PAROLA A RISCHIO

Arretratezza medioevale

La persona, l’infelicità, il patire. È possibile farci carico del dolore nostro e altrui? In che modo?
Fabio Corazzina (Sacerdote, già coordinatore nazionale di Pax Christi )

Era il 2001, era il tempo dello scontro di civiltà, della tragica paura che sconvolse l’Occidente e della decisione di scatenare una guerra all’Islam. Umberto Galimberti scriveva in un articolo dal titolo “Quando Dio arma gli eserciti”: “La guerra santa non è prerogativa di Islam e arretratezza medioevale... ma è tipico delle religioni monoteistiche che trovano in Dio legittimazione dei delitti più esecrabili. Nulla di meglio che la morte di Dio annunciata da Nietszche. Anche per chi dalla guerra santa approda alla guerra giusta che si accosta alla nozione di vendetta che attorciglia la storia a una spirale...”.

Mi domando come approcciarci a una simile vulgata, che descrive, ma solo in parte, la realtà del difficile rapporto fra Dio e violenza, fra monoteismi e violenza. Suggerirei tre piste di lavoro: 1. riconoscere che di fatto, sul piano storico, troppe volte i monoteismi sono stati violenti e hanno giustificato la violenza e la guerra come strumento che genera futuro; 2. differenziare, avere consapevolezza che una cosa è il testo fondativo delle religioni, il kerigma, il cuore del messaggio, altra cosa è la storicizzazione e l’uso che ne è stato fatto. Infatti la storia sa capovolgere, travolgere, mistificare l’origine; 3. applicare una radicale ermeneutica dei testi: c’è un fondamentalismo popolare ma anche accademico. Faccio due esempi. Si parla di “Dio guerriero o Dio degli eserciti”, ma è solo una immagine per dire che Dio fa guerra alla guerra. Si parla dell’“ira di Dio”, come metafora per dire che Dio non tollera il male. 

Ci hanno insegnato che il potere è sporco, violento, inavvicinabile, e che solo alcuni lo possono usare, perché puzza di morte. Sono i “sacrificati” per il bene comune che si rendono impuri accedendo al potere per liberarne il popolo. Sono gli unti di Dio, presenti in ogni epoca e autorizzati a versare sangue. Così noi, obbedienti, guidati da questi ciechi soloni, ci siamo abituati a difenderci più che ad amare, a vendicarci più che a perdonare, ad armarci più che a disarmare. Raccontano gli Atti degli Apostoli: “…pur non  avendo trovato in lui nessun motivo di condanna a morte, chiesero a Pilato che fosse ucciso” (13,28): proviamo a recuperare quell’impulso potentissimo di dignità e possibilità che si è originato in Gesù e che sarebbe stato raccolto dai suoi discepoli. In fondo potere significa avere la capacità di generare, di cambiare, di costruire, di progettare.

Gestire il potere

Potremmo coniugare questo potere in cinque percorsi, esperienze, possibilità, scelte, stili di vita:

1) Il potere più forte – e di ogni potere la messa in crisi e il giudizio – è il potere della responsabilità indeclinabile che in ogni persona, soprattutto nel tempo della crisi, attende di essere risvegliato ed esercitato. “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”. Responsabilità cancellata dalla rivendicazione di potere dell’uomo che dichiara a Dio “io faccio quello che voglio, sono legge a me stesso”, chiudendo i rapporti sia con Dio che con il suo progetto, sia con il creato che con il resto dell’umanità. Ma Dio ci cerca e ci chiede “Dove sei?”: “Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo e sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: ‘Dove sei?’. Rispose: ‘Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto’ (Genesi 3,8-10). E noi ci sentiamo nudi, fragili, inopportuni, fuori luogo. 

2) Il dono più grande della tradizione ebraico-cristiana ai nostri tempi è di annunciare la forza della gratui-tà e del disinteressamento che, trascendendo la logica dell’interesse e difesa di sé, inaugura il criterio della creazione del mondo “sette volte buono” dove all’uomo è annunciata la possibilità della riconciliazione con se stesso, con l’altro e con il creato intero. Giorno dopo giorno.  Così Dio ci cerca e ci chiede “Che cosa hai fatto?”: ‘Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?’. Rispose l’uomo: ‘La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato’. Il Signore Dio disse alla donna: ‘Che hai fatto?’. Rispose la donna: ‘Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato’ (Genesi 3,11-13). E noi ci sentiamo spiazzati, vigliacchi, mentitori e infinitamente piccoli. 

3) “Shemà Israel, Adonai Elohenu, Adonai Ehod” (Deuteronomio 6,4-9). È la professione di fede più radicale e intima dell’ebreo: Israele ascolta, fa spazio all’alterità. Istituisce il divino come alterità assoluta. “As-soluto” vuol, dire ”sciolto” dall’orizzonte umano che vedi di fronte a te. A differenza del “vedere” (dal greco “idein”, da cui anche idea), “ascoltare” rende impossibile la composizione o ricomposizione delle parti in unità o totalità dove si annulla ogni alterità. L’altro, all’ascolto, resta presente. Dove Dio, da voce che richiede ascolto (vocazione, chiamata), si trasforma in principio o oggetto di visione, la storia si fa alienazione e violenza. Non più grembo di vita ma tomba di morte.

4) La nostra vocazione alla prossimità più radicale è evidente nella realtà biblica. Dio prossimità chiede a Israele di fare lo stesso. Il significato del secondo nucleo tematico del racconto esodico, costituito dalla donazione della legge sul Sinai (Es 1-15), contiene l’imperativo ad amare con lo stesso amore di alterità con cui si è stati amati: ad esempio il forestiero, la vedova, l’orfano (Levitico 19,33-34). Anche se nelle scritture ebraiche (Lev 19,18) e nella tradizione cristiana (Mc 12,31) il comandamento dell’amore è noto con la formula di “ama il prossimo come te stesso”, non dobbiamo dimenticare che, nella Bibbia, la formula radicale e originaria dell’amore è di “amare il forestiero, l’orfano e la vedova”. Il Nuovo Testamento radicalizza ulteriormente riformulando in “ama il nemico” (Mt 5,43-48). Infatti, la perfezione non consiste, per la Bibbia, nell’autocelebrazione dell’io verso il valore che appaga, bensì nella sua messa in discussione per fare posto all’altro, accogliendolo nella sua estraneità e inimicizia.

5) Il rapporto potere-autorità viene profondamente riscritto nella proposta biblica. A qualsiasi livello il potere suppone la forza. Il potere politico suppone tutti gli strumenti coattivi che garantiscano l’esecuzione delle decisioni prese, e ordinariamente anche la forza militare. Non necessariamente la forza suppone autorità e autorevolezza. Di fronte alla possibilità di un potere che si coniuga con l’autorità che “autorizza” l’uso della forza, velocemente capace di sconfinare in violenza che uccide, mi sento di poter dire che tale uso della forza è eticamente legittimato ma manca dell’autorità di Cristo e della profezia del Regno di Dio. 

Infatti, Gesù ripudia la violenza. “L’Uomo non è venuto per distruggere la vita degli uomini, ma per salvarli”. “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?” (Mt 5,43-48). Cuore del messaggio e testimonianza di Gesù è il rifiuto di perpetuare il male, far sì che le nostre reazioni siano determinate proprio da ciò che deplorano e rifiutano (teoricamente). La via di Gesù chiama tutti a una vita di atti continui di perdono, riconciliazione, verità, giustizia e pace. “Opporsi al male senza parteciparvi”. questo il progetto di Gesù. Ben diverso dalla violenza “sacrificale e salvatrice”. 

Alla fine siamo sempre posti di fronte a due alternative: accettare il “mito” della guerra giusta, per cui l’omicidio, come ultima ratio, è lecito e morale (la legittima difesa anche con la morte dell’avversario), oppure accettare il “coraggio e l’autorità” di chi sceglie la nonviolenza, per cui non c’è mai un’ultima ratio e uccidere è sempre sbagliato. Il “tu non uccidere”, o detto in altro modo “dove è tuo fratello?”, è la vera possibilità e potere che Dio, con Gesù di Nazareth, ci consegna come eredità e testimonianza, come progetto e azione concreta, come scelta e senso del vivere quotidiano. 

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