppi di potere ai vertici degli apparati. Lì non si annunciano rivoluzioni e si pensa semmai – dobbiamo supporre –a stringere l'ennesimo patto di potere in chiave neoautoritaria.
È dunque tutto perduto? Noi crediamo di no e pensiamo che valga ancora la pena coltivare l'idea che l'etica democratica dev'essere la bussola per tutte le istituzioni statali, anche per gli apparati di polizia. E' una sfida che può essere affrontata a patto che ciascuno faccia la sua parte: in parlamento, nella società, fra gli stessi agenti coscienti della deriva antidemocratica che sono costretti a subire. Le nostre proposte sono note: dai codici di riconoscimento sulle divise, alla revisione dei criteri di formazione degli agenti, all'abolizione della riserva dei posti in polizia per chi abbia prestato servizio nelle forze armate. Fino a una vera legge sulla tortura. Quindi una legge diversa da quella approvata in prima lettura al senato, un testo inadeguato perché non qualifica la tortura come reato specifico del pubblico ufficiale né prevede il principio della non prescrivibilità. Ecco un concreto fronte d'impegno per le prossime settimane e mesi: una campagna per cambiare un testo di legge che pare pensato in un paese diverso dall'Italia, come se a Genova nel 2001 o dentro caserme e carceri anche negli anni seguenti, non fosse avvenuto niente. Come se i giudici non avessero scritto la parola tortura – senza poter applicare una pena congrua – nella sentenza di condanna per i fatti di Bolzaneto.
È il minimo che possiamo fare per chi ha vissuto sulla propria pelle ciò che una volta abbiamo chiamato l'eclisse della democrazia.