DEMOCRAZIA

Quella notte alla Diaz

In Italia si pratica la tortura. Parola della Corte Europea per i Diritti Umani. Da Genova in poi: che fine ha fatto la nostra democrazia?
Lorenzo Guadagnucci (Giornalista)

L’Italia è il Paese della tortura. Lo sta dicendo la Corte Europea per i Diritti Umani. Ha cominciato il 7 aprile scorso, con la sentenza sul ricorso presentato da Arnaldo Cestaro in merito al caso Diaz. E lo dirà altre volte, via via che arriveranno alla sua attenzione gli altri ricorsi analoghi già inoltrati a Strasburgo e quando esaminerà il caso Bolzaneto, altrettanto se non più grave del caso Diaz. L’onta per il Paese è grande. Da Genova a Strasburgo, dal G8 al giudizio della Corte, corrono quattrodici anni di inchieste, processi, denunce pubbliche e proposte che non sono però serviti a rendere coscienti le istituzioni italiane della profonda crisi delle nostre forze dell’ordine e quindi della nostra malandata democrazia.

Alla Diaz e non solo

Alla Diaz, dicono i giudici di Strasburgo, fu praticata la tortura, ma questo giudizio, che pure tanto ha colpito i media e l’opinione pubblica, non è la parte più grave della sentenza, che denuncia anche i sistematici sforzi compiuti per occultare i fatti e la mancata punizione dei responsabili. La Corte parla di un “deficit strutturale” delle istituzioni italiane.

Ce ne sarebbe abbastanza per scatenare un terremoto nei palazzi del potere e per avviare, su questo punto sì, un’inchiesta parlamentare sullo stato di salute democratica delle nostre forze dell’ordine. Delle quali sappiamo pochissimo, come ha dimostrato la vicenda dell’agente Fabio Tortosa e della sua

L'autore

Lorenzo Guadagnucci è un giornalista italiano. Durante il  del  era nella scuola Diaz al momento dell’irruzione della polizia. Pestato e trattenuto in stato d’arresto per due giorni, questa vicenda ha caratterizzato il suo impegno e lo ha portato a scrivere alcuni libri: Noi della Diaz (Berti-, 2002 ristampato nel 2008), e un altro con Vittorio Agnoletto, L’eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova (Feltrinelli, 2011). Ha scritto numerosi altri libri tra cui ricordiamo: Distratti dalla libertà (Berti-, 2003), La crisi di crescita (2004), La seduzione autoritaria (Nonluoghi, 2005). È fra i fondatori e animatori del Comitato Verità e Giustizia per Genova e del gruppo Giornalisti contro il razzismo.

rivelatrice “rivendicazione” via Facebook dell’impresa compiuta nel 2001 alla Diaz. La disinvolta uscita dell’agente all’indomani della sentenza ha suscitato sconcerto e una punta di spavento, per la subcultura che ha portato allo scoperto, così estranea, a prima vista, ai canoni propri di un comparto di sicurezza degno di una democrazia. In verità, chi conosca gli atti dei processi seguiti al G8 di Genova, chi abbia letto le intercettazioni utilizzate nel processo per falsa testimonianza a carico dell’ex questore Francesco Colucci e dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, sa bene che una certa cultura è assai diffusa nella polizia di stato e non solo nei suoi ranghi periferici. 

È anche impossibile dimenticare che cos’è accaduto dopo il G8 di Genova, con il contrasto stridente fra i ricorrenti richiami all’affidabilità delle forze di polizia e gli esiti disastrosi dei processi per la Diaz e per Bolzaneto; fra le continue rassicurazioni istituzionali e la morte per strada o in caserma o in ospedale di persone sotto custodia delle forze di sicurezza. Sono i casi di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Riccardo Magherini, Giuseppe Uva, Franco Mastrogiovanni e alcuni altri, casi nei quali alla tragedia si è sommata la condotta opaca, ambigua, a volte apertamente ostile delle forze dell’ordine di fronte a chi agiva – familiari delle vittime o magistratura – alla ricerca di verità e giustizia. È impossibile dimenticarlo mentre si discutono gli effetti della sentenza di Strasburgo.

La legge insistente

Allo sentenza si è risposto, in prima battuta, facendo sfoggio di realpolitik, con l’approvazione rapidissima di una legge sulla tortura decisamente minimalista, che contraddice alcune delle indicazioni chiave contenute della sentenza. Ci si è allontanati dagli standard internazionali per cercare una mediazione al ribasso con forze dell’ordine storicamente contrarie all’esistenza di un reato ad hoc per la tortura e ora decise, a fronte della necessità istituzionale di avere una legge (imposta da una Convenzione Onu e ora dalla Corte di Strasburgo), a sminuirne la portata e a limitarne gli effetti. Un’impresa riuscita. Il testo approvato il 9 aprile alla Camera stabilisce che la tortura sia un reato comune, che può essere cioè commesso da chiunque, con una semplice aggravante per il pubblico ufficiale. Una scelta dirimente, che smorza lo spessore etico-culturale della normativa: il crimine di tortura è per definizione “pubblico”, cioè un reato che attiene all’abuso di potere, alla relazione fra cittadino e forze dell’ordine. Ma in Italia i vertici degli apparati sostengono che introdurre il reato

specifico di tortura sia una sorta di criminalizzazione, un segno di sfiducia: un atteggiamento difensivo e corporativo che tradisce un disagio autentico rispetto agli standard internazionali di trasparenza e responsabilizzazione. 

La Camera ha licenziato un testo di legge che non prevede il principio di imprescrittibilità, altro elemento chiave affinché l’effetto deterrente della normativa dispieghi tutta la sua forza (oltre che richiesto dalla Corte di Strasburgo). Si è poi deciso – anche in questo caso assecondando precise richieste venute dalle forze dell’ordine – di descrivere nel dettaglio che cosa debba intendersi per tortura. Si sono cioè strette le maglie di possibile applicazione della norma, al punto che difficilmente una legge del genere si applicherebbe ai casi Cucchi, Mastrogiovanni, Aldrovandi e allo stesso caso Diaz. Un paradosso che dà la misura di quanto siano deboli le forze politiche parlamentari, incapaci di spezzare quel potere di interdizione e condizionamento che ha esposto il nostro Paese all’umiliante giudizio della Corte per i diritti umani. 

Una riforma necessaria

È stato detto da molti che una legge imperfetta è meglio di nessuna legge, ma questa considerazione andrebbe inserita in un contesto più ampio, che consideri la dimostrata incapacità delle forze dell’ordine di avviare procedure di autocritica e autocorrezione. Oggi le nostre forze di polizia hanno bisogno di un intervento esterno, di una riforma democratica che rinnovi lo spirito (ormai eclissatosi) che portò nel 1981 alla smilitarizzazione della polizia di stato e alla sua apertura alla società. C’è bisogno di una riforma complessiva, che spezzi quel clima di omertà, di diffidenza, di chiusura verso l’esterno che da tempo caratterizza le nostre forze dell’ordine. Serve la smilitarizzazione di tutte le forze di sicurezza. Serve la cancellazione di quella norma che dal 2004 riserva il reclutamento in polizia a chi abbia svolto un periodo di leva volontaria nelle forze armate. Serve l’obbligo di indossare codici di riconoscimento durante il servizio di ordine pubblico. Serve un’autorità indipendente di vigilanza sul rispetto dei diritti fondamentali. Il cambiamento dev’essere effettivo e dev’essere profondo. Ne va della qualità della nostra democrazia, già malandata per il neo cesarismo che avanza e per la sfiducia dilagante fra i cittadini.

Le mediazioni al ribasso sulla tortura sono state un errore strategico, un passo falso che rischia di pregiudicare il percorso successivo. C’è chi pensa, nel mondo politico, che la nuova legge, una volta approvata in via definitiva, sia “la risposta” alla sentenza di Strasburgo. Sarebbe un errore imperdonabile.

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