ULTIMA TESSERA

Dallo scatolone di sabbia…

La Libia è questione complessa. Dal nostro passato coloniale agli accordi militari firmati con Tripoli, da frontiera estera da blindare a terra in cui lo jihadismo identitario ha più presa.
Francesco Martone

A quattro anni dall’intervento internazionale in Libia la guerra in quella che in tempi coloniali era chiamata “lo scatolone di sabbia”, –“Tripoli bel suol d’amor” – rientra con prepotenza nella nostra quotidianità. Ennesima dimostrazione di come dal Maghreb al Mashrek i vecchi assetti geopolitici, i confini materiali e immateriali tracciati dai “vincitori” di allora, ex-potenze coloniali, siano inadeguati a governare le profonde trasformazioni che attraversano quelle regioni. Teatro di confronto diretto o a distanza tra potenze globali o aspiranti tali, Stati che giocano la loro partita geostrategica nelle regioni di prossimità, lungo una traccia, nera come il petrolio, che pare legare queste vicende l’una con l’altra. Un profondo sussulto scuote il mondo arabo, tra sciiti e sunniti, e al loro stesso interno. Stavolta anche molti di coloro che si sono sempre schierati contro la guerra, pensano che alla nuova barbarie si debba rispondere con la forza delle armi. Tale risultato è in parte l’effetto di una vera operazione di “psyc-op” da parte dell’ISIS, a colpi di tweet, video truculenti, proclami roboanti. Si dovrà perciò tentare di discernere ciò che è razionale da ciò che viene indotto dalla “propaganda” del Califfato e ciò che proviene dal deficit di strumenti di analisi e chiavi di lettura adeguate. E per quanto riguarda l’Italia, l’incapacità di fare davvero i “conti” con il proprio passato coloniale. 

Cosa accade?

La Libia di oggi è la prova dell’ennesimo fallimento dell’applicazione “selettiva” e opportunistica del principio di ingerenza umanitaria, invocato per rimuovere l’odioso regime di Gheddafi e i quadri e l’apparato di governo e amministrativo. Un “tabula rasa” che non ha portato la pace mentre la comunità internazionale ha continuato a guardare alla Libia principalmente come frontiera esterna da “blindare”, con le missioni EUBAM e Sea Horse. L’Italia firmò a Tripoli un memorandum d’intesa per una missione militare italiana in Libia (la MIL), oltre a partecipare a EUBAM ed essere capofila del piano Libia del G8,  incarico preso su richiesta esplicita di Barack Obama. Tra gli obiettivi del piano, quello di addestrare quasi 20mila soldati e poliziotti libici e di ricostruire l’assetto di “governance” del Paese. Evidentemente una missione non compiuta, se la situazione è arrivata a deteriorarsi a tal punto. L’ISIS (Daesh in arabo) si è “insinuata nelle maglie di questo Stato fallito, nonostante conti su forze relativamente esigue rispetto a quel che è il Daesh in Iraq e Siria: la Brigata Al Battar, composta da ex-foreign fighters libici e giovani jihadisti (Islamic Youth Shura Council) che controllano in parte Sirte. Ansar Al Sharia, più vicina ad Al Qaeda ma non ad essa alleata, combatte contro le milizie “lealiste” del generale Haftar a Bengasi e di recente si sarebbe coalizzata con le forze che si riconoscono nell’ISIS. La Cirenaica è la regione dove lo jihadismo ha maggior presa ma è per lo più uno jihadismo non “dottrinale” più “identitario” alimentato da ostilità verso il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, quello di ‘Abdullah al-Thinni, a Tobruk. Un conflitto puramente politico, quindi, non “religioso”, tra due governi con rispettivi parlamenti. Va poi aggiunto che molte milizie islamiche locali si sono coalizzate contro l’ISIS, nel Consiglio dei Mujaheddin. Insomma, un quadro complesso di un Paese in mano a bande armate, spinte secessionistiche, controllo di risorse petrolifere, golpe e controgolpe, tra Qatar che foraggia le milizie islamiche e Arabia Saudita. Egitto ed Emirati che sostengono il generale Haftar, alleato di Al Thinni che con la sua “operazione dignità” si è autonominato difensore della laicità e dello Stato. L’Egitto del generale-presidente Al Sissi che forte del sostegno della Francia (non è la sola a chiudere ambedue gli occhi di fronte alla repressione spietata compiuta dal regime al Cairo) chiede a gran voce un intervento militare internazionale sotto il “cappello” ONU, non per annientare l’ISIS ma per decimare i Fratelli Musulmani, e nel frattempo interviene con le sue forze aeree. E poi c’è l’Algeria, contraria a interventi “esterni”, e la fragile Tunisia unico laboratorio di successo delle primavere arabe. In tale contesto un intervento militare rischia di rafforzare, piuttosto che eliminare la presenza di adepti del Califfato in Libia, che sia una coalizione di volenterosi, o sotto l’ombrello ONU. Questo sembrano averlo compreso in molti, dagli Stati Uniti all’Unione Europea. Semmai oggi in Libia la priorità della comunità internazionale dovrà essere quella di “isolare” e delegittimare quelle frange estreme che si ispirano al Daesh per emulazione o collaborazione diretta, con gli strumenti della politica. Tagliare le fonti di sostentamento delle economie “criminali” e sommerse” e insistere sulla ricostruzione di un assetto “statuale”, sostenendo l’iniziativa dell’inviato ONU Bernardino Leon, per un accordo tra le parti in conflitto, che procede con continui “stop-and-go” tra milizie di Zintan e Misurata (filoislamiche). Andrà quindi perseguito un negoziato macro-regionale che metta alle strette Qatar, Arabia Saudita ed Egitto in primis e porti alla cessazione delle ostilità. Giacché ogni eventuale missione di “peacekeeping”, tuttora non all’ordine del giorno, avrebbe senso se c’è un accordo di “peace” su cui vigilare. Per poi contribuire alla ricostruzione di una cornice di “governo” federale, attraverso un processo di consultazione largo, aperto.

I migranti

C’è poi la questione migranti. Anche qua non si deve fare confusione: i flussi di migranti dalla Libia non sono questione recente, e quindi ricollegabile all’ISIS o da mettere in connessione con un’eventuale operazione militare nel Paese. Andrà piuttosto lanciata un’operazione internazionale di salvataggio in mare, non Triton, ma magari una Mare Nostrum II, internazionalizzata, con mandato di salvataggio non di securitizzazione delle frontiere. Altro che lasciare migliaia di disperati già in fuga da guerra e repressione nelle mani di trafficanti senza scrupoli!

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