Nota di Libera Puglia dopo l'omicidio di via Crisanzio a Bari

Alessandro Cobianchi (Referente Libera in Puglia)

Dopo ogni episodio di sangue legato, direttamente o meno, alla criminalità organizzata, in particolar modo quella barese, amici e simpatizzanti dell'associazione, ci chiedono di scrivere un commento o comunicare qualcosa ''a caldo''. Perché Libera ''non può restare silente''. Siamo spesso refrattari a questa modalità pur riconoscendo l'onestà di chi dice ''se fai e non comunichi, non fai''.  Tuttavia, dopo l’omicidio di via Crisanzio (in cui ha perso la vita Flori Mesuti, giovane albanese ucciso a colpi di arma da fuoco dopo essere intervenuto in una lite tra adolescenti. E' successo il 29 agosto 2014), e il silenzio di una parte importante della città, sentiamo il bisogno di intervenire con la nostra modesta opinione. Questo a maggior ragione, dopo l’intervento di un giornalista lucido e attento come Lino Patruno (Gazzetta del Mezzogiorno), il quale offre spunti davvero interessanti per la discussione.

Leggiamo una critica, anche se molto elegante, che riguarda anche noi, parte di quella indefinita ''antimafia sociale'' che si muove sul territorio. Dopo gli anni ’90, in cui il nostro movimento (anche oltre Libera stessa) ha colto buoni risultati e soprattutto efficaci nella lotta alle mafie, oggi si paventa la possibilità di finire in una ''secca'' con il pericolo di restarci a lungo. Un po’ come i soldati della fortezza Bastiani, corriamo il rischio di restare in attesa che spunti il ''nemico'', con il risultato che ogni fenomeno delittuoso condiziona, ovviamente, le reazioni e le parole della società civile organizzata senza che questa abbia una sua strategia generale a priori. Mi si perdoni la brutalità ma è come se la nostra agenda quotidiana la scrivessero i clan. Se negli anni 90 questa scelta era inevitabile oggi sarebbe perdente. Perché la criminalità organizzata si trasforma velocemente anche quando rimane ancorata a vecchi rituali. Pensiamo all’episodio del Libertà, se confermate le prime ipotesi degli inquirenti, altro che mafia 2.0, qui siamo all’affermazione tribale dell’egemonia culturale sul territorio, sempre a supporto naturalmente del potere e della difesa degli interessi illeciti. In un tempo in cui la criminalità organizzata la intendiamo transnazionale e capace di ghermire la finanza assistiamo ancora a forme arcaiche di controllo delle singole vie o piazze.  L’assenza di un progetto comune da contrapporre a questo mix di antiche e nuove mafie, si avverte tutta.

Ovviamente siamo consapevoli che il ''vengano pure i don Ciotti'' è il picco di un’intelligente provocazione, non si farebbe altrimenti giustizia a un uomo che alla mafia ha fatto davvero paura costruendo strumenti che le mafie le hanno davvero indebolite se non piegate (basti pensare alla legge di iniziativa popolare sul riutilizzo sociale dei beni confiscati, sulla scia della mirabile intuizione di Pio La Torre), oltre ad aver dato un significato alla memoria collettiva di oltre 800 vittime innocenti di mafia come Michele Fazio e Gaetano Marchitelli, come Maria Colangiuli e Giuseppe Grandolfo, come Giuseppe Mizzi, per restare ai casi più recenti e probabilmente emblematici del morire per strada, in seguito a un proiettile vagante o come Nicola Ruffo assassinato per il suo coraggio civico (intromettersi in una rapina è un po’ come riparare civilmente un torto).

È vero, il punto non è trasformarsi in eroi ma essere cittadini, vivere la Costituzione. Se non si può chiedere a tutti la denuncia e l’azione si può pretendere almeno la coerenza.  Sino a rischiare, addirittura (!), che la macchina sia rigata per non aver lasciato la mancetta al posteggiatore abusivo. È opportuno inoltre soffermarsi sulle parole di Lino Patruno sui ''cento inutili convegni sulla legalità''. Sottoscrivo in pieno! Stop, azzeriamo i progetti sulla legalità, le manifestazioni evanescenti, le fiaccolate di dieci persone, gli alberi piantati in memoria, le targhe e via dicendo. Perché sono simboli ma vanno riempiti di sostanza, sarebbero altrimenti come un buon cono tutto cialda e senza gelato: croccante, ma in fondo insipido (di questi tempi la metafora sul gelato funziona e mi adeguo anch’io).

La stessa coerenza di cui sopra è ancor più necessaria quando si parla di ''società civile responsabile e organizzata''. Siamo incoerenti (tutti, nessuno escluso) quando predichiamo l’unità contro le mafie per praticare poi il massimo della divisione. Fra progetti, convenzioni e spillette, il nostro mondo è disgregato, tutto intento com’è a mettere bandierine, a celebrare eroi, a ''commuoversi senza muoversi'' (l’espressione efficace è proprio di don Luigi), a ricordare che Totò Riina è proprio cattivo dimenticando di fare i nomi e i cognomi dei clan che affliggono la nostra città e che sono uno dei suoi cancri (non l’esclusivo certo). Occorrerebbe riflettere sulle tante occasioni perdute, sul narcisistico agire delle nostre organizzazioni e che ci trasforma spesso in una ''compagnia di giro'' che commemora comodamente Falcone e Borsellino ma dimentica che lo spaccio, gli scippi, l’usura non sono praticati qui né da Provenzano né da Messina Denaro, ma hanno nomi meno esotici. Rischiamo in questo modo di poggiarci sul forte valore della prevenzione, aspettando il sol dell’avvenire della morte (a questo punto per suicidio) delle mafie nostrane. Il problema non è solo agire senza limitarsi all’indignazione, ma anche il “come” agire (a contatto diretto del territorio, quotidianamente). 

Infine una considerazione sul “Palazzo”: Bari vive una nuova stagione, di ricambio della sua classe dirigente, che potrebbe divenire protagonista di un ulteriore rilancio della nostra città. Però – come modeste antenne - avvertiamo invece una ripresa di modalità, di comportamenti, di scelte dei cittadini che, speriamo non prefigurino il ritorno a un passato che non vorremmo più rivivere, quello di Bari vecchia “città chiusa”, giusto per fare un esempio. Non siamo alla fattispecie mafiosa generalizzata, ma alla società tanto fertile da concepire pratiche mafiose o talmente vaccinata da non rigettarle più. In fondo uccidere un uomo per farsi giustizia è una pratica dei luoghi dove lo Stato non c’è. Perché gli oratori funzionano ma chi governa la Città (chiunque sia), dovrebbe comprendere che molte risposte sono in un welfare di quartiere, fatto di inclusione e monitoraggio delle situazioni difficili (non scriverò ''a rischio'' per decenza). E anche di prese di posizione nette contro l’illegalità diffusa, a sostegno delle tante anime di questa città che come gli oratori di quartiere vivono giorno per giorno a contatto del disagio e delle pratiche criminali. Anni fa, quando si iniziò a leggere la trasformazione della città si comprese infatti che il mutamento sarebbe stato segnato anche da momenti di sosta, fra ''il non essere più'' e ''il non essere ancora'' (per dirla con Carofiglio). Restare in sosta a lungo senza scelte di sistema rischia di farci assaporare il gusto amaro di quel ''non essere più'' che avevamo cancellato dal nostro palato di cittadini.

 

 

 

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