Piramide rovesciata
E la Costituzione italiana sotto forma di piramide: prima i diritti, poi le strutture. Cosa ne è, oggi, dei principi fondamentali in essa contenuti?
A settant’anni dalla Liberazione è sempre vivo tra gli storici il dibattito sul significato della Resistenza: guerra patriottica contro l’invasore tedesco, guerra anche civile, nuovo risorgimento dopo la parentesi fascista? Se guardiamo alla storia delle istituzioni politiche e sociali, comunque, non pare dubbio che il grande risultato della Resistenza è stata la Costituzione. Certo, cospirò a questo risultato anche la volontà degli Alleati, che nella conferenza di Mosca dell’ottobre 1943, pur sostanzialmente commissariando il nostro Paese, riconobbero al popolo italiano il “diritto di scegliersi alla fine la sua propria forma di governo”, una volta eliminata la “perniciosa influenza” del fascismo.
Libertà costituente
Si apriva così la porta a una Assemblea Costituente: alla quale, però, se fu consentito esercitare una autentica “libertà costituente”, lo si dovette proprio alla Resistenza e alla mobilitazione culturale che essa indusse, a cominciare dal “primo congresso della libertà”, come lo chiamò Tommaso Fiore, svoltosi a Bari sul finir di gennaio del 1944. Qui si consumò la rottura istituzionale con la monarchia. Quel definitivo rifiuto dell’esortazione alla “concordia e ad abbracciarsi alla persona di un re, che per venti anni non si è lasciato abbracciare da nessuno, se non forse, ahimè, dagli uomini in camicia nera”. In queste parole, pronunciate da Benedetto Croce nel discorso inaugurale, era già contenuto l’auspicio di un mutamento di regime: quell’atto di rottura della continuità istituzionale, che sta al fondamento della Costituzione. Infatti, nella mozione finale approvata dal Congresso – all’unanimità con due sole astensioni – accanto alla richiesta di abdicazione immediata del re si sottolinea la necessità “di predisporre con garanzia di imparzialità e libertà la convocazione dell’Assemblea Costituente”. Perciò, per questa solenne decisione di avviare il processo costituente, “questo congresso è stato un fatto che rimarrà per secoli nella storia d’Italia”, dirà il conte Sforza nel discorso di chiusura.
La nostra Costituzione nasce, quindi, dal flagello della guerra, dalla Resistenza e dalla Liberazione. È anzi il frutto politico e giuridico della Liberazione, è la nuova patria ricostruita dalla Liberazione. Questa, dopo settant’anni, sarebbe non più che una commemorazione, non dissimile dal 4 novembre, se non ci fosse la Costituzione. E la Repubblica, che festeggiamo il 2 giugno nell’anniversario del referendum del 1946 che sanzionò la scelta repubblicana del popolo, sarebbe senza patria. Il nostro patriottismo è costituzionale o non esiste.
Quanto ai contenuti, la Costituzione è stata il risultato di un compromesso democraticamente raggiunto tra le nuove forze politiche, nate o rinate dopo lo sfacelo del fascismo: e le due grandi forze uscite dalle elezioni – quella del movimento operaio (diviso tra il Partito comunista e il Partito socialista che ebbero alle prime elezioni del 1946, congiuntamente, circa il 40% dei voti) e quella del movimento cattolico (il cui partito, la Democrazia Cristiana, ebbe il 35% dei voti) – non disdegnarono l’accordo anche con gli epigoni del movimento liberale. Ecco il grande risultato della Resistenza, nella sintesi che molti anni dopo ne fece Norberto Bobbio: “repubblica invece di monarchia; anche la seconda Camera democraticamente eletta e non più nominata dall’alto; il suffragio esteso alle donne; il riconoscimento dei partiti, senza i quali nessuno Stato democratico è in grado di funzionare; l’affermazione dei più ampi diritti sociali accanto alla riaffermazione dei tradizionali diritti di libertà (ammessi nella loro accezione più ampia); l’istituzione di una Corte costituzionale chiamata a garantire, anche contro il Parlamento, i diritti dei cittadini dichiarati nella Costituzione” (le parole di Bobbio sulla seconda Camera fanno venire un brivido: con la riforma costituzionale in atto il Senato non sarà più democraticamente eletto, ma tornerà a essere nominato dall’alto, da quei nuovi sovrani che sono le maggioranze dei consigli regionali).
Enorme il cambiamento rispetto allo Statuto Albertino: si trattò, come dicono i giuristi, di un atto di rottura della legalità costituzionale disegnata da quello statuto e di identificazione con quella delle Costituzioni ispirate ai principi della democrazia parlamentare. Ma con una peculiarità che riguarda la struttura, che la Costituzione presenta ai nostri occhi. Fu Aldo Moro a dare forma geometrica a un famoso intervento di Giuseppe Dossetti e a proporre la figura della “piramide rovesciata”: cominciare dai diritti della persona, poi passare a quelli delle formazioni sociali (famiglie, sindacati, confessioni religiose, partiti), infine, terminare con gli organi istituzionali (Stato, regioni, autonomie locali, organi di garanzia).
Diritti e doveri
Questa struttura consentì ai costituenti di tracciare un vero e proprio programma politico, inteso a promuovere il cambiamento della società nei rapporti civili, etico-sociali e politici: dal diritto all’istruzione a quello alla salute come interesse della collettività, dal diritto alla retribuzione – tale da essere “in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa” non solo al lavoratore ma anche alla sua famiglia –, al sistema tributario informato a criteri non di proporzionalità ma di progressività. Un filo rosso lega queste e altre disposizioni: il dovere di solidarietà dei cittadini (la Repubblica “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”: art. 2, da un lato, e, dall’altro, il dovere della Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, comma secondo). Da notare che gli ostacoli da rimuovere non sono quelli giuridici, ma quelli di fatto: la povertà, lo handicap, l’immigrazione (v. il diritto d’asilo: art. 10), qualsiasi situazione di concreto svantaggio. E poiché la giustizia si sposa con la pace (“la pace è frutto della giustizia”, ammoniva già il profeta biblico), ecco che “L’Italia ripudia la guerra” e consente “alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11). Qui non è la Repubblica che si impegna, la Repubblica delle autonomie, delle istituzioni. È l’Italia. È qualcosa di più delle istituzioni, è quella stessa Italia, con cui si apre la Costituzione, è tutto il popolo, siamo tutti noi, nelle varie generazioni. Come ebbe a dire il presidente Scalfaro, questo “è un pezzo di Costituzione scritto in un modo incantevole. Ed è l’altra faccia di un atto di fede nella pace, perché sancisce un blocco assoluto”.
Un programma costituzionale, com’è evidente, non solo impegnativo ma sostanzialmente sovvertitore delle politiche di prudente equilibrio, tendenti alla conservazione delle strutture esistenti. La spinta alla sua attuazione è stata massima negli anni Settanta (statuto dei lavoratori, riforma del diritto di famiglia, ordinamento penitenziario, diritti civili, ecc.); la controspinta è quella che stiamo vivendo da anni fino al giorno d’oggi (spending review, ma non per l’acquisto degli F35; tutele crescenti – cioè, all’inizio, niente – sul posto di lavoro; scudo fiscale a chi esporta capitali all’estero; modica quantità, non punibile, nel falso in bilancio; ecc.). Si sta condannando così la Costituzione all’irrilevanza, a un orpello retorico (come quando la si omaggia come “la Costituzione più bella del mondo”).
Come mai ciò non suscita più una reazione di quegli stessi partiti che solo pochi anni fa si mobilitarono per battere con il referendum la riforma costituzionale del governo Berlusconi? Come mai quella reazione non pare più scaldare i cuori e le menti degli italiani? Perché, a mio avviso, non si ha più la percezione della Costituzione come “legge superiore”: un aspetto della diffusa insofferenza verso le regole e i principi. Lo rilevava lucidamente nel 1946 già Costantino Mortati, notando, insieme alla “mancanza di iniziativa dei partiti, cui incombe la massima responsabilità nel suscitare l’interesse pubblico”, la molta “indifferenza del Paese di fronte all’attività iniziata”: la responsabilità andava cercata secondo lui soprattutto nel “senso di illegalismo, di deprezzamento dei valori giuridici, quale si palesa non solo in vasti ceti di cittadini, ma proprio negli stessi supremi organi dello Stato”. Si vede che quella dell’illegalismo è una costante della nostra storia, se a distanza di settant’anni ci troviamo di fronte allo stesso problema: un illegalismo diffuso, non solo nella criminalità comune ma negli stessi organi dello Stato. Basta pensare al “mondo di mezzo”, che si è scoperto a Roma: una corruzione strutturale fatta di donazioni di danaro o altra utilità non semplicemente per compiere, omettere o ritardare uno o più atti di ufficio (secondo, cioè, le fattispecie descritte dal codice penale) ma per mettere al servizio di interessi privati l’intero ufficio, l’intera funzione svolta dal pubblico ufficiale. Una “pratica abituale” l’ha definita papa Francesco (il quale, pur abitando da appena due anni da noi, ha già capito tutto), una “politica quotidiana del do ut des, dove tutto è affare”.
Riforme
A ciò si aggiunge la disinvoltura con cui si pone mano a riforme su riforme della Costituzione, anche a stretta maggioranza, come se si trattasse di una qualsiasi legge ordinaria. Così fu approvata dal centro-sinistra nel 2001 una riforma del titolo V, sbilanciata irresponsabilmente verso le Regioni, che ora, con la riforma in atto, si sta in parte rimangiando. Nonostante questo pessimo esempio di riforma affrettata e non meditata, un’altra se ne approvò a stretta maggioranza da parte del governo di centro-destra e riguardava ben 54 dei 139 articoli: seppellita, come prima ricordato, da un referendum popolare. Al più ampio consenso parlamentare s’è tornati correttamente con la riforma dell’art. 81, che ha introdotto il pareggio di bilancio. Ma che questa riforma dovesse investire la Costituzione non era necessario. A differenza di quanto propagandisticamente è stato detto, il trattato europeo esprimeva al riguardo solo una preferenza: “disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio”. Perché allora toccare la Costituzione e non trovare un “altro modo”, più meditato e senza ingessatura dell’attività riformatrice?
Bisognerebbe avere a mente il sempre attuale ammonimento, probabilmente per la penna di Massimo Severo Giannini, comparso sul primo numero del “Bollettino di informazione e documentazione del Ministero per la Costituente”, pubblicato nel novembre del 1945, che “per fare una Costituzione che sia insieme moderna, organica, tecnicamente buona, ma soprattutto rispondente alle effettive esigenze di un Paese così difficile e scaltrito com’è l’Italia, occorrono serie indagini, onerose rilevazioni delle istanze, attente disamine”: che non è proprio quello che fece allora e sta facendo ora un Parlamento, costretto a non “parlare” – attraverso l’illustrazione degli emendamenti – della riforma della Costituzione ma solo a votare assonnato, nottetempo come i ladri: e in effetti un furto delle garanzie parlamentari – e, quindi, di noi cittadini – è in atto.
Si dirà di non drammatizzare, che in fondo anche questa legge di riforma non tocca la prima parte, ma – come ammoniva un altro grande giurista e storico, Arturo Carlo Jemolo – “sarebbe pericolosa illusione quella di aver posto fuori di discussione, una volta per sempre, certe conquiste, perché consacrate da un articolo della Costituzione. Né la pace dei popoli, né la giustizia sociale, né alcun altro bene è suscettibile di conquiste definitive: ogni generazione deve dare la sua prova; che la nostra sia all’altezza del suo compito e possa essere d’esempio a quelle che seguiranno”.
La discussione continua, da 20 anni, su Mosaico di Pace.
Note
Nicola Colaianni, magistrato della Suprema Corte di Cassazione, è stato deputato per il PCI nella X legislatura dove è stato membro della Commissione permanente Giustizia, della Commissione bicamerale sulla revisione del codice di procedura penale e della Commissione bicamerale sul terrorismo e le stragi. Membro dei giuristi dei Comitati Dossetti per la Costituzione, è attualmente professore ordinario di Diritto Ecclesiastico all’Università di Bari.Ha scritto, tra l’altro: Tutela della personalità e diritti della coscienza (Cacucci ed., 2000); Eguaglianza e diversità culturali e religiose.
Un percorso costituzionale (Il Mulino, 2006); Diritto pubblico delle religioni. Eguaglianza e differenze nello Stato costituzionale (Il Mulino, 2012).