BELLEZZA E SOCIETÀ

Una ragazza di nome Hélène

Hélène Berr: una giovane parigina nell’Europa nazista.
La bellezza delle idee, del coraggio, dell’integrità.
E la resistenza si fa parola.
Giovanni Gasparini

La bellezza di cui si parla in questa rubrica è spesso connessa ai valori morali: bellezza e bontà, bellezza e giustizia, bellezza e verità. Del resto, già nel racconto di Genesi il compiacimento del Creatore al termine di ciascuna giornata per ogni cosa creata è espresso da un termine ebraico, tob, che si può tradurre tanto “bello” che “buono”.  

Il legame tra bellezza e valori lo possiamo incontrare incarnato in certe persone. Pochi anni fa a Parigi mi sono imbattuto in una di queste persone, più viva che mai nonostante fosse morta dal 1945 nel campo di concentramento di Bergen-Belsen pochi giorni prima della Liberazione. Sto parlando di Hélène Berr, una giovane francese di famiglia borghese e di origini ebree che a Parigi nel 1942 aveva ventun anni e, poco prima delle leggi razziali che la obbligheranno a portare cucita sul vestito la stella gialla, inizia a scrivere un Journal che terrà con interruzioni per due anni, fino al suo arresto nel marzo 1944. Anche i genitori vennero arrestati e morirono ad Auschwitz: ho rintracciato i nomi di tutti e tre nel lunghissimo elenco di ebrei francesi che non tornarono, all’ingresso del Memoriale della Shoah nel quartiere del Marais a Parigi.  

Il diario 

Il Diario di Hélène ci è giunto in circostanze quasi incredibili, 65 anni dopo la sua scrittura a mano. Pubblicato nel 2008 a Parigi con l’introduzione di Patrick Modiano (lo scrittore francese che nel 2014 ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura), il libro è subito diventato un caso editoriale internazionale, paragonato a quello di Anna Frank, ed è stato tradotto in tutto il mondo. Nel 2009 è stato pubblicato dall’editore Frassinelli anche in Italia, dove però ha avuto scarsissima eco e ancora oggi è quasi sconosciuto. Il Journal è una lucida, veritiera e rara testimonianza della vita quotidiana a Parigi sotto l’occupazione nazista, vissuta da una ragazza ebrea brillante negli studi e piena di vita, di sensibilità, di amore per la bellezza, per la musica e la poesia. Una giovane luminosa che aveva sicure doti letterarie, come si trae dalla qualità del suo Diario, e che, come osserva Modiano, avrebbe potuto diventare una scrittrice del tipo di Katherine Mansfield.  

Il Journal di Hélène è, nello stesso tempo,  una lunga lettera d’amore scritta sottotraccia e dedicata a Jean Morawiecki, il fidanzato di famiglia cattolica che ha appena conosciuto alla Sorbona. Jean è l’incontro rivelatore della vita di Hèlène, così come specularmente lei lo è per lui: insieme iniziano a sognare il loro sogno. Ma Jean, giovane coraggioso e generoso come un cavaliere antico, lascia Parigi per unirsi alle truppe di liberazione di De Gaulle, contando di riunirsi poi alla fidanzata. Purtroppo verrà arrestato in Spagna e non  rivedrà più l’amata Hélène, la quale  prima di essere internata riesce ad affidare il Journal alla cuoca di famiglia. Sarà questa donna, a guerra terminata, a far avere il manoscritto al suo destinatario. E Jean, diplomatico francese in America Latina per decenni, lo terrà con sé tutta la vita come un segreto, fino a quando l’incontro con Mariette Job, nipote di Hélène che sente in sé fortissima la vocazione di passeuse o trasmettitrice di questa memoria, lo convincerà ad affidarle il diario, facendolo uscire dall’oblio e donandolo al mondo. Finalmente, nel 2008 il Journal, grazie alla determinazione della nipote e all’appoggio del Memoriale della Shoah di Parigi, vede la luce. Jean Morawiecki muore subito dopo. 

A Parigi lo scorso anno ho avuto la possibilità e il piacere di intrattenermi a lungo con Mariette Job su questa storia che ha dell’incredibile e che ora tutti possono conoscere e in parte immaginare attraverso le parole coraggiose e delicate del Diario: un documento che merita di essere sulo stesso piano delle testimonianze di Anne Frank e di Etty Hillesum, due donne rispetto alle quali la Berr aveva un’età intermedia. Hélène dice di non aver tempo di scrivere un libro (ciò rappresentava una sua grande aspirazione), ma di voler dare anzitutto una testimonianza perché faccia memoria, perché si conosca il male che sta accadendo ad opera dei nazisti e del regime collaborazionista ad esso asservito: “...devo compiere un dovere scrivendo, perché gli altri devono sapere. A ogni ora del giorno si ripete la dolorosa esperienza che consiste nell’accorgersi che gli altri non sanno, non immaginano nemmeno la sofferenza di altri uomini e il male che alcuni infliggono ad altri. Allora continuo a fare il penoso sforzo di raccontare.

Perché è un dovere, il solo che posso adempiere. Ci sono uomini che sanno e che chiudono gli occhi, quelli non riuscirò mai a convincerli perché sono insensibili ed egoisti e io non ho autorevolezza. Ma gli altri, quelli che non sanno, e che forse hanno cuore per capire, sono quelli su cui devo agire. Infatti, come guarire l’umanità se non svelandole per prima cosa tutta la sua corruzione, come purificare il mondo se non facendogli capire la portata del male che commette?… Le sofferenze non si vendicheranno con la guerra. Il sangue chiama sangue, gli uomini si ostinano nella loro malvagità e cecità. Se si riuscisse a far capire ai cattivi il male che fanno, se si riuscisse a dar loro quella visione imparziale e completa che dovrebbe essere il vanto dell’essere umano! …

Dovrei dunque scrivere per poter dopo mostrare agli uomini che cosa è stata questa epoca. So che molti altri avranno lezioni più importanti da dare e fatti più terribili da svelare. Penso a tutti i deportati… Ma questo non deve farmi commettere una viltà, ciascuno nel suo piccolo può fare qualcosa e se può, deve” (Il Diario di Hélène Berr, Frassinelli 2009, 10 ottobre 1943). 

Indignati

Trovo meraviglioso che Hélène riesca a unire l’indignazione per l’occupazione tedesca, che ferisce “la bellezza luminosa e fragile di Parigi”, con l’assenza di odio e con la testimonianza di un ideale di vita bella e giusta che non viene meno: “In place de la Concorde, ho incontrato tanti tedeschi con alcune donne, e nonostante tutto il mio scrupolo di imparzialità, nonostante il mio ideale (che è reale e profondo), mi si è scatenata dentro un’ondata non di odio, perché ignoro l’odio, ma di rivolta, di disgusto, di disprezzo. Quegli uomini, senza neppure capirlo, hanno sottratto la gioia di vivere all’intera Europa” (ibid., 30 ottobre 1943).

Questo non significa, peraltro, che Hélène non si interroghi dolorosamente sul suo presente e sul suo futuro: “Ci saranno molti che a 22 anni saranno stati consapevoli di poter bruscamente perdere tutte le potenzialità che sentivano in loro (e non provo nessuna timidezza a dire che in me ne sento di immense, dato che le considero come un dono ricevuto e non come un possesso), di poter vedersi togliere tutto e non ribellarsi?” (ibid., 27 ottobre 1943).

“Ho paura di non esserci più quando Jean ritornerà… Ma non è paura, perché non ho paura di quello che potrebbe succedermi… Ma temo che il mio bel sogno non potrà completarsi, realizzarsi. Non temo per me ma per quella cosa bella che avrebbe potuto essere” (Ibid., 25 ottobre 1943).

Immersa nell’abiezione di ciò che la circonda, privata progressivamente dei genitori e delle persone amiche che vengono arrestate una dopo l’altra, Hélène si prodiga senza posa come volontaria nell’UGIF, l’organismo che faceva da collegamento tra l’occupante tedesco e la popolazione ebraica, e svolge un’attività clandestina nell’Entraide Temporaire, l’organizzazione che riuscirà a mettere in salvo ben cinquecento bambini ebrei abbandonati o senza genitori.

Dopo la deportazione ad Auschwitz il 27 marzo 1944 (il campo di concentramento dove moriranno i genitori e da cui la giovane verrà evacuata nel 1945 per Bergen-Belsen) ci è rimasta un’unica testimonianza su Hélène, che la rende straordinariamente vicina alla figura di Etty Hillesum. Così la ricorda infatti una donna ebrea sopravvissuta, Nadine Heftler: “La vedo ancora seduta nel suo tailleur. Aveva sempre molta gente attorno a sé: ci parlava molto serenamente della vita di prima e infondeva la vita al punto tale da far dimenticare talora alle sue compagne per qualche momento il luogo in cui si trovavano. Ancora oggi il ricordo del suo volto è in me preciso. Quello che più mi aveva colpita era nello stesso tempo una sorta di tranquillità e una forza vitale che  cercava di trasmetterci. Che cosa ci diceva? Ci prodigava incoraggiamenti e, con la magia delle sue parole, riusciva a trasportarci fuori del campo e della nostra sconfinata miseria. C’era anche la sua eleganza morale e, diciamo, la sua classe così naturale. è la sola persona di cui abbia serbato in memoria il nome di famiglia, perchè Hélène amava dire che si chiamava Hélène Berr. (N.Heftler, Si tu t’en sors, La Découverte, Paris 1992).

E così vorrei ricordarla anch’io. In silenzio grato e commosso.

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