Pane e dignità

Il punto di vista dei poveri. Il Papa e i suoi incontri con i movimenti popolari latinoamericani.
E la ricerca di alternative politiche al neoliberismo e al capitalismo selvaggio.
Mauro Castagnaro

Un evento storico. Questo è stato l’Incontro mondiale dei movimenti popolari (Immp), che dal 27 al 29 ottobre 2014, su invito del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace e della Pontificia Accademia delle scienze sociali, ha riunito in Vaticano i rappresentanti di un centinaio di organizzazioni sociali (di ispirazione cristiana e no) di tutto il mondo impegnate sui temi della terra, della casa e del lavoro per discutere i grandi problemi dell’umanità (l’esclusione, la disuguaglianza, la violenza e la crisi ambientale) dal punto di vista dei poveri. Mai, infatti, la Santa Sede si era messa non solo in così ufficiale ascolto dei movimenti che cristallizzano lo sforzo degli ultimi per ottenere vita e dignità, ma addirittura a loro disposizione per favorirne il coordinamento su scala globale. 

Scelte di campo

Il discorso di papa Francesco ha indicato una chiara “scelta di campo” della Chiesa a favore dei poveri che si organizzano e lottano, nella speranza che questa sia fatta propria anche dalle comunità cristiane locali. E il vescovo di Roma ha precisato: “So che tra di voi ci sono persone di diverse religioni, mestieri, idee, culture, Paesi e continenti. Oggi state praticando qui la cultura dell’incontro, così diversa dalla xenofobia, dalla discriminazione e dall’intolleranza che tanto spesso vediamo. Tra gli esclusi si produce questo incontro di culture dove l’insieme non annulla la particolarità. Perciò a me piace l’immagine del poliedro. Il poliedro riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso conservano l’originalità. Oggi state anche cercando la sintesi tra il locale e il globale. So che lavorate ogni giorno in cose vicine, concrete, nel vostro territorio, nel vostro quartiere, nel vostro posto di lavoro: vi invito anche a continuare a cercare questa prospettiva più ampia; che i vostri sogni volino alto e abbraccino il tutto! Perciò mi sembra importante la proposta, di cui alcuni di voi mi hanno parlato, che questi movimenti, queste esperienze di solidarietà che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino, come avete fatto voi in questi giorni. Dobbiamo cercare di camminare insieme”.

Nonostante la crescente consapevolezza della sua necessità, testimoniata, per esempio, dal Forum sociale mondiale, la costruzione di un tale “poliedro” appare un’“impresa”, data la molteplicità di storie, situazioni concrete, culture, piattaforme rivendicative, ecc. che la dizione “movimenti popolari” racchiude a livello planetario. Una grossolana ricognizione può aiutare quanto meno a individuare il “materiale” a disposizione, sebbene qui ci si riferirà solo ad America latina, Asia e Africa, dando per noto quanto si muove in Europa o negli Stati Uniti (dagli Indignados a Occupy).

America Latina

È in America latina che il termine “movimenti popolari” ha maggiore diffusione. Qui negli anni Ottanta del secolo scorso ai classici movimenti sindacali, contadini e studenteschi (spesso messi in crisi dall’adozione di politiche neoliberiste) si affiancano comitati di quartiere e associazioni di donne, comunità indigene e gruppi di neri, organismi per la difesa dei diritti umani e organizzazioni ecologiste. Questi attori coniugano rivendicazioni specifiche (per esempio, il rispetto delle terre degli indigeni) e obiettivi generali (fine della repressione, accesso all’istruzione, ecc.). In questo modo rinnovano i tradizionali contenuti (sovranità nazionale, democrazia, Stato sociale) di un progetto alternativo di società. 

Nell’ultimo decennio del Novecento le organizzazioni di base affiancano alla strategia rivendicativa attività produttive comunitarie, meccanismi di sostegno finanziario alternativi, canali di commercializzazione autogestiti, spesso in collegamento con organismi non governativi e reti sociali straniere. La società civile si arricchisce di nuovi attori, espressione della “economia della crisi” (per esempio, i “cartoneros” che sopravvivono rivendendo materiale di recupero) e dell’emergere di nuove soggettività (minoranze sessuali), che spesso intrecciano tradizione e post-modernità (movimenti delle donne indigene, che innestano la critica al patriarcato sulla valorizzazione delle culture autoctone). Nascono alleanze sociali globali (per esempio, Via campesina). 

Al tornante del millennio, la ricerca di alternative politiche alla screditata destra neoliberista si coagula attorno a leader espressione di partiti e fronti di sinistra con alle spalle solidi movimenti sociali (Brasile, Uruguay) oppure capaci di catalizzare, grazie al proprio carisma e in assenza di una base politica strutturata (Ecuador, Bolivia, Venezuela), il malcontento popolare. Per rifondare lo Stato e aprire il sistema istituzionale a un maggiore protagonismo delle masse vengono  convocate Assemblee costituenti, senza però risolvere le tensioni tra leadership carismatica e democrazia partecipativa. 

Dopo un decennio in cui hanno dimostrato un potere di interdizione nei confronti dei governi neoliberisti, i movimenti sociali favoriscono l’ascesa di esecutivi riformisti, cui prestano quadri e con cui hanno relazioni differenziate (dall’appoggio critico alla cooptazione). Se nelle nazioni in cui le forze conservatrici mantengono il controllo dell’apparato dello Stato soprattutto i movimenti indigeni sono oggetto di criminalizzazione, dove il baricentro del sistema politico si sposta verso il centro-sinistra si assiste a un calo del protagonismo delle organizzazioni popolari, salvo quando le scelte dei governi si scontrano con gli interessi dei gruppi sociali penalizzati dal “modello estrattivista”, provocando lotte che però quasi mai trascendono l’ambito locale. 

Africa

Anche la maggior parte dei Paesi africani conosce negli ultimi venti anni una proliferazione di attori non statali nei più diversi settori: sviluppo (agricoltura, sanità, istruzione, ecc.), diritti umani (della donna e dei bambini), lotta contro la corruzione, per l’ambiente, ecc. Questa “Ong-izzazione” dell’Africa è inseparabile dai processi di liberalizzazione economica e politica che, alla fine degli anni Ottanta, modificano drasticamente la capacità dello Stato di gestire le risorse nazionali e le modalità di controllo autoritario/clientelare sulle popolazioni. I programmi di aggiustamento strutturale, promossi dagli organismi finanziari internazionali, aumentano la povertà, per attenuare la quale le grandi agenzie di sviluppo, anch’esse egemonizzate dagli orientamenti neoliberisti, scelgono di reindirizzare i finanziamenti verso strutture non statali. D’altro canto le transizioni democratiche – frutto nei primi anni Novanta delle mobilitazioni guidate da studenti, sindacalisti e quadri, della minore capacità di appropriazione “a mo’ di rendita” della ricchezza nazionale e di sua redistribuzione clientelare (il reclutamento delle élites nella pubblica amministrazione era il modo per eccellenza per prevenire la formazione di opposizioni) e della pressione dei donatori internazionali – favoriscono lo sviluppo accelerato di questo tessuto associativo.

Negli anni Novanta la fine dell’apartheid in Sudafrica, cui contribuisce la forza del Congresso dei sindacati (Cosatu), e le “conferenze nazionali”, attraverso cui le “forze vive” delle nazioni africane chiudono l’epoca delle dittature, fanno sperare in una democratizzazione “dal basso”. Il pluripartitismo e una certa libertà di stampa non impediscono però a leader autocratici di conservare il potere mediante brogli elettorali, cooptazione di capi tradizionali, mobilitazione etnica ecc. Colpi di stato, episodi di repressione di massa, omicidi selettivi di oppositori, sanguinosi scontri tra milizie non cessano nell’Africa sub-sahariana. 

In molti Paesi le associazioni civili sono usate dai loro leader per arricchirsi o soddisfare le proprie ambizioni politiche. Ciò le rende permeabili agli obiettivi dei loro finanziatori – governo, partiti di opposizione, agenzie di aiuto o Ong straniere – tanto da far parlare in vari Paesi di “società civile di potere”, “società civile d’opposizione”, “società civile delle ambasciate”, ecc. 

Non mancano però organizzazioni contadine, sindacali, studentesche, di commercianti, per la difesa dei diritti umani, ecc. (per l’esempio, la Rete delle organizzazioni contadine dei produttori agricoli dell’Africa occidentale-Roppa) che conservano la propria autonomia, incanalando il malcontento sociale, per esempio per l’aumento dei prezzi dei prodotti di prima necessità, in “coalizioni nazionali contro il carovita” capaci di ottenere progressi in termini di potere d’acquisto, sostegno alla produzione alimentare locale o modifiche istituzionali.

In molti casi le conquiste democratiche e sociali sono rimesse in discussione o snaturate quando cala la mobilitazione. Ma la moltiplicazione degli spazi pubblici di discussione (libertà di associazione, decentramento, stampa, ecc.) nel quadro di Stati semiautoritari suggerisce la possibilità di una graduale trasformazione delle pratiche politiche popolari in vista di cambiamenti sociali di fondo.

Asia

Ancora più complesso e articolato è il panorama asiatico, dove coesistono “la più popolosa democrazia del mondo” (India), il turbo-comunismo di mercato cinese e le petromonarchie del Golfo Persico. Negli ultimi decenni movimenti civili hanno avuto un ruolo centrale nella delegittimazione dei regimi autoritari: nelle Filippine nel 1986 la prima rivoluzione pacifica del “People Power” ha rovesciato il corrotto dittatore Marcos; nel 1998 in Indonesia mobilitazioni di massa hanno costretto alle dimissioni Suharto; a Taiwan e Birmania, grandi movimenti di opposizione hanno spinto il governo del Kuomintang e l’esercito ad avviare riforme. In Thailandia, Corea del Sud, Bangladesh, sollevazioni popolari hanno rovesciato i regimi militari e movimenti pacifici hanno scosso le autorità in Cina (1989), nonostante la repressione.

Il numero e la forza delle organizzazioni della società civile è assai aumentato dagli anni Ottanta. Per esempio, in India sono oltre 2 milioni, tra cui spicca l’Associazione degli agricoltori dello Stato del Karnataka (Krrs), forse il maggiore gruppo contadino del mondo, con diversi milioni di aderenti. Notevole sviluppo hanno conosciuto i movimenti sociali urbani, che coinvolgono i settori poveri, come i baraccati dei quartieri popolari che lottano contro gli sfratti o, spesso con l’aiuto delle Chiese o delle Ong, garantiscono assistenza ai soggetti più deboli (vedove, portatori di handicap, anziani, ecc.), a volte creando alleanze con le classi medie nel rivendicare il miglioramento dei servizi (acqua, trasporti, assistenza sanitaria, smaltimento dei rifiuti, ecc.). Non mancano poi mobilitazioni contro progetti infrastrutturali, minerari o idroelettrici dalle gravi conseguenze socio-ambientali. 

Ciò si traduce in approcci più inclusivi da parte dei governi. Nella stessa Cina la ricerca di una “società armoniosa”, considerata indispensabile per lo sviluppo, ha portato a tener conto in qualche misura delle richieste popolari. Comunque i cosiddetti “incidenti di massa” (rivolte, manifestazioni, scioperi, ecc.) si aggirano sui 100.000 l’anno, secondo le stesse autorità, avendo come molle la libertà di espressione, i diritti dei lavoratori, il diritto alla terra, la sicurezza alimentare, la lotta alla corruzione, ecc., sebbene la loro natura rimanga locale. 

Le proteste di Occupy Hong Kong contro le riforma elettorale che prevedeva candidati preselezionati da Pechino, quelle degli studenti del Girasole a Taiwan contro l’accordo d’integrazione economica con la Cina, la mobilitazione elettorale che porta all’elezione del presidente progressista Widodo in Indonesia e la ripresa di quella delle Camicie rosse in Thailandia hanno fatto definire a molti il 2014 “un anno storico per i movimenti sociali in Asia”. Tuttavia la resilienza dei sistemi politici oligarchici, espressione del dominio di una minoranza di “super-ricchi” e di ramificate reti clientelari, resta notevole, come dimostra il colpo di Stato militare del maggio 2014 a Bangkok. 

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