Nessuno escluso
sul documento elaborato dai Vescovi. Cosa è cambiato? Come è riletta e ripensata la famiglia?
Ma è veramente accaduto qualcosa?
Nei primi giorni dopo la conclusione della grande assemblea episcopale, e dopo due anni di lavoro, di confronto e di discussione, non manca chi prova a dire: non è successo nulla, state tranquilli, tutto è chiaro come prima. L’alternativa sarebbe – secondo questa rilettura scorretta – quella di cadere nella confusione di un cambiamento, che potrebbe turbare e scatenare reazioni imprevedibili, fino allo “scisma”. Questa ricostruzione di comodo rimuove i problemi e pensa la Chiesa come un sistema autoreferenziale di compiacimento clericale. In realtà al Sinodo è accaduto qualcosa di molto importante, che non riguarda solo la famiglia, ma la Chiesa. Provo a descriverlo in quattro punti:
Un ripensamento del “matrimonio” come esperienza di misericordia
La categoria di “misericordia” – che papa Francesco ha eletto a cifra del proprio pontificato – è diventata “chiave di lettura” dell’esperienza matrimoniale e familiare. Ciò ha permesso di guardare le cose da un altro punto di vista. La comunione familiare non è anzitutto un “valore” da difendere e da irrigidire, ma forma sciolta e sorprendente di annuncio del Vangelo. Luogo di apprendimento della fedeltà, della comunione, della fecondità, secondo diverse epoche e diverse culture. Ciò modifica profondamente il modo con cui la “dottrina diventa pratica e disciplina” e costringe a rivedere alcuni automatismi “emarginanti” che appaiono troppo consoni a quella “cultura dello scarto” che deve essere superata non solo nella società, ma nella stessa Chiesa. Nessuno deve essere scartato: questo è il messaggio forte emerso dal lavoro sinodale.
Un primo esperimento di “linguaggio inclusivo” per parlare della famiglia
Il documento che esce dal Sinodo – e che, è bene ricordarlo, è documento interlocutorio, in vista di un testo ufficiale papale – attesta la scelta di un linguaggio non definitorio, che fa prevalere la logica della accoglienza e della valorizzazione rispetto a quella del giudizio e della condanna. Il tentativo, ancora faticoso, di esprimere la realtà matrimoniale in una “lingua originaria”, senza percorrere la strada obbligata delle norme e dei divieti, per non “impietrire” il messaggio: le parole con cui papa Francesco ha chiuso il Sinodo sono una testimonianza alta di questa esigenza.
Un ripensamento della relazione tra matrimonio e famiglia, per benedire e non per maledire
Uno dei dati più difficili da ammettere, almeno da parte della Chiesa autoreferenziale, è che oggi l’esperienza di “famiglia” non dipende soltanto dal matrimonio, ma si estende a forme e modalità che prendono una certa distanza dalla “tradizione istituzionale” propria non solo della Chiesa, ma anche degli “ordinamenti civili”. Di fronte a questo è facile per la Chiesa assumere un atteggiamento almeno di preoccupazione, se non di accigliata contestazione. Il documento uscito dal Sinodo fa invece lo sforzo di valorizzare il bene presente, piuttosto che lamentare il bene assente. Questo è un cambiamento di stile e di approccio molto rilevante. Vorrei fare due esempi a questo proposito. Da un lato la Chiesa deve fare attenzione a non leggere tutti i “riconoscimenti di diritti” alle “famiglie irregolari” come una sottrazione di diritti alle famiglie regolari. Una lettura solo pedagogica della legge è uno dei punti deboli della tradizione cattolica sul matrimonio degli ultimi 100 anni. Del tutto esemplare è la reazione di alcuni ambienti ecclesiali alla recente notizia del riconoscimento di “pari diritti” del figlio naturale rispetto al figlio legittimo. Quello che è sicuramente, anche dal punto di vista cristiano, un progresso di civiltà, può essere letto, sul piano strettamente pedagogico, come una perdita di forza della “necessità del matrimonio”: in altri termini, se prima ci si sposava almeno per dare ai figli naturali i diritti dei figli legittimi, ora questo motivo è stato superato. Leggere la parità di diritti dei figli naturali come una contestazione della necessità del matrimonio è una delle forme paradossali di “autoreferenzialità” del pensiero cattolico sulla famiglia.
Un esercizio della collegialità da “pastori” e non da “farmacisti”
Infine, non si deve dimenticare che tutta questa apertura di discussione, e anche di scontro, all’interno della Chiesa cattolica, è il frutto di un disegno specifico e “istituzionale”: il Sinodo dei Vescovi, in questo percorso biennale di ascolto, confronto e determinazione finale, ha mostrato da un lato la sua vitalità e dall’altro i suoi limiti. Un esito formalmente importante, ma contenutisticamente troppo evasivo, attesta il travaglio positivo del confronto, ma anche il condizionamento eccessivo di una formula troppo “politica” di esercizio del magistero. Se la profezia può passare quasi soltanto attraverso l’esercizio del primato, ciò significa che il Sinodo, per come oggi è strutturato, garantisce più una Chiesa autoreferenziale che una Chiesa in uscita. Su questo dovrà essere fatta una necessaria riflessione.