Scritti dimenticati… ancora attuali

Il carteggio Einstein-Freud
Fabrizio Truini
Fonte: L’articolo, in versione ridotta, è pubblicato nel numero di Mosaico di pace di gennaio 2016.

“… Ma la guerra è inevitabile!” Questa l’obiezione più radicale che costantemente ci si sente rivolgere da tanti, e anche da giovani studenti, quando si parla con loro sui problemi della pace e della nonviolenza. È il pregiudizio più radicato e difficilmente superabile, perché affonda, se non nella disperazione, certo nella disillusione di molti, anche di esperti analisti di politica internazionale, i quali oggi sembrano solo constatare che siamo già nella terza guerra mondiale.

È dunque un illuso, un’utopista, chi pensa che la pace sia possibile e realizzabile?

Così si può ribattere a quanti ripetono l’immancabile contestazione, ottenendo di solito non una risposta esplicita, ma un sorriso di sufficienza, leggermente canzonatorio.

Eppure si può incalzare l’interlocutore pervicace, ricordando che l’interrogativo se lo sono posto non uomini ingenui o menti deboli, ma persone illustri e scienziati famosi.

A questo punto, ricordando quanto dicevano, non tanto noti apostoli di pace quali Tolstoj, Gandhi, Capitini o il papa, ma Einstein e Freud, si riesce a catturare l’attenzione anche dei più riottosi.  Questa l’esperienza che ho tratto nelle discussioni su tale problema.

Ecco perché credo sia utile riproporre un fondamentale loro scritto, spesso dimenticato.

Nel 1932, l’Istituto internazionale di cooperazione intellettuale di Parigi sollecitò eminenti personalità mondiali a uno scambio di pareri e di idee sui massimi problemi dell’esistenza.

In seguito a ciò, Albert Einstein, il padre della fisica moderna, indirizzò una lettera aperta a Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, per interrogarlo sulla questione della pace, che ai suoi occhi – così scriveva- “è la più importante della civiltà”.  Ecco la domanda diretta che gli poneva:

“Esiste o non esiste un mezzo perché gli uomini siano liberati dalla minaccia della guerra?”

Non era casuale il fatto che Einstein abbia posto tale domanda a Freud, perché proprio in quel 1932 questi aveva pubblicato ‘Il Disagio della civiltà’, nel quale si poteva leggere questa profetica e fondamentale asserzione: “ Gli uomini hanno raggiunto un tale potere sulle forze della natura che ora, usandole, potrebbero facilmente sterminarsi tutti. Essi lo sanno e da qui deriva gran parte della loro attuale inquietudine, infelicità e apprensione”.

Einstein da parte sua, in seguito agli sforzi per la pace della ancor giovane Società delle Nazioni, aveva già ipotizzato -come molti- un mezzo per evitare la guerra. Infatti in quella famosa lettera auspicava l’avvento di una nuova legge che privasse gli Stati della loro sovranità, per arrivare a un’organizzazione giuridica sovranazionale, che creasse le condizioni di una composizione di tutti i possibili conflitti tra gli Stati. Ma non era un ingenuo: capiva che per raggiungere tale obiettivo finale, bisognava superare difficoltà che risiedevano nell’animo umano.

L’ostacolo maggiore che egli –profeticamente- intravedeva era costituito in primo luogo dall’ “ambizione politica di potenza delle classi dirigenti dei vari Stati e specialmente di quel gruppo che si trova in ogni popolo e che, poco numeroso, ma composto da individui ben decisi, considera la guerra solo come un’occasione buona per realizzare profitti ed estendere il campo del potere personale”. In quegli anni si assisteva all’ascesa del fascismo e del nazismo, e ciò che più impressionava il grande fisico e che non riusciva a spiegarsi, era il mistero di come grandi masse di popolo si lasciassero infiammare dai gruppi dominanti fino alla follia e al sacrificio supremo.

Allora si domandava se non bisognasse ipotizzare un fattore secondo cui “l’uomo ha in sé il piacere dell’odio e della distruzione, abitualmente allo stato latente, ma che può essere eccitato con una certa facilità e può degenerare in psicosi collettiva: qui sta il problema essenziale”.

Pur sottolineando la responsabilità primaria dei governanti di fronte alla guerra, a Einstein non sfuggiva il fatto che la responsabilità della guerra coinvolge anche tanta parte dell’umanità.

Da qui sorgeva il quesito più stringente che egli poneva a Freud: “Esiste la possibilità di guidare lo sviluppo psichico dell’uomo in modo che diventino capaci di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?”     

Freud all’inizio si mostra riluttante a rispondere, da una parte riconoscendo ad Einstein il merito di “aver detto tutto ciò che è essenziale”; dall’altra dichiarando di essere incompetente. Anzi si dice “spaventato”, per la questione postagli , anche perché gli sembra sollevare “un compito pratico di naturale spettanza degli uomini di Stato”.

Poi però –con una lettera lunga quattro volte maggiore di quella ricevuta- esamina a fondo le questioni postegli, iniziando dalla prima proposta per avviare la soluzione del problema: cioè il ricorso al diritto per opporsi alla violenza. Ma subito è costretto a rilevare che:

“nonostante oggi violenza e diritto ci appaiano antitetici, il diritto deriva dalla violenza”. La via che porta dalla violenza al diritto è per lui quella dell’ “unione dei deboli contro il forte. L’union –scrive in francese- fait la force. Spezzata la violenza mediante l’unione, la forza dei deboli riunita viene a rappresentare il diritto, in opposizione alla violenza di uno solo: vediamo così che il diritto è la potenza di una collettività. Ma anche ciò è violenza... opera con gli stessi mezzi, persegue gli stessi scopi… la differenza sta realmente solo nel fatto che non è più la violenza dell’individuo a trionfare, ma quella della collettività”.

E così continua con ragionamento stringente: “Perché si compia questo passaggio dalla violenza al diritto deve adempiersi una condizione psicologica. L’unione deve essere stabile, durevole… La comunità deve organizzarsi…deve istituire organi che veglino sull’osservanza delle leggi e che provvedano all’esecuzione degli atti di violenza conformi alle leggi. Nel riconoscimento di una tale comunione di interessi si instaurano quei legami emotivi, quei sentimenti comunitari sui quali si fonda la vera forza del gruppo”.

Ma – egli aggiunge – tale stato di pace è pensabile solo teoricamente. Nella realtà le cose si complicano perché la comunità fin dall’inizio comprende elementi di forza ineguale… Il diritto diviene allora espressione di rapporti di forza ineguali, le leggi vengono fatte da e per quelli che comandano – questo o quel signore tenta di ergersi al di sopra delle restrizioni valide per tutti- e concedono scarsi diritti agli assoggettati. Questi allora per non essere più sudditi si sforzano di procurarsi più potere e un diritto uguale per tutti…  Se la classe dominante non è pronta a recepire questo cambiamento, si giunge all’insurrezione e  alla guerra civile”.

Freud dopo aver richiamato la teoria della dialettica padroni-schiavi di Hegel e quella di Marx sulle classi dominanti e proletarie, e dopo aver svolto un excursus storico partendo dalla Grecia e dalla Roma antica, giunge a dire che ora “ l’umanità ha sostituito alle continue guerricciole le grandi guerre tanto più devastatrici quanto meno frequenti”. E così prosegue nella risposta:

 “Per quanto riguarda la nostra epoca, s’impone la medesima conclusione a cui Lei è giunto…

Una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità centrale… con il potere che le abbisogna. Ora la Società della Nazioni è stata concepita come suprema potestà, ma la seconda condizione non è stata adempiuta, perché non dispone di una forza propria, e può averne una solo se i singoli Stati gliela conferiscono. Tuttavia per il momento ci sono scarse probabilità che ciò avvenga… E’ fin troppo chiaro che gli ideali nazionali da cui oggi i popoli sono dominati spingono in tutt’altra direzione”.

Dopo questa prima risposta, improntata più al realismo che al pessimismo, Freud passa all’altra questione con un’analoga analisi, propria di una coscienza profonda e disincantata.

 “Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa –una pulsione all’odio e alla distruzione- che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con Lei…

Noi (psicanalisti) presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano di due specie: quelle che tendono a conservare e ad unire …e quelle che tendono a distruggere e a uccidere…

Lei vede bene che si tratta soltanto della dilucidazione teorica della contrapposizione tra amore e odio universalmente nota, e che forse è originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che interviene anche nel suo campo di studi… Ora sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire isolatamente. Essa è sempre legata-vincolata- in certa qual misura alla controparte… La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ci ha impedito per tanto tempo di riconoscerle…

Talvolta quando sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali siano serviti da paravento alle brame di distruzione; altre volte, pensando per esempio alle crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi procurassero loro un rafforzamento inconscio…

Vorrei intrattenermi ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo convinti che essa opera in  ogni essere vivente e che il suo intento è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche rappresentano gli sforzi verso la vita…

Noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici dall’interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno…

Da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini…D’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente l’aggressività umana: si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra…

Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, è ovvio contro di essa ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami affettivi tra gli uomini deve agire contro la guerra… La psicanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: ‘ama il prossimo tuo come te stesso’…

Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di legami emotivi: le identificazioni. Su di esse riposa in gran parte l’assetto della società umana.

L’abuso di autorità da Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente la tendenza alla guerra… Si dovrebbero dedicare maggiori cure all’educazione di una categoria di persone dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia. Che le intrusioni del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla Chiesa non siano favorevoli ad allevare cittadini simili, non ha bisogno di dimostrazione. La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che  assoggettasse la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione… Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica… 

Vorrei tuttavia trattare ancora un problema che nel Suo scritto Lei non solleva: perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la consideriamo come una delle molte e penose calamità della vita?... La risposta è: perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe contro la propria volontà a uccidere altri invidi, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano… Inoltre la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione significherebbe lo sterminio di uno o di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità…

La ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo a meno di farlo. Siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo per ragioni organiche… Ecco quello che voglio dire: da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo d’incivilimento… Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali… Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsionali… Ora dei caratteri psicologici della civiltà due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività…

Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più. E non si tratta solo di un rifiuto intellettuale o affettivo: per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia.

Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo. Ma forse –conclude Freud- non è utopia sperare che l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura- ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire”.

Le argomentazioni stringenti di Freud e di Einstein, riproposte anche all’interlocutore più scettico e distratto, catturano l’attenzione e fanno riflettere. Sono purtroppo ancora attuali.

Non è dunque inutile rileggere il loro carteggio, per alimentare la nostra speranza e l’attiva apertura a una nuova civiltà di pace.        

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