Il canto della rana e quello di Francesco

Maurizio Mazzetto

Anima mia canta e cammina,

anche tu, oh fedele di chissà quale fede

oppure tu uomo di nessuna fede,

camminiamo insieme

e l’arida valle si metterà a fiorire.

Qualcuno,

colui che tutti cerchiamo,

ci camminerà accanto.

 

 David Maria Turoldo

(tratto da Non hanno più vino, Queriniana, 1979) 

 

 

Raccontino eco-logico per gli amici

Stamattina parto da qui, dal “Monastero del Bene Comune” di Sezano (Verona). Che bella idea quella di denominare il Monastero con qualcosa di significativo, oggi, per tutti: non solo ricordare i santi o il luogo ma anche l’impegno dei credenti nella storia. Ad un altro Monastero, frequentato recentemente, metterei il nome, se ne avessi la possibilità (ma lo suggerirò alla gentile Abadessa), “Monastero della Resistenza”.

Parto, nel senso che mi metto in cammino, e non solo con la testa, anche con i piedi. Almeno per due ore, prima dei lavori comuni che si svolgeranno in questo Convegno annuale di preti, laici e religiosi/e amici di Pax Christi Italia.

Esco dalla porta del Convento, ora abitato da bravi padri Stimmatini, con l’intenzione di dirigermi in su. In effetti, avevo visto ieri sera, appena arrivato, una canaletta d’acqua, e voglio scoprire da dove viene. Tanto più che l’acqua e tutto il creato, con “il femminile”, faranno da filo conduttore del nostro Convegno. Scopro una grande vasca, nella parte alta della proprietà del monastero. Ma l’acqua come vi arriva lì? Lo scoprirò in seguito. Così, seguendo il muro che cinge tutto l’ampio giardino e il frutteto, ne faccio il giro completo. Ammiro, nella prima luce del mattino (il sole non è ancora sorto, dietro la collina), l’uliveto e il vigneto, qualche albero da frutto e qualche fiore selvatico, qua e là sparso. Magari a pranzo oggi gusterò l’olio e il vino proveniente da qui, penso fra me, da appassionato di questi due doni “della terra e del lavoro dell’uomo”.  

Terminato il giro dell’hortus conclusus – simbolo, fin dall’epoca medievale, oltre che della verginità di Maria, del Paradiso terreste, e, quindi, anch’esso in tema con il nostro Convegno – esco dalle mura attraverso il portone principale. Non senza aver ricordato il primo “Ascolto” avvenuto in questo luogo dove non ero mai stato. Ieri pomeriggio, appena sceso dall’auto ed entrato nel chiostro che accoglie gli ospiti, sono stato attratto da una piccola vasca rotonda, collocata al centro del prato, poiché avevo notato dei fiori di loto ed inoltre avevo sentito il gracidare di una rana. La cosa mi ha fatto sorridere, pensando che il tema di apertura di questo appuntamento annuale era così declinato, quest’anno: “La rana e il pozzo: alla prova dell’ecofemmismo”. Cristina Simonelli, la teologa che introdurrà le giornate, farà riferimento, infatti, al racconto di una scrittrice bengalese di inizio ‘900 (Il sogno di Sultana di Rokeya Sakhawat Hossain), la quale, a sua volta, riprende un’ antica storia cinese (* ve la riporto in fondo), per invitare tutti a “immaginare un’organizzazione diversa, appunto a non essere come rana dentro un pozzo, per la quale tutto il mondo è quel camino di terra” (dal sito delle teologhe italiane: teologhe.org). 

Mi incammino, dunque, fuori dalle mura (anche simboliche). Vado in salita. Ed è ovvio, per me: ho visto che sopra il Monastero vi sono delle colline. Intendo raggiungerne, se ne avrò il tempo a disposizione, la sommità.

M’imbatto poco dopo con la sorgente dell’acqua che arriva al Convento: un acquedotto del Comune di Verona raccoglie qui le acque provenienti dalle colline circostanti. Le vere sorgenti, dico fra me, sono “altrove” (non dentro). Mi sembra un invito a cercare sempre, a cercare oltre, a cercare in alto, a cercare nel profondo. Per trovare le vere sorgenti della fede e della vita.

Quindi incontro due capitelli. In uno, dedicato alla madre di Gesù, mi fermo a recitare un’ Ave Maria. Non è male ogni giorno ripetere, con calma e con gioia, l’annuncio che, con la venuta di Cristo, diede origine (a proposito di fonti e di sorgenti) alla nostra Salvezza. E poi, con la seconda parte, non biblica, della preghiera, ricordarci della “nostra morte”. Il memento mori è sapienza fin dal mattino presto, quando, superato il buio della notte, ci si lancia, talora superficialmente, nella frenesia del giorno come se si dovesse vivere per sempre. Poi, aggiungo un Padre nostro, la preghiera per eccellenza, dove c’è già tutto sia del Vangelo che del compito che ci affida la giornata che abbiamo davanti.

Salgo, tra uliveti e vigneti. Siamo alle pendici della Lessinia, non lontanissimi dal Lago di Garda. L’aria qui è mite, favorevole a questo tipo di coltivazioni. Quanti richiami biblici sovvengono quando si vedono viti e ulivi! La terra dove è vissuto Gesù - ora spesso devastata dall’ingordigia di uno Stato che deruba le  terre e le sorgenti d’acqua dei palestinesi -  è ricca di ulivi e di viti, che sono tra le più belle e utili piante che vi siano sul pianeta terra. Un pensiero al popolo Palestinese mi spinge ad affrontare con più grinta la salita: ci vuole forza per combattere le ingiustizie e le vessazioni!

Salendo, il panorama si apre: scorgo, là in fondo, il Monte Baldo, “il giardino d’Europa”, come qualcuno l’ha definito per la sua splendida fioritura nei mesi di maggio-giugno-luglio. Qualche anno fa, ho avuto modo anch’io di percorrerne i sentieri in quel periodo, partendo dalla Bocca delle Navene, compiendo poi il Sentiero del Ventrar, quindi attraversando il versante occidentale (quello più ricco di fiori), salendo alla Baita dei Forti, calcando la cresta nord (la Colma di Malcesine),  fino a scendere al punto di partenza.

Inoltre vedo con evidenza, e con soddisfazione, il Corno d’Aquilio, dove salii, con facile e breve escursione, per onorare “Il prete dei castagnari”, don Alberto Benedetti, di cui scrisse, con omonimo titolo, Alessandro Anderloni di Velo Veronese. Di questo musicista, attore e regista, ho già avuto modo di segnalare e di consigliare a molti amici il suo toccante spettacolo sulla Grande Guerra intitolato “La Grande Guerra Meschina”.

Continuo la mia camminata, bordeggiando i campi e le piante da frutto, tra le quali spiccano i ciliegi, a portata di mano... Ma un cartello, con il testo dipinto, avverte: “Ciliege avelenate” (rigorosamente in dialetto, per cui con una “v” sola). Poco prima, però, mi ero soddisfatto con alcune more, bianche e  dolcissime, colte al volo da una grossa pianta di gelso che dà sulla strada. Peccato non avere più tempo: questi frutti, che a me ricordano l’infanzia, non si trovano facilmente (o forse non si trovano proprio) sui banchi dei negozi e dei supermercati.

Arrivo in cima. La strada fa una svolta a destra e va verso una zona dove immagino sia collocata la cima del Monte Cucco (così è in verità). Preferisco, però, avviarmi, camminando ancora un po’, su un’altura maggiore che intravedo alla mia sinistra. Un tratto di carrareccia – dopo diverso asfalto – mi è gradito. Giungo in Via Monticello, e noto un cartello indicatore “Pie Madri della Nigrizia”: mi viene in mente che sono proprio le suore che, se ben ricordo dal programma del Convegno, andremo a trovare, nella sede della loro Rivista “Combonifem”, domani sera.

A proposito di Comboniani e di istituti missionari in genere, penso alla loro notevole diffusione in una Diocesi come Verona, ma mi sovviene pure la mia recente visita, a Limone sul Garda, alla casa natale di Daniele Comboni e alla comunità dei Comboniani lì residente. Quando ho nominato loro gli unici due comboniani che conosco – padre Efrem Tresoldi e padre Alex Zanotelli – a dire il vero non li ho visti così entusiasti di questa mia conoscenza...

Così come – sempre a proposito di missione e di missioni – non posso non ricordare in questo momento ciò che mi riferiva il mio compagno di classe don Luigi, il quale, quando incontrò il vescovo prima di partire per il Brasile (dove svolse attività pastorale e di ricerca biblica per vent’anni; ora si trova in Costarica, per studiare, insegnare e coordinare ricerche interculturali sulla religione), si sentì rivolgere questa precisa esortazione: “Ti raccomando che quelle valigie che porti via ritornino vuote, e non piene della Teologia della Liberazione!”. Cosa che - puntualmente e contrariamente all’invito del vescovo - don Luigi ha fatto.

Si sa quanto – a livello di Chiesa e di “scambio fra Chiese sorelle”, come si diceva allora – la Teologia e la Spiritualità della Liberazione non siano state bene accolte da noi, perdendo proprio quell’arricchimento che sarebbe derivato alle nostre Chiese europee dall’invio e dalla presenza in America Latina di laici e preti “in aiuto” alle nuove Chiese.

Abbiamo dovuto arrivare (finalmente!) a un papa latinoamericano per ricordarci - anche se la maggioranza non ci pensa - a questa occasione perduta, che dovremo, anzi che stiamo già scontando...

Ho raggiunto, dunque, la zona più alta. L’attrazione verso l’alto mi ha sempre colpito e mi ha sempre fatto pensare. Da una parte mi richiama il Cristo che diceva “attirerò tutti a me” (Gv 12,32): attirerò sulla Croce, attirerò all’amore, attirerò dentro la logica del perdono, della riconciliazione e della pace. Dall’altra, proprio perché l’innalzamento di Gesù nasce da un abbassamento, quando sono in alto e magari sto ammirando, come ora, il panorama, richiamo sempre alla memoria le parole dell’alpinista solidale Battistino Bonali, che sono diventate, per me, un programma di vita: “Salire in alto, per aiutare chi sta in basso”.

Da qui vedo il Gruppo della Carega, che segna il confine prealpino tra le province di Trento, Verona e Vicenza. Sotto di me, verso est, si stende infatti la Valle d’Illasi, dal fondo della quale si accede al versante veronese del Gruppo. Mi sembra di scorgere inoltre la fisionomia del Gruppo della Vigolana, con il Becco di Filadonna, ma non ne sono sicuro. Quando sarò giù chiederò conferma a don Silvano degli Stimmatini, il quale non scioglierà il mio dubbio.

Dopo uno sguardo al panorama, giro i tacchi e mi avvio, festina lente, alla discesa. Il tempo che ho a disposizione sta per scadere.

Penso agli amici che stanno celebrando l’Eucaristia. Io ho preferito venire qui, non solo per curiosità o per il bisogno di muovermi. Ho, in effetti, “celebrato” in questo ambiente e in questo modo il mio ringraziamento (la mia “eu-charistia”). Penso, mentre cammino, a Theilhard de Chardin, ma anche a Bede Griffins e a Raimon Panikkar (amato al Monastero): “La Messa sul mondo”, “L’eucaristia cosmica”, “La visione cosmoteandrica”. E non è anche questo che vogliamo avvicinare in questi giorni di Convegno? Per custodire il creato, bisogna, prima, entrare in comunione con esso. Senza confusioni, come mi ha insegnato l’antropologia teologica di Armido Rizzi.

Mi avvio, dunque, al ritorno. Vado giù senza correre, anche se lo dovrei fare per il ritardo che ho accumulato: ma qualche piccola ernia, alla schiena e a un inguine, me lo sconsiglia. Annoto questo - che potrebbe sembrare banale o autoreferenziale - perché, in realtà, il pensiero che, in questi casi, mi sorge alla mente può interessare tutti. Ognuno, in effetti, deve trovare, anche dai piccoli segnali di questo tipo, un riferimento a quel “memento mori” (ricordati che devi morire), che può essere - come ho già segnalato all’inizio - principio di sapienza, ma anche, a proposito del tema del Convegno, di giuste relazioni con l’ambiente e con le altre persone. Sapere di dover morire significa anche imparare a non depredare tutto lasciando un mondo rovinato ai posteri.

Corro a farmi la doccia, per arrivare in tempo a colazione. Poi, iniziano i lavori, e ritrovo altri amici, che, nel frattempo, sono arrivati. La gioia dell’incontro sarà superiore ai temi trattati, anzi ne farà parte, come da corretta eco-logia umana.

Una nota

Abbiamo cantato poco durante il Convegno. Pur non essendo bravo a cantare, amo e apprezzo sempre di più il canto. Lo considero davvero una terapia, oltre che un mezzo per lodare Dio, al punto che in auto, viaggiando spesso da solo, ora mi metto a cantare: non l’avevo mai fatto, in maniera regolare, precedentemente.

E poi – a proposito delle rane e del loro gracidare in questi giorni – come ci ricorda Giancarlo Ravasi, “secondo la tradizione giudaica, la rana gracidante è convinta di lodare Dio più di Davide perché lo fa con tutto il suo essere, trasformandosi in lode vivente” (Il Sole 24 ore, 3 maggio 2015).

Sì, con tutto il nostro essere, camminare e cantare!

Anche e soprattutto questo è lodare Dio.

Come fece Francesco, camminatore e cantore: …Laudato sii” – come verremo a sapere, da notizie giornalistiche, durante il Convegno – sarà proprio il titolo dell’attesa Enciclica di papa Francesco!

 

 

Sezano-Verona,

mattina del nove giugno duemilaquindici

 

 

 

IL RACCONTO

La Rana nel pozzo

  

C’era una Rana che viveva in un pozzo. Un pozzo alto e anche abbastanza grande, ma comunque un pozzo. La Rana lì dentro c’era nata e cresciuta, sentendosi amata dalla sua famiglia e protetta dalle acque sempre calme. Si era sentita utile alla comunità, tenendo in ordine il piccolo fondale e collaborando con gli altri microrganismi presenti, scacciando quelli nocivi. E così era diventata adulta, giorno dopo giorno, nella sua vita nel pozzo. Aveva fatto figli e aveva insegnato loro a vivere in quel pozzo, con le regole del pozzo e le tradizioni del pozzo.

Un giorno, una Tartaruga Marina che passava di lì s’affacciò. La Rana la vide e sobbalzò, spaventata da quella creatura così strana e così diversa da tutte quelle che aveva visto fino ad allora.

 “Chi sei? Da dove vieni?”, chiese la Rana a metà tra l’aggressivo e il curioso.

“Sono una Tartaruga. Vengo dal mare.”

“Dal mare? E cos’è il mare?”

“È come un pozzo d’acqua senza muri e migliaia di centinaia di miliardi di volte più vasto e più profondo di questo. Un regno d’acqua, dove tutti gli animali vivono liberi, insieme, vagando senza limiti per la vastità delle correnti”.

“E questo tuo mare di cui parli è forse grande così?”, chiese la ranocchia facendo un salto di qualche centimetro.

“No, non puoi contenerlo in un salto”.

“Allora così”, provò la Rana facendo un salto più grande.

“No, è un’assurdità provare a misurarne la vastità. Il mare non ha inizio né fine. È un posto libero da ogni costrizione”.

“Aspetta, aspetta…è per caso grande così?” chiese la ranocchia facendo allora un salto che andò da un capo all’altro del pozzo.

“Davvero, mia cara Rana, non provare oltre. Senza nulla togliere a questo tuo pozzo, è un’assurdità paragonarlo al mare. Sono due cose completamente diverse, a loro modo belle in maniera diversa. Se esci da qui te lo mostrerò”.

La Rana allora s’impettì, sentendosi anche un po’ minacciata di perdere la sua autorità locale, scardinata da quella tartaruga così pacifica e poco pretenziosa, e gracidando con violenza e arroganza urlò: “Allora questo tuo mare di cui parli è chiaramente una bugia. Non può esistere nulla di più grande e di migliore di questo pozzo, nulla di diverso. Gente, questa tartaruga è una bugiarda: cacciamola via!”

E tutto il popolo del pozzo cominciò a tirare fango e sassi contro la Tartaruga, che rimbalzarono sul suo forte guscio, ma che la fecero anche allontanare, lasciando il popolo del pozzo al suo odio e al suo perimetro di cielo, che era tutto il cielo e tutto il mondo che la Rana e il suo popolo conosceva e ammetteva esistesse. 

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