Attraversare le disuguaglianze
Fare rete per e con i poveri.
Cosa vuol dire? Le reti della Carità e il loro lavoro.
Nel marzo 2014 viene proposto a Pax Christi da don Virginio Colmegna – responsabile della Casa della Carità di Milano – di interrogarci e studiare assieme l’istanza posta dai poveri nella nostra società. Vi è in questo diffuso disagio sociale un appello a chi ricerca le condizioni della Pace?
Poveri: chi?
Con la categoria di “poveri” si intendono in questo caso gli emarginati urbani, i portatori di disagio psichico, i non aventi dimora, quanti, per le più varie ragioni, conducono una vita dissociata che li mette fuori da condizioni normali di vita.
Queste persone, che si fanno più numerose proprio in ragione della complessità della città contemporanea, e delle sue esigenze, sono escluse da rapporti sociali significativi e allo stesso tempo formano un gruppo forzatamente istituzionalizzato dalla società stessa. Sono quelli a cui bisogna provvedere, possibilmente lasciandoli nella condizione di emarginazione e dipendenza sociale; così collocati saranno il meno possibile un inciampo allo sviluppo di una città ordinata, e allo sviluppo di una società efficiente.
In realtà questo gruppo di persone è portatore di uno stimolo culturale importante e di un’esemplarità singolare. Addirittura, secondo il magistero di papa Francesco, possono essere un esempio per quanto riguarda la fede; infatti, l’atteggiamento di affidarsi a Dio è in loro ben più profondo e vitale di quanto non lo sia per noi, abbastanza ben assestati nella società. La loro presenza è anche stimolo alla speranza cristiana: dobbiamo costruire una città che accolga ogni uomo, ogni donna.
Nuove economie?
A tutti noi gli emarginati e i poveri – nel senso detto sopra – stimolano a un ripensamento dei meccanismi economici e organizzativi. Quelli che abbiamo messo in opera sono veramente i più opportuni per costruire un vivere sociale umano? Tutti sappiamo, e ci accorgiamo, che aumenta sempre di più il gruppo degli scartati perché non trovano un posto di lavoro adatto a loro, perché hanno incontrato condizioni personali o sociali che li hanno esclusi da un’ordinata vicenda quotidiana. E possiamo aggiungere coloro che non hanno continuità nelle consuetudini di vita, quelli a cui si è disgregata la famiglia e non ce la fanno a sopravvivere decentemente da soli.
Nelle nostre società occidentali è presente questa categoria di persone. Ma il problema, ingigantito, è riscontrabile anche più ampiamente nel mondo: se si considera il sistema di ricerca quantitativa dell’economia, che produce ingiustizia, ci accorgiamo come si organizza a livello planetario un distorto sviluppo che aumenta le disuguaglianze. Dobbiamo riconoscere che dinanzi a questi temi ci poniamo troppo spesso con un inaccettabile spirito di rassegnazione.
Vivere la complessità
La proposta che si è venuta sviluppando in successivi incontri tra operatori che vivono e operano con i poveri, mira a radunare mensilmente persone e istituzioni che, in tutta Italia, operano in tali ambiti. Il dialogo si è svolto attorno a questi interrogativi: come conoscerci reciprocamente? Come aiutarci a comprendere meglio la situazione che si intende affrontare? In che modo operare assieme per de-istituzionalizzare la povertà? Questo significa anzitutto sottrarsi all’assistenzialismo, che vorrebbe monetizzare tutto. Poi diventare custodi della complessità che si manifesta nelle situazioni che vivono le persone catalogate come ‘i poveri’.
È chiaro che se non si vuole accettare di essere succubi dei luoghi comuni occorre essere persone in ricerca. Quale è, infatti, la complessità del gruppo che viene individuato come i poveri, gli emarginati? Chi lo compone? Quali deficienze di fatto costoro mettono in luce, nel modo di organizzare la vita?
Non si può richiudere la sofferenza; occorre darle un nome, un volto, una cura adeguata. Allora si chiede a chi si occupa dei poveri di essere persone che cercano di capire, ma anche appassionati custodi della complessità che si riscontra nei cosiddetti emarginati. De-istituzionare la povertà significa riconoscere e liberare il desiderio di felicità e di libertà che è presente in loro. Del resto al centro della nostra fede e alla base della nostra appartenenza cristiana sta un Povero che si è fatto tale liberamente e per amore. Si impone per noi un atteggiamento non solo capace di comprendere, ma anche di condividere: occorre diventare poveri anche noi, i discepoli.
I discepoli di Gesù sanno di essere chiamati a una scelta di vita semplice, non conforme al giudizio comune di chi è benestante; occorre ispirarsi a criteri di essenzialità e di utilità che evita lo spreco. È una sorta di opzione per attuare una critica alla abbondanza come segno di successo sociale. Più facilmente allora i poveri non sono più volti anonimi, ma storie concrete; non accettiamo più che siano storie di persone da scartare, da mettere ai margini della società. “Lo scarto” è un concetto messo in luce da papa Francesco e coglie un aspetto significativo del nostro presente.
Sta nello Statuto di Pax Christi, e nel suo DNA, tracciare alcuni percorsi di cambiamento sociale, stare nel mezzo del conflitto, attraversare le disuguaglianze. È questa somma di atteggiamenti e di scelte che si mettono in campo per la pace. Del resto, una delle scoperte che abbiamo fatto, nel costruire questa “rete”, è stata proprio la presenza di aderenti a Pax Christi Italia iniziatori o presenti in opere e attività che intendono contrastare tutte le forme di emarginazione, questa tecnocratica istituzionalizzazione della povertà. Siamo certi che si tratta di un fecondo cammino anche per il Movimento.