ECONOMIA

L’altra faccia di Expo

Una grande fiera, vetrina per multinazionali che, con le loro politiche, affamano il pianeta e nutrono solo le loro tasche. Chi sono gli sponsor, le sigle, i peccati originali dei principali partner di Expo.
Vittorio Agnoletto (Politico, Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids, direttore culturale di “OLE – Otranto Legality Experience”)

“Allo stato attuale la produzione agricola mondiale potrebbe  facilmente sfamare 12 miliardi  di  persone... Si potrebbe quindi  affermare che ogni bambino  che muore per denutrizione oggi è di fatto ucciso”: così scrive Jean Ziegler, già Relatore Speciale delle Nazioni Unite sul diritto al cibo.

Expo, stando allo slogan che lo qualifica: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, dovrebbe rappresentare un’occasione unica per avviare una riflessione globale, sociale e istituzionale su questa enorme contraddizione che produce un miliardo di affamati e 800 milioni di obesi. Due facce dello stesso problema che abitano questo nostro tempo: la povertà, in aumento non solo nel Sud del mondo, ma anche nelle nostre periferie sempre più degradate.

Occasione che, se ben utilizzata, avrebbe potuto fare piazza pulita delle ragioni esposte da coloro, come il sottoscritto, che erano contrari alla realizzazione a Milano di tale evento, temendo che si trasformasse in un inestricabile intreccio di tangenti, consumo di suolo e in una indecorosa vetrina per le grandi multinazionali del cibo.

Purtroppo lo spettacolo al quale stiamo assistendo conferma tutti i timori di chi fin dall’inizio si è mostrato più che scettico su tale evento. In questa sede mi limiterò ad analizzare quanto sta avvenendo sul tema oggetto di EXPO; tralascio, per questioni di spazio, tutto quanto riguarda gli aspetti della legalità o meglio della corruzione che, per altro, sono ampiamente documentati quotidianamente sui media. 

Protocollo di Milano

Per capire cosa sta accadendo è utile partire dal “Protocollo di Milano”, il documento che già ora viene presentato come il semilavorato di quella che sarà la dichiarazione conclusiva dell’EXPO: la “Carta di Milano”. Questa dovrebbe contenere le future linee guida per combattere la fame nel mondo. Ma la regia del protocollo, al quale hanno già aderito il Presidente del Consiglio e le istituzioni locali, è stata affidata alla Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition.

Un’azienda che, con Nestlè, Coca Cola, Syngenta (OGM e farmaci) e altre grandi multinazionali è, solo per fare un esempio, membro del Water Resource Group, che non poco può influenzare la politica e il mercato dell’acqua, del cibo e delle sementi.

Poco cambia che la gestione di tale Protocollo sia ora passata in altre mani, in quelle della Fondazione Feltrinelli, più presentabile al grande pubblico, e che, con un’operazione di maquillage, il “Protocollo di Milano” si chiamerà “Carta di Milano”. La sostanza non cambia e infatti, sull’homepage del proprio sito, la Fondazione Barilla scrive orgogliosamente “Milan Protocol: il nostro protocollo per l’alimentazione per costruire la Carta  di Milano per EXPO 2015”. 

Gli estensori del documento hanno cercato di mutuare il linguaggio delle organizzazioni contadine e dei movimenti antiliberisti, stando però ben attenti a evitare di assumerne le posizioni sui punti salienti. Infatti, non c’è il rifiuto degli OGM, che sono il paradigma dell’espropriazione della sovranità dei contadini sui semi, il perno di un modello globalizzato di agricoltura e di produzione di cibo che inquina con i diserbanti, consuma energia da petrolio, è idrovoro e contribuisce ampiamente al riscaldamento  climatico.

Non c’è la richiesta di tagliare i sussidi che l’UE e gli USA continuano a stanziare per le proprie multinazionali del settore agricolo con il risultato di distruggere sia le imprese agricole medio/piccole dei propri Paesi e sia parte significativa della produzione di cibo dei Paesi del sud del mondo. 

Non c’è alcuna condanna degli EPA, gli accordi di partenariato economico che l’UE, con l’appoggio del WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, ha imposto ai Paesi africani, distruggendo buona parte dell’agricoltura locale, che garantiva una discreta sovranità alimentare fondata sulla filiera corta, per sostituirla con produzioni di monoculture finalizzate all’esportazione. 

Al fenomeno dell’accaparramento di terre, il cosiddetto “Land Grabbing”, si dedica qualche riga, ma senza individuare in modo preciso le responsabilità, solo qualche generica condanna, senza denunciare, ad esempio, che distese sempre maggiori di terre vengono sottratte ai contadini per essere destinate a produrre biocombustibili. 

Questi alcuni dei limiti strutturali del protocollo; ma si pone anche una questione di metodo, che di per sé è anche di sostanza: è stato totalmente stravolto, ribaltato, l’iter secondo il quale vengono elaborate e approvate le linee guida su un tema di tale importanza per il futuro dell’umanità. Mai era accaduto che simili documenti fossero scritti da multinazionali e sottoscritte dai governi con l’invito alle istituzioni internazionali a fare altrettanto. 

Vendendo acqua

Nonostante l’acqua di Milano sia ritenuta, come qualità, una delle migliori d’Italia, EXPO ha siglato una partnership con Nestlè attraverso la sua controllata S.Pellegrino per diffondere 150 milioni di bottiglie di acqua con la sigla EXPO in tutto il mondo. Il Presidente di Nestlé Worldwide, già da qualche anno sostiene l’istituzione di una borsa per l’acqua così come avviene per il petrolio. 

ACQUAE, VENEZIA”, è l’Expo sull’acqua che si svolge a Venezia con l’azienda israeliana Mekerot nella veste di uno dei maggior partner. Il sito ufficiale recita: “ACQUAE VENEZIA 2015…unisce alle valenze puramente informative, ludiche ed esperienziali, tipiche delle esposizioni universali, una connotazione fortemente business” e termina invitando tutte le aziende a partecipare per creare “nuove occasioni di business in Italia e all’estero”.

L’acqua, senza la quale non potrebbe esserci vita nel nostro pianeta, dovrebbe quindi essere trasformata in una merce sui mercati internazionali a disposizione solo di chi ha le risorse per acquistarla. E questo avviene nel Paese che solo quattro anni fa ha votato, quasi all’unanimità, contro qualunque tentativo di privatizzarne la distribuzione!

Expo è diventata una delle tante vetrine per nutrire le multinazionali, non certo il pianeta. Come si può pensare, infatti, di garantire cibo e acqua a sette miliardi di persone affidandosi a coloro che del cibo e dell’acqua hanno fatto la ragione del loro profitto senza prestare la minima attenzione ai bisogni primari di milioni di persone?

Sponsor e non solo

Tra gli sponsor principali c’è l’ENI, coinvolta in un enorme scandalo in Nigeria con accuse di tangenti. C’è l’ENEL che, attraverso l’acquisizione della società elettrica spagnola ENDESA, controlla alcune delle principali fonti d’acqua della Patagonia, privatizzate a suo tempo dal dittatore Pinochet. Lo sfruttamento di quelle fonti sta producendo un disastro naturale e obbliga intere popolazioni ad abbondare la regione. E questi sarebbero i partner della sostenibilità? 

Oppure si dà da mangiare al pianeta con la Selex ES? Altra sigla che compare tra i principali partner di EXPO, un’industria di Finmeccanica che produce sistemi di puntamento per carri armati, navi da guerra e armamenti di ogni tipo venduti a eserciti di vari Stati, tra i quali USA, Israele e Turchia. 

Ma non c’è limite al peggio. Dopo Nestlè e Coca Cola, alla “fiera del cibo” non poteva mancare il simbolo stesso della cattiva alimentazione globalizzata, ovvero: McDonald’s. Sarà presente con un ristorante da 300 posti. 

È sufficiente ricordare, a proposito dell’industria del fast food, che gran parte del mangime di soia, utilizzato per far ingrassare alla velocità della luce i polli, è coltivato in Amazzonia attraverso la distruzione di rilevanti porzioni di foresta e che 1Kg di carne e frattaglie tritate produce oltre 10Kg di anidride carbonica con un disastroso equilibrio fra rendimento alimentare ed inquinamento. Inoltre, non è un segreto il contributo che questo tipo di alimentazione fornisce all’obesità e all’ipertensione.

Expo non si rivolge e non coinvolge i poveri delle megalopoli di tutto il mondo, non si interroga su cosa mangiano, non parla ai contadini privati della terra e dell’acqua, espulsi dalle grandi dighe, dallo sviluppo dell’industria estrattiva ed energetica, dalla perdita di sovranità sui semi per via degli OGM e costretti quindi a diventare profughi e migranti.

E non cambia certo la situazione qualche invito a singoli personaggi dell’associazionismo provenienti da ogni angolo della terra e impegnati nella lotta per la giustizia sociale. Uno specchietto per allodole che, al massimo, serve per creare un momentaneo diversivo. In questa situazione è doveroso rivolgere un appello alla riflessione a quanti, pur impegnati in prospettive alternative alla globalizzazione alimentare, hanno dato la loro adesione al contenitore Expo, fornendogli l’alibi di un impegno sociale per il bene comune del quale francamente si fatica a trovarne traccia.

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