Anche i silenzi fra le cause del disastro
Ricordiamo forse tutti l’immagine del 2008 che ha fatto giro del mondo, quella di Nur Al-Maliki che para il colpo di una scarpata da parte di un giornalista iracheno, diretta verso l’allora presidente americano Bush, in vista in Iraq. Era da due anni primo Ministro, con un buon rapporto con gli Stati Uniti che bombardavano l’Iraq, una guerra disastrosa che ha lasciato le conseguenze che vediamo in questi giorni. La politica debole di Maliki che ha governato per otto anni, ha permesso il nascere e il rapido diffondersi di gruppi fanatici, molto aggressivi, che stanno prendendo il potere in un Paese ormai dilaniato, diviso nelle sue parti che un tempo convivevano insieme, un Paese culla antica di civiltà e religioni, ricco di un patrimonio spirituale, culturale e artistico che si sta polverizzando. Un Paese che ha insegnato tanto al resto del mondo ed ora subisce le maggiori atrocità e violenze inenarrabili con un milione e 200 mila profughi sul suo stesso territorio, senza alcuna protezione. Tante sono le responsabilità che hanno portato a questo disastro, fra cui il silenzio degli stessi leader ed intellettuali iracheni che non hanno avuto la forza e il coraggio di dissociarsi in tempo da una politica che divideva il Paese e che faceva comodo ad altri poteri sostenitori di queste bande criminali. I gruppi fondamentalisti, che hanno approfittato della debolezza del governo centrale vogliono farsi notare per il colore nero dell’abbigliamento e delle bandiere con la scritta “dio è grande”, atteggiamento molto simile a quello dei talebani in Afghanistan e dei nazisti di Hitler in Europa. Vogliono usare il nome di Dio e l’Islam che non ha niente a che fare né con il loro colore né con il loro programma e azione, tanto meno con la crudeltà inaudita che è profanazione di qualunque religione. Distruggono tutti i luoghi e oggetti sacri anche dell’Islam, violentano le donne, fanno a pezzi gli uomini, distruggono e seppelliscono vivi anche i bambini con le loro famiglie. Le vittime principali sono i cristiani, gli sciiti e i sunniti moderati, specialmente gli yazidi, un popolo di antichissima storia, molto mite e rispettoso delle usanze altrui, che viveva in semplicità sulle montagne tra l’Iraq, la Turchia e la Siria. Fra loro circa 30 mila persone sono rimaste incastrate su aspre montagne senza acqua e senza cibo, condannati a morte. Si rimane senza parole e senza lacrime: nel nostro tempo raramente si è visto lo scatenarsi di tanta violenza, tanta crudeltà verso innocenti. Ci si chiede se c’è veramente la volontà di fermare questi assassini e di soccorrere queste popolazioni martoriate. Tante responsabilità anche al di fuori dell’Iraq, e la mancanza di una polizia internazionale, che pure è prevista dall’ONU, hanno permesso questo genocidio. Sembra che non sia un problema per il resto del mondo. La politica internazionale non è all’altezza di decisioni, ma il commercio delle armi sta facendo affari d’oro. Haidar Al-Abadi è stato incaricato di costituire un nuovo governo che sappia unire le diverse componenti etniche e religiose dell’Iraq. È importante che trovi davvero un ampio sostegno internazionale. Le capacità umane e le diverse tecnologie dovrebbero intervenire con un grande processo di cooperazione in sostegno di una popolazione numerosa, schiacciata e in fin di vita. È importante fermare il commercio delle armi: queste bande criminali sono ben rifornite da qualcuno di armi potenti che nemmeno possiedono i curdi e il governo iracheno.