Nutrire il pianeta
Come ci ricordano i sempre più frequenti spot pubblicitari, manca davvero poco all’inizio ufficiale dell’Expo. Sarà una grande fiera certo! Ma qui non faremo critiche o commenti alla manifestazione, ci concentreremo sul tema: “nutrire il pianeta, energia per la vita”.
Aldilà del cibo, del gusto, del valore culturale di ciò che mangiamo nel piatto, c’è il pianeta che “ci ospita”, che fornisce tutto quello che ci alimenta, che ci scalda, che ci fa muovere.
Il primo pensiero va quindi alla Terra che calpestiamo con pazzesca incoscienza. Il suolo fornisce da sempre all’uomo la “base” per la produzione agricola e zootecnica, per lo sviluppo urbano e degli insediamenti produttivi, per la mobilità di merci e persone. Ma è anche la dimora ed il rifugio di una moltitudine di altre forme viventi e le sue caratteristiche e funzioni sono essenziali per la nostra sopravvivenza sul Pianeta. Tuttavia non riusciamo ancora a comprenderne pienamente il valore.
Negli ultimi anni l’agricoltura italiana ha visto sempre più mancare la terra sotto i piedi, la cementificazione del territorio ha eroso negli ultimi cinquant’anni 8 milioni di ettari di coltivazioni: una superficie pari all’intera regione Umbria. Secondo i dati dell’Ispra, ogni secondo, che sia giorno o notte non importa, vengono cementificati otto metri quadrati di suolo.
Coprire il suolo con un “sarcofago di cemento o asfalto”significa perdere la sua funzione nel ciclo degli elementi nutritivi, ossia la sua capacità di assorbire CO2, di fornire supporto e sostentamento per la componente biotica dell’ecosistema, di garantire la biodiversità o la fruizione sociale. Per questo prima di costruire nuove case o nuove strade abbiamo il dovere di capire se ne vale la pena, se il prezzo vale i benefici attesi.
Il secondo pensiero va a chi coltiva la terra. Dietro del buon cibo non ci sono business plan, ma ci sono persone che hanno lavorato e oltre alle braccia (alla fatica) ci hanno messo saperi, cuore e passione. Molti – a casa nostra e altrove – vedono negato il loro diritto a un salario sufficiente e a condizioni di lavoro decenti, in termini di ore di lavoro, di sicurezza, di salute. Questo accade in maniera e con modalità diverse, ma accade per gran parte dei lavoratori della terra, accade in maniera drammatica anche in Italia per tutta quella mano d’opera – spesso straniera (269 mila lavoratori secondo INEA) – che raccoglie verdure e frutta in condizioni così miserevoli che dovrebbero farci vergognare, soprattutto quando stravolti dall’ipocrisia additiamo queste stesse persone come causa dei nostri mali.
Il terzo pensiero va alle cosiddette filiere agroalimentari sviluppate dalla globalizzazione dei mercati che la politica internazionale ha portato avanti nella seconda metà del secolo scorso. Le grandi imprese che si occupano dell’intermediazione commerciale su base globale e quelle attive nella distribuzione hanno assunto un ruolo ed un potere enorme, a danno delle imprese agricole.
Le prime trattano le derrate di base, i mattoni con cui poi l’industria alimentare produce di tutto, non esiste un mercato di vendita al dettaglio, sono loro che comprano riso, mais, grano e soia, lo stoccano nei loro silos, lo trasportano da una parte all’altra del pianeta per poi consegnarlo a imprese come Nestlè o a governi come l’Egitto.
Le imprese della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) hanno assunto dimensioni di rilievo, raggiungendo livelli di fatturato tali da porle in molti paesi alle primissime posizioni delle classifiche delle imprese. Wal-Mart negli Stati Uniti, Tesco nel Regno Unito, Metro in Germania figurano tutte tra le prime 10 imprese private dei rispettivi paesi. In Italia il potere della GDO non è ancora ai livelli americani e neppure tedeschi o francesi, ma la loro dimensione è rilevante e superiore a quelle delle imprese agroalimentari. Esselunga è ai primissimi posti della classifica delle imprese private non finanziarie e non energetiche; Coop Italia, Conad e Selex, che non sono imprese private, ma associazioni di imprese, hanno tutte volumi di fatturato di grande rilievo, ad esempio Barilla, la più grande impresa alimentare italiana (con oltre 15.000 dipendenti), ha un fatturato che è circa un terzo di quello di Coop Italia!
Dall’analisi della catena del valore (ossia in quali fasi si producono gli utili), dei prodotti agricoli emerge che all’agricoltura, tolti salari, ammortamenti e costi vanno 1,8€ ogni 100 spesi da una famiglia, al commercio ne vanno otto volte tanto. Anche per i prodotti trasformati la musica non cambia: 40 centesimi vanno agli agricoltori per i prodotti di base, 2,30 euro vanno all’industria alimentare, quattro volte tanto vanno a chi vende il prodotto. Risulta evidente che il mercato schiaccia la redditività sia dei coltivatori che delle piccole e medie industrie di trasformazione, a vantaggio del commercio e dei servizi (bancari e assicurativi).
L’ultimo pensiero va all’agricoltura. La rivoluzione “verde”, quella della meccanizzazione, dei fertilizzanti e dei fitofarmaci, delle sementi sempre più vigorose, delle monoculture, delle specializzazioni, dei grandi capitali, che l’occidente ha sposato e proposto al mondo intero, produce sì molto ma prende risorse ancor più voracemente e produce scarti come una qualsiasi industria.
Provoca fra l’11 e il 15% del totale delle emissioni climalteranti, ma se consideriamo l’intero processo di produzione degli alimenti, le cose cambiano perché dobbiamo aggiungere quelle legate all’industria che produce fertilizzanti, quelle originate dalle fonti fossili che alimentano la meccanizzazione agricola, quelle derivanti dalla deforestazione necessaria a fornire nuove terre coltivabili (si calcola che il 40% dell’olio di palma, il 20% della soia e il 14% della carne di manzo commerciata internazionalmente provenga da coltivazioni o allevamenti sorti sulle ceneri di foreste illegalmente abbattute). Un’altra fetta pari al 15-20% viene dall’agroalimentare, (parliamo della lunga e complessa catena produttiva che dai campi arriva nei negozi e nei supermercati). Se infine aggiungiamo il peso del cibo sprecato, arriviamo a contabilizzare che produrre cibo costa al pianeta il 44-57% del totale delle emissioni di gas ad effetto serra.
Sul bilancio ambientale pesano poi i 176,3 milioni di tonnellate di fertilizzanti che piovono ogni anno sui campi. 107,5 milioni di tonnellate di Azoto, 40,3 di fosforo e 28,5 di potassio. Per non parlare dei diserbanti e dei pesticidi che non spariscono magicamente, ma finiscono con l’inquinare le falde acquifere.
In Italia i controlli effettuati rilevano uno stato di contaminazione abbastanza alto, relativamente alle acque sotterranee, il 28,2% dei punti controllati sono risultati contaminati, in quelle superficiali la percentuale sale al 55,1%.
Il rapporto tra acqua e cibo è speciale perché nessuna filiera produttiva esprime un fabbisogno o un consumo di una risorsa naturale quanto quella alimentare. Eppure ciascuno di noi, quando pensa a risparmiare acqua pensa a quella che scorre dai rubinetti di casa, a quei 152 metri cubi che statisticamente ogni italiano consuma annualmente. Ma il 90% dell’acqua che consumiamo viene dal cibo, quindi il patrimonio idrico è nelle mani di chi coltiva la terra: dipendiamo dagli agricoltori e dipenderemo sempre di più perché il modo in cui allocano e gestiscono l’acqua oggi, determina se ci saranno quantità sufficienti di acqua pulita per soddisfare i bisogni alimentari domani.
Gli effetti causati dall’industrializzazione dell’agricoltura ci dicono che dobbiamo ripensare l’agricoltura, anzi a considerare diverse agricolture, adatte ai diversi luoghi del pianeta, piuttosto che proporre ovunque quella rivoluzione verde che presuppone risorse e condizioni non disponibili ovunque.
Se i metodi che usiamo impoveriscono la terra, riducendone la fertilità, dobbiamo abbandonarli, se il consumo di carne ha effetti così dannosi sull’ecosistema, dobbiamo porci un limite, sapendo che la prosperità non si traduce nella possibilità di mangiare carne tutti i giorni, ad ogni pasto. Se gli agricoltori non riescono a vivere dignitosamente dobbiamo cambiare le politiche agricole.
La globalizzazione è stata sposata senza fare i conti con cosa significhi rompere il legame fra un territorio e la sua produzione alimentare, illudendosi che sia possibile consumare all’infinito, senza limiti perché da qualche parte del globo arriverà sempre ciò che ci serve. Prendiamo ad esempio l’Unione Europea, nella stagione 2007—2008 ha importato prodotti agricoli, per la cui coltivazione sono necessari circa 53 milioni di ettari, e ne ha esportati l’equivalente di 18 milioni di ettari. Ciò significa che la differenza, 35 milioni di ettari, è l’estensione della terra che abbiamo “rubato” al resto del mondo, ben 10 milioni in più di quanti ne avevamo avuto bisogno nella stagione agricola 1999/2000.
Quindi alla fine ci ritroviamo davanti al nostro piatto ed alla considerazione che per nutrire il pianeta serve il nostro singolo indispensabile contributo perché mangiare è un atto agricolo in senso proprio, col quale si può riscoprire un mondo rurale, a lungo dimenticato e abbandonato a se stesso.
L’agricoltura non è una normale attività perché il cibo non è un optional, è indispensabile: di fame si muore. E’ fondamentale ricordarlo per evitare di pensare che trattare l’agroalimentare come un qualsiasi attività economica da affidare ai mercati.
Su questo pianeta tutti hanno il diritto di sfamarsi e di vivere decentemente, quindi solo tornando a far prevalere la giustizia nei rapporti di lavoro e di commercio, la distribuzione delle risorse invece che l’accumulazione, la cooperazione internazionale piuttosto che la concorrenza al ribasso, potremo nutrire il pianeta ed anche la nostra anima. Una responsabilità che ciascuno esercita ogni giorno quando lavora, viaggia, compra e mangia.
Questa nota attinge a dati contenuti nel libro “CibononCibo”, edito da MC Editrice, dicembre 2014.