Relazione per Pax Christi

Vercelli, 11 ottobre 2014
Mons. Luigi Bettazzi

 

È singolare che quando si vuol parlare di pace si inizi con parlare della guerra. Ed è perché partiamo da ciò che è più familiare, da ciò che ci viene presentato con maggiore immediatezza, ed è vero che ci sono più familiari le guerre, che riteniamo inevitabili,  che  non  la  pace,  che  ci  sembra  un’utopia,  cioè,  come  significa l’espressione greca, qualcosa che non è in alcun luogo.

In  realtà  il  mondo  è  armonia  –cioè  pace  –  anche  se  questa  deriva  dal convergere di realtà diverse e da un superamento che nasce dalla tensione verso un’armonia ulteriore. La stessa rivelazione ebraica ci dice che quando Dio ha creato il mondo, a tappe, vide, al termine di ogni giornata, che tutto era buono; e quando alla fine creò l’umanità, uomo e donna, come due esseri diversi ma destinati a integrarsi per garantire il governo del creato, concluse che questo era molto buono.

Certo poi è venuto il disordine, la guerra, perché l’essere umano, anziché adempiere il compito di realizzare l’armonia, s’è chiuso sulle visuali personali per affermare la propria individualità a scapito dell’armonia. Non a caso la prima conseguenza è stata la guerra tra due esseri umani, denominati Abele e Caino, con l’uccisione del più debole.

Nel Primo Testamento la pace, shalôm, che è la pienezza della vita per il popolo di Dio e per i suoi membri, giustificherà la guerra contro quanti venerano i loro idoli o contrastano il popolo che Dio ha scelto, mentre nel Nuovo Testamento diventerà, agli inizi, l’ideale del nuovo popolo di Dio, cioè dei seguaci di Gesù Cristo, a cui viene imposto, non solo di non uccidere, ma anche di amare i nemici. Ma quando l’Imperatore Teodosio -alla fine del IV secolo- farà del Cristianesimo la religione di Stato, il cristiano dovrà allora assumere le armi per difendere chi si fa protettore della Chiesa.

Sorvolo sui tentativi successivi di esorcizzare le guerre ingiuste (ma chi sarà a  qualificare  l’ingiustizia  delle  guerre?)  e  quelle  di  attacco  (ma  tutte  le  guerre potranno essere presentate come guerre di difesa … di che cosa?), finché, di fronte a guerre “mondiali”   che coinvolgono interi popoli, Papa Benedetto XV arriverà a definire  la  prima  guerra  mondiale  come  “inutile  strage”  e  Pio  XII    cercherà  di bloccare la seconda guerra mondiale perché “con la guerra tutto è perduto”.

Il vero rinnovamento è iniziato con Papa Giovanni XXIII, il quale, coinvolto nella tensione per Cuba tra l’USA e l’URSS,   avendo assicurato la pace contro l’eventualità di una guerra atomica, non voluta dalle superpotenze ma a cui non avevano potuto sottrarsi senza un autorevole intervento esterno, decise di scrivere un’Enciclica, la Pacem in terris, che fu il suo testamento spirituale (l’Enciclica porta la data dell’11 aprile 1963 ed il successivo 3 giugno Papa Giovanni moriva).

L’Enciclica, che si rivolgeva – per la prima volta – a tutti gli uomini di buona volontà, pur partendo da ispirazioni evangeliche doveva esprimersi in termini che oggi chiameremmo “laici”. E così parlava di una pace che poggia su quattro pilastri: la verità di ogni essere umano (come non ricordare l’impostazione della “Carta di diritti umani” dell’ONU – S. Francisco, 10 dicembre 1948 – da qualcuno chiamata “il vangelo secondo l’ONU”, ispirata al Vangelo ma espressa in termini universali), la giustizia (a ognuno il suo, non quello che ha già, ma quello che ha diritto di avere), l’amore (oggi diremmo la solidarietà) e la libertà (quella di tutti e di ciascuno, non solo quella della volpe nel libero pollaio!).

Ma l’Enciclica giunge ad affermare che “in rapporto con la forza distruttiva delle armi moderne … riesce quasi impossibile” (ma il testo latino dice: “alienum a ratione”  cioè  una  follia!)  pensare  che  nell’era  atomica  la  guerra  possa  essere utilizzata come strumento di giustizia ( n° 43).

L’Enciclica  arrivò  inaspettata,  con  il  Concilio  già  aperto;  e  praticamente indusse i vescovi a far confluire temi già proposti in un unico Documento su “la Chiesa nel mondo contemporaneo”, la Costituzione pastorale Gaudium et spes, anche esso  rivolta  “a  tutti  gli  uomini  di  buona  volontà”.  Questa  Costituzione  dunque presenta i temi in modo che ogni persona umana possa accoglierli e farli divenire orientamento per la propria esistenza. Tra questi, dopo l’inizio sulla umanità nei suoi vari aspetti e le trattazioni sul matrimonio e la cultura, sull’economia e la Comunità civile, v’è la trattazione sulla pace.

In questo settore la Gaudium et spes inizia precisando (n.78) che “la pace non è la semplice assenza della guerra,né può ridursi al solo rendere stabile l’equilibrio delle forze contrastanti (n.d.r: allora si indicava come l’equilibrio del terrore), né è effetto di una dispotica dominazione(n.d.r: allora si parlava di “pax americana”, come un tempo si era parlato di “pax romana”), ma essa viene con tutta esattezza definita opera della giustizia che “ è un  edificio  da costruirsi  cristianamente”    poiché “ l’acquisizione della pace esige il costante dominio delle passioni di ognuno e la vigilanza della legittima autorità”. E conclude che “ la ferma volontà di rispettare gli altri esseri umani e gli altri popoli e la loro dignità e l’assidua pratica della fratellanza umana sono assolutamente necessarie per la costruzione della pace. In tal modo la pace è frutto anche dell’amore, il quale va oltre quanto può assicurare la semplice giustizia”(n.79).

La Costituzione precisa subito che “la pace terrena, che nasce dall’amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di Cristo che promana dal Padre”, e fa un timido elogio della non violenza: “noi non possiamo non lodare coloro che, rinunciando alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti, ricorrono a quei mezzi di difesa che sono, del resto, alla portata anche dei più deboli, purché ciò si possa fare senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri e della comunità”.

Scendendo al concreto il Concilio stabilisce  il  dovere di mitigare   l’inumanità della guerra e “richiama alla   mente il valore immutabile del diritto naturale delle genti e dei suoi principi universali … le azioni pertanto che deliberatamente si oppongono a quei principi e gli ordini che tali azioni prescrivono sono crimini, né l’ubbidienza cieca può scusare coloro che li eseguiscono”, indicando come esempio “i metodi  sistematici  di  sterminio  di  un intero popolo,  di  una nazione e di  una minoranza etnica, orrendo delitto che va condannato con estremo rigore”. Continua parlando delle norme  internazionali da rispettare e fa un primo accenno all’obiezione di  coscienza:   “sembra   inoltre  conforme   ad  equità  che  le  leggi  provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della Comunità umana”, E, dopo aver nuovamente precisato il diritto alla legittima difesa – che sia difesa e che sia legittima – aggiunge: “Coloro poi che, al servizio della pace, esercitano la loro professione nelle file dell’esercito, si considerino anch’essi come ministri della sicurezza e della libertà dei loro popoli e, se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace”.

Ѐ a questo punto che ci si chiese quale debba essere l’ispirazione cristiana, evangelica, che conferma ed analizza il ragionamento umano sulla realtà della guerra. Ed è da ricordare che in Concilio v’era un gruppo di vescovi che, rifacendosi al Comandamento “non uccidere” ed al precetto di Gesù “ama il nemico”, voleva giungere alla condanna della guerra, di ogni guerra. Allora due Cardinali emergevano in questo gruppo: il Card. Feltin, Arcivescovo di Parigi, e l’olandese Card Alfrink, Arcivescovo di Utrecht. Avrei appreso più tardi che il primo era il presidente internazionale di Pax Christi in carica, il secondo sarebbe stato il suo successore.

La maggioranza però dei vescovi, ancora legata alla dottrina della guerra giusta e a quella della legittima difesa, esitava a giungere a decisioni così drastiche. Per di più i vescovi americani, che avevano un loro esercito a combattere contro i Vietcong comunisti in Vietnam, facevano sentire forte la loro voce. Ricordo il Card. Spellman, Arcivescovo di New York e Ordinario militare nell’esercito americano, scongiurarci: “Non pugnalate alle spalle i nostri giovani che in Estremo Oriente stanno difendendo la civiltà cristiana!”.

Il Concilio non osò. D. Giuseppe Dossetti, che fungeva da consigliere del Card. Lercaro ed era molto apprezzato anche da altri moderatori ( i Cardinali che guidavano l’assemblea in S, Pietro), si rammaricò che a questo punto si fosse partiti più dalla teologia tradizionale che dalla parola di Dio.

Il Concilio giunse peraltro ad una condanna , l’unica del Concilio pastorale. Dopo aver detto (n.80) che i progressi delle armi scientifiche” possono produrre distruzioni immani e indiscriminate, che superano pertanto di gran lunga i limiti di una  legittima  difesa”,  con  la  possibilità  di  una  “  reciproca,  pressoché  totale, distruzione delle parti contendenti, senza considerare le molte devastazioni che ne deriverebbero nel resto del mondo e gli effetti letali che sono la conseguenza dell’uso di queste armi” (e certo si pensava ad una guerra atomica, alludendo anche a Hiroshima  e  Nagasaki)  sentenziava:  ”Avendo  ben  considerato  tutte  queste  cose, questo Sacrosanto  Concilio, facendo proprie le condanne della guerra totale, già pronunciate dai precedenti Sommi Pontefici, dichiara: Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città  o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato”.

Ѐ una condanna precisa, che purtroppo non ha avuto riscontri netti e approfonditi (quali avrebbe meritato, almeno quanto vengono ribadite le condanne in ambito sessuale).

Non è invece una vera condanna , ma in qualche modo la equivale, la messa in guardia  contro  la  corsa  agli  armamenti,  per  cui    notava  (n.81)  che  “  mentre  si spendono  enormi  ricchezze     per  procurarsi  sempre  nuove  armi,  diventa  poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente”. Ecco la sentenza: ”Ѐ necessario pertanto ancora una volta dichiarare: la corsa agli armamenti  è  una  delle  piaghe  più  gravi  dell’umanità  e  danneggia  in  modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi”.

Questo collegamento – pace e riarmo – è importante, perché è l’economia che regola il mondo. Lo anticipava per primo il nostro indimenticabile teologo, il fiorentino Enrico Chiavacci, precisando inoltre che se si è potuto parlare di guerra giusta o di guerra di difesa in un mondo articolato in Stati sovrani e nei rapporti tra di loro, diventa sempre più irragionevole parlarne in un mondo globalizzato. Non è un caso che anche i Papi del dopo Concilio abbiano allargato la visuale della pace, da Paolo VI che nel 1967 la definì “lo sviluppo dei popoli” (“Populorum progressio”), precisando che il mondo è organizzato in modo che i popoli più ricchi e potenti si chiudono nella ricerca e nella difesa dei loro interessi, a spese dei popoli più poveri e più dipendenti, che sono la maggioranza dell’umanità  (giungendo anche a segnalare, - sia pure mettendone poi in guardia – che “grande è la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana” -n.30-), a Giovanni Paolo II che vent’anni dopo, nella   “Sollicitudo rei socialis”, la collega strettamente alla solidarietà, definendo “strutture di peccato” (quindi da combattere e da superare) quanto viene assolutizzato dalla brama esclusiva del profitto e dalla sete di potere col proposito di imporre agli altri la propria volontà (nn 36-37).

Dopo altri vent’anni Papa BenedettoXVI nella Caritas in veritate, mentre auspica una “vera autorità politica mondiale”, in grado di impegnarsi efficacemente per il bene comune (n 65),avanza un timido accenno (n 72)  ai metodi non violenti che soli possono portare alla pace e a garantirla. L’esitazione che abbiamo sempre avuto a parlare di non violenza attiva credo sia stata influenzata dal fatto che il grande maestro ne è stato il Mahatma Gandhi, anche se lui stesso confessava di esservi stato indotto anche dal vangelo, pur aggiungendo che non si era fatto cristiano vedendo quanto poco i cristiani mettono in pratica il vangelo!

Papa Francesco, questo Papa inatteso e sorprendente che il Signore ha dato alla sua Chiesa, parla della pace nel suo primo documento personale (dopo l’Enciclica Lumen Fidei scritta insieme a Benedetto XVI, 29 giugno 2013), cioè l’Esortazione apostolica  Evangelii gaudium, datata il 24 novembre 2013. Essendo rivolta alla gioia di sentirsi evangelizzati e di sapersi evangelizzatori, parlerà soprattutto della pace sociale, con un richiamo immediato ai poveri (n.186:”Dalla nostra fede in Cristo, fattosi povero e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società”), di cui va ascoltato il grido, per fedeltà al vangelo: “Per la Chiesa –dirà, n.198- l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica… La Chiesa ha fatto un’opzione per i poveri, intesa come una forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana… Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri”. Parla a lungo delle forme di povertà oggi esistenti, dai migranti alla tratta delle donne, dai nascituri al resto del creato. E così quando riprende a trattare della pace sociale, rifacendosi in qualche modo a quanto la Gaudium et spes indicava per la pace tra i popoli, dirà che la pace non è solo assenza di guerra, non è imposizione di una parte, non è nemmeno “un’organizzazione sociale che metta a tacere o tranquillizzare i più poveri, in modo che quelli che godono dei maggiori benefici possano mantenere il loro stile di vita senza scosse, mentre gli altri sopravvivono come possono… la dignità della persona umana e il bene comune stanno al di sopra della tranquillità di alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi”. Quando poi -nel parlare della costruzione di un popolo in pace, giustizia e fraternità- sviluppa “quattro principi relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà sociale”  (ed è forse la parte più complessa del documento), dopo aver parlato del primo (il tempo è superiore allo spazio, cioè iniziare i processi è più importante che dominare ciò che esiste) prima di giungere al terzo (la realtà è più importante dell’idea, cioè l’incarnazione della Parola prevale sui ragionamenti a vuoto) e al quarto (il tutto è superiore alla parte, cioè ogni localizzazione deve allargare lo sguardo, per giungere al poliedro, in cui ogni identità si inserisce nel poliedro finale), si sofferma sul secondo: l’unità prevale sul conflitto, che va non ignorato e visto come ingestibile, bensì come anello di un nuovo processo, attraverso un dialogo che culmina appunto nel dialogo sociale: “Ѐ tempo di sapere come progettare, in una cultura che privilegi il dialogo come forma d’incontro, la ricerca di consensi e d’accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni… Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo. Si tratta di un accordo per  vivere insieme, di un patto sociale e culturale” (n. 239). L’Esortazione sviluppa poi, come contributo per la pace, il dialogo con lo Stato e la società, il dialogo tra la fede, la ragione e la scienza, il dialogo ecumenico, quello con l’Ebraismo e l’interreligioso, in particolare con l’Islam.

Nel discorso quotidiano, che si confronta con le situazioni concrete della storia,   Papa Francesco indica concretamente i cammini di pace, precisando ripetutamente che “solo  un progressivo disarmo può portare alla pace, ben sapendo che la costruzione delle armi, sempre più tecnologicamente sviluppate e distruttive, costituisce fonte di interessi enormi per chi le costruisce e   di benefici sicuri per i politici che la favoriscono. E quando le armi ci sono bisogna poi trovare  (o creare) le occasioni per usarle” . Lo esprime chiaramente anche nel messaggio per la Giornata mondiale per la pace 2014 : “ Finché ci sarà una così grande quantità di armamenti in circolazione  come  quella  attuale,  si  potranno  sempre  trovare  nuovi  pretesti  per avviare le ostilità”, facendo quindi uno specifico appello “in favore della non proliferazione  delle armi e del disarmo da parte di tutti, a cominciare dal disarmo nucleare e chimico”. Anche in occasione di un certo terrorismo islamico, Papa Francesco sollecitava ad una azione decisa contro la violenza , ma precisando ripetutamente  “non bombardare”.

Al cimitero di Redipuglia, il 13 settembre 2014, nella Messa che ricordava tutte le vittime della prima guerra mondiale, ha ripetuto che “la guerra è una follia”. Ha spiegato: “la guerra distrugge,stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione.

Ѐ come Caino; ma lui non pianse e rispose: A me che importa?” E anche là ha ripreso la riflessione contro i promotori delle guerre: “Questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure i mercanti delle armi, hanno scritto nel cuore: A me che importa?” E riprende quanto altre volte aveva spiegato: “Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra mondiale, combattuta a pezzi”.

Nel discorso ai giornalisti, tornando in aereo dalla visita in Corea il 17 agosto 2014, aveva parlato di questa guerra mondiale “a capitoli”, aveva anche ricordato le grandi crudeltà verso i bambini, le bombe sui civili, donne, bambini, e vecchi, con in più la tortura, uno dei mezzi quasi ordinari dei servizi segreti e dei processi giudiziari, precisando che la “tortura è un peccato e un delitto contro l’umanità, e ai cattolici dico che torturare è un peccato mortale”. E si domandava: “come è possibile questo? Perché dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro. E c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante. Gli affaristi della guerra forse guadagnano tanto, ma il loro cuore corrotto ha perso la capacità di piangere”.

Proprio nel discorso in aereo ai giornalisti   nel condannare la guerra aveva aperto la strada ad una sorta di “polizia mondiale” alle dipendenze però dell’ONU; aveva detto infatti: “nei casi in cui v’è un’aggressione ingiusta, posso dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto, sottolineo il verbo fermare, non dico bombardare o fare la guerra, ma fermare. I mezzi con cui fermare dovranno essere valutati. Qualche volta infatti , sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una bella guerra di conquista. Una sola nazione


non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto.Ѐ all’ONU che si deve discutere come farlo. Fermare l’aggressore ingiusto è un diritto dell’umanità e anche un diritto dell’aggressore essere fermato, perché non continui a fare del male”. E notava   che “ci vuole più coraggio a fare la pace che la guerra”

 

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A cinquant’anni della Route convergente a Vercelli e ad Oropa credo che , in attenzione ai segni dei tempi, mentre ci sentiamo spinti a pregare sempre più per la pace, ci sentiamo sollecitati:

1.  a studiare e ad operare e a collaborare per le vie della nonviolenza attiva

 

2.  ad impegnarci per un progressivo disarmo ricollegandoci

 

a)  al richiamo costituzionale dell’Italia che ripudia la  guerra

 

b) al bene comune che ci impone in questi momenti, di utilizzare le nostre risorse per proporre lavoro per i nostri giovani e  soccorrere le famiglie a disagio, più che per costruire armamenti portatori di distruzione e di lutti.

 

3.  a  sollecitare  anche  i nostri  Governanti  perché si giunga davvero ad un’ ONU forte e autorevole che in nome proprio possa fermare le guerre e le violenze e programmare autentici cammini di pace.

 

Vorrei concludere con le parole che il Card. Feltin, allora presidente di Pax Christi internazionale, scriveva ai routiers di cinquant’anni fa: “Allargate le vostre vedute e le vostre comunità. Abbiate il senso del bene e dell’insieme. Date il vostro impegno  a  quelle  comunità,  sperimentate  e  appoggiate  dalla  Chiesa,  che  sono l’Azione Cattolica per l’apostolato e il movimento Pax Christi per la pace. Come vorreste  voi che noi compissimo la missione che ci è stata espressamente affidata, se mancassimo di braccia, di cervelli, di cuori, cioè di persone, di militanti competenti, generosi e tenaci? Dopo, come prima della “Pacem in terris” Pax Christi fa appello a voi.”

 

Il segretario suo e di Pax Christi internazionale, il mitico mons. Lalande, commentava il messaggio del Cardinale insistendo sull’amicizia, manifestata e alimentata dalla Route, e sull’impegno.  Diceva:  “nella Chiesa voi dovete essere, se non specialisti, almeno operai specializzati della pace e dell’unità”, fiduciosi, contro le  difficoltà  e  le  contrarietà,  nella  convergenza  di  ispirazioni  e  di  realizzazioni, propria di Pax Christi.

Per noi dunque, come messaggeri della pace di Cristo, v’è un impegno particolare, perché, come ci insegna S. Paolo (Ef.2,14), “Egli è la nostra pace” e, come conferma altrove  (Col. 3, 12-15), dopo aver esortato alla tenerezza, alla bontà, all’umiltà, alla mansuetudine, alla sopportazione vicendevole, al perdono: “Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo”.

E il nostro Don Tonino Bello concluderebbe: “In piedi, operatori di pace!”.

 

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