Badshah Khan
Associare islam e violenza, oltre che offesa ad una grande religione, è un grave errore storico. Per tante che siano, e clamorose, le azioni violente che abusano della religione islamica, non si trova nell’islam una vera giustificazione divina della violenza, se non in passaggi di un genere che troviamo anche nella Bibbia. Il cammino umano per accogliere e comprendere l’appello di Dio (che è al di là di tutti i nomi, i concetti, le dottrine), sulle diverse vie umane, è un percorso accidentato, che deve sempre correggersi e rettificarsi. Così avviene in tutte le religioni e spiritualità, nessuna delle quali può vantare una purezza totale. Conviene cercare e conoscere esperienze di mitezza e nonviolenza nelle diverse tradizioni religiose, che dimostrano il loro lavoro per purificarsi dal male e procedere nel bene, per crescere dall’offesa alla vita fino al maggiore rispetto del mistero che nella vita, e specialmente nell’umanità, si cela, e richiede di essere non soltanto non violato, ma difeso e amato.
Cercando di indicare, come Mosaico mi chiede, esperienze di nonviolenza ispirata all’islam, mi trovo in difficoltà. I riferimenti sono più di quel che si immagina secondo il sentire comune, e certamente ne sfuggono altri. Allora penso di limitarmi a riassumere due libri, aggiungendo poi delle vie di informazione. Il primo è sulla vita e l’opera di Badshah Khan, il secondo è un denso libretto di Ramin Jahanbegloo, Leggere Gandhi a Teheran.
I - Badshah Khan
Anzitutto mi sembra utile riassumere il libro di Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano (Ed. Sonda, Torino 1990, ripubblicato nel 2008). Mi sembra la lettura più ampia e significativa. Un uomo e un’esperienza non solo di astensione dalla violenza (nonviolenza negativa), ma di forte impegno a sostituire la violenza esistente con rapporti umani buoni, costruttivi di libertà e dignità: la nonviolenza positiva, dell’uomo forte.
Badshah Khan, detto “il Gandhi musulmano”, rappresenta una tale esperienza, magistrale ed emblematica. Abdul Ghaffar Khan, chiamato Badshah Khan, il “re dei khan” (1890-1988) fu il leader che guidò una popolazione guerriera e feroce come i pathan (ovvero pashtun, Afghani), della Frontiera, la “porta dell’India” (oggi tra Pakistan e Afghanistan), di religione musulmana, e li condusse ad adottare la nonviolenza contro le repressioni molto violente del dominio inglese. Badshah Khan trovò proprio nella sua fede islamica l’ispirazione alla nonviolenza, il che importa per sfatare la rozza identificazione odierna tra islam e violenza.
Gandhi osservò che proprio il violento coraggioso nella difesa di diritto e dignità è il più disponibile a capire e vivere la “nonviolenza del forte”. Egli scrive: «Mentre non c’è alcuna speranza di vedere un vile diventare nonviolento, questa speranza non è vietata a un uomo violento». Scriveva Khan: «Musulmano è colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio. La fede in Dio è amore del proprio compagno».
Il giovane Ghaffar apprese da suo padre lo spirito del perdono, davvero singolare in quella società che aveva il codice della vendetta come regola di onore. La rivolta dei pathan nel luglio 1897 fu repressa dagli inglesi che distrussero i raccolti, tagliarono gli alberi (azione feroce di guerra vietata dal Corano), avvelenarono i pozzi, demolirono le case.
Come Gandhi indù, così Abdul Ghaffar musulmano riceve un’educazione inglese, senza perdere il cuore della propria tradizione. Il suo percorso è simile a quello di Gandhi. Il viceré Curzon “viviseziona” con le deportazioni la nazione pathan. In queste condizioni, Abdul Ghaffar apre una scuola nel suo villaggio di Utmanzai e poi altre nei villaggi vicini, nonostante l’avversione dei mullah tradizionalisti e gli ostacoli della legge inglese. Ormai ha scelto la via delle riforma sociale educativa per servire il suo popolo. Si dedica in particolare alle tribù delle montagne, governate dagli inglesi con durezza, isolamento, umiliazioni. Tra di loro, in preghiera e digiuno, trova la sua via, che seguirà per settant’anni: il servizio di Dio nel servire i poveri, gli ignoranti, i violenti. Negli stessi anni, Gandhi avvia in Sudafrica il satyagraha, fino al suo ritorno in India, nel 1914.
Ghaffar sente parlare di Gandhi e delle sue campagne, si riconosce nel suo scopo e nei suoi metodi. Nel 1919, dopo la strage di Amritsar (il 13 aprile gli inglesi sparano a sangue freddo su una folla intrappolata in una piazza facendo 400 morti e 1.200 feriti, con 1.600 pallottole, circa una a testa), Gandhi prepara la rivolta nonviolenta contro il dominio inglese. Ghaffar è imprigionato senza processo, e così tante altre volte. La sua colpa è educare il popolo. Un carceriere riconosce che Ghaffar è in prigione «per conto di Dio». In prigione, incontrando altri indipendentisti indù e cristiani, impara a conoscere e rispettare le altre religioni. Scarcerato nel 1924, sebbene molto provato dopo tre anni di detenzione, è ormai accolto come un leader dai pathan.
Egli sente più di tutti la contraddizione intrinseca alla mistica della vendetta e della violenza, tipica dei fieri pathan, che preferiscono rubare piuttosto che mendicare, uccidere piuttosto che patire un dolore. Molte storie di vendette familiari gli dicono che il pathan non è un assassino irresponsabile, ma la vittima di un distorto codice d’onore, di ignoranza, superstizione, abitudine. Ghaffar comprende che la politica dell’impero inglese ha buon gioco nel mettere i pathan gli uni contro gli altri: impegnati a tagliarsi la gola tra di loro non pensano alla libertà. Così sprecano il loro coraggio e forza. Sa che il suo compito è educare, illuminare, risollevare, ispirare. Insegnerà ai pathan che il vero coraggio è essere nel giusto. Egli riuscirà in questo perché è un vero pathan, che può capire nell’intimo i pathan.
Qui si vede che la nonviolenza non può essere importata, ma può crescere solo dall’interno di una cultura, che discute e riforma se stessa, sulle sue basi positive, Se i pathan capirono la nonviolenza, anche popolazioni soggette alla cultura mafiosa o bellicosa, ma non prive di umanità, possono capirla e viverla.
Come Gandhi, Ghaffar valorizza molto il ruolo attivo delle donne nel movimento. Fonda una rivista in lingua pakhtu, che discute di igiene, temi sociali, diritti delle donne, dignità del popolo pathan. Egli pratica già la sostanza del “programma costruttivo” di Gandhi. Nel 1928 lo incontra e ne riceve profonda impressione: impara da lui la tolleranza e pazienza che manca nei leader islamici. Incontra anche Nehru. Si inserisce nella lotta per l’indipendenza indiana, dando coscienza politica ai pathan: «Dovete vivere per la comunità. È l’unica strada che conduca alla prosperità e al progresso».
Ci voleva un esercito, sì, ma di gente libera sia dalla violenza dei fisicamente forti sia dalla nonviolenza dei moralmente deboli. Badshah Khan insegnò ai pathan che la massima forma di onore e di coraggio era affrontare un nemico per una giusta causa senza indietreggiare e senza imitare con l’uso delle armi la sua violenza, combattendo anche contro la propria violenza.
Riuscì così a costituire il primo “esercito” nonviolento della storia addestrato professionalmente. Tutti i pathan potevano entrarvi, uomini e donne, purché pronunciassero questo giuramento (per i pathan giurare impegna la vita):
«Sono un khudai kidmatgar (servo di Dio), e poiché Dio non ha bisogno di essere servito, ma servire la sua creazione è servire lui, prometto di servire l’umanità nel nome di Dio.
Prometto di astenermi dalla violenza e dal cercare vendetta.
Prometto di perdonare coloro che mi opprimono o mi trattano con crudeltà.
Prometto di astenermi dal prendere parte a litigi e risse e dal crearmi nemici.
Prometto di trattare tutti i pathan come fratelli e amici.
Prometto di astenermi da usi e costumi antisociali.
Prometto di vivere una vita semplice, di praticare la virtù e di astenermi dal male.
Prometto di avere modi gentili ed una buona condotta, e di non condurre una vita pigra.
Prometto di dedicare almeno due ore al giorno all’impegno sociale».
Questo esercito volontario e gratuito cominciò con 500 reclute, “camicie rosse”. Le funzioni erano aprire scuole, sostenere progetti di lavoro, sviluppare l’autogoverno della società.
Badshah Khan diceva a questi “soldati”: «Vi sto fornendo un’arma a cui la polizia e l’esercito non potranno resistere. È l’arma del Profeta: la pazienza e la giustizia sono quest’arma. Nessun potere sulla terra può resisterle». Egli sviluppava così la sabr, la pazienza, che nel Corano è la virtù centrale nella “guerra santa” tra il bene e il male che ogni persona ha da combattere nel proprio cuore, facendone la virtù del nonviolento forte. Così, sabr, insieme a lâ unf, è il termine che significa nonviolenza in arabo.
Cinquemila delegati del Congresso a Lahore, il 31 dicembre 1929, dichiaravano se stessi e tutti gli indiani uomini e donne liberi, e aggiungevano: «La strada più efficace per ottenere la libertà non passa per la violenza. (...) Se riusciamo a ritirare la nostra collaborazione volontaria con il governo inglese, e siamo disposti alla disobbedienza civile, compreso il rifiuto di pagare le tasse, senza compiere violenze neanche se provocati, la fine di questo dominio disumano è certa».
Nella regione della Frontiera la repressione fu più intensa e brutale, nel 1930: manifestazioni nonviolente e disarmate furono investite da carri armati inglesi nel bazar di Kissa Khani, con quasi trecento morti e altri feriti, colpiti a sangue freddo tra la folla che rimaneva ferma di fronte agli spari dei soldati inglesi. Il massacro (simile a quello di Amritsar del 1919) è documentato nei giornali anglo-indiani del tempo e negli studi di Gene Sharp. Ma tiratori scelti garhwali si rifiutarono di sparare sulla folla: «Noi non spareremo sui nostri fratelli disarmati».
Sconcertati dalla nonviolenza dei pathan, gli inglesi tentavano di spingerli alla reazione violenta, con provocazioni fisiche umilianti, nel villaggio stesso di Khan, Utmanzai, a cui i “servi di Dio” resistettero eroicamente. La popolazione si aggregava a loro. La resistenza restava nonviolenta. Alla fine di settembre l’esercito nonviolento arrivò a contare ottantamila (altre fonti dicono centomila) volontari, uomini e donne. Dopo l’accordo paritario, che disgustò Churchill, tra Gandhi e il viceré, accordo che sancì la tregua, i pathan ottennero con la lotta nonviolenta la parità politica della loro regione col resto dell’India.
Khan cede la sua terra ai figli, diventando un fakir, un senza terra, senza diritto di voto nella jirga. Ormai è solo un riferimento spirituale. Gira instancabile per i villaggi, ad educare gli ignoranti, avversato dagli inglesi, dai mullah, dai khan ricchi che non vogliono riforme. Due volte rischia di essere ucciso. Percorreva fino a quaranta chilometri al giorno. Appena arrivato in un villaggio, puliva la moschea, stava coi poveri. Ripeteva: «Abbiamo due obiettivi: liberare il paese; nutrire l’affamato e vestire l’ignudo». Insegnava l’igiene, la forza, il disinteresse. Ricordava alle donne la loro parità coranica con gli uomini.
Gli inglesi gli proibirono queste visite. Un inglese collaboratore di Gandhi, Verrier Elwin, documenta la persecuzione contro le “camicie rosse”, nella Frontiera, con metodi feroci e 35.000 arresti, e testimonia l’attaccamento orgoglioso dei pathan alla nonviolenza. Avevano ormai compreso che la nonviolenza funziona.
Intanto, Khan fu detenuto per tre anni senza processo, in isolamento, lontano dalla Frontiera, soffrendone nella salute. Rilasciato nel 1934, ma bandito dalla Frontiera, Khan accettò l’invito di Gandhi e andò a vivere a Wardha, il suo ashram nell’India centrale. Il segretario di Gandhi, Mahadev Desai, scriveva di Khan: «La cosa più grande in lui è la sua spiritualità, il vero spirito dell’islam, la sottomissione a Dio». Khan disse che nessuno conosce il vero spirito dell’islam, e che «tutte le fedi sono ispirate quanto basta a coloro che vi aderiscono. Il Corano dice che in molti modi Dio manda messaggeri in tutte le nazioni».
Khan riconosceva che la collera dei pathan era solo repressa, ed era turbato dalla quantità di rivalità fra tribù e famiglie. Ora bisognava esercitare i volontari nel Programma costruttivo, la nonviolenza positiva: filare e tessere, l’igiene, l’educazione di base, l’indostano come lingua nazionale unificante.
L’India è coinvolta senza consenso nella seconda guerra mondiale. Gli inglesi scavano divisione tra indiani indù e musulmani, per dominarli meglio. Il Congresso voleva l’indipendenza, la Lega musulmana lo status di dominion entro l’impero. Nel 1940 Alì Jinnah proponeva uno stato musulmano. Richiesto di unirsi alla lotta, in quanto musulmano, contro il «dominio indù», Badshah Khan rifiutò. Invitò la Lega a cacciare gli inglesi e poi vivere insieme, indù e musulmani, come avevano fatto per secoli. Quelli della Lega per spregio chiamarono Khan indù.
Khan fu duro nel riaffermare il metodo di «servire Dio e l’umanità offrendo le proprie vite senza ucciderne alcuna». Avvia scuole femminili, cosa rara tra i musulmani.
Dopo la guerra, l’Inghilterra si avvia a riconoscere l’indipendenza, ma c’è contrasto tra Congresso e Lega musulmana, su chi dovrà avere il potere. Il Congresso si rassegna alla richiesta della Lega, di uno stato musulmano separato. Solo Khan e Gandhi si opposero. Nel maggio ‘47, Gandhi aveva tentato, parlando con tutti, di evitare la spartizione. Frena gli indù eccitati, difende la bontà dell’islam distinguendola dai musulmani violenti. Prega con una preghiera tratta dal Corano. Khan è con lui, angosciato per il futuro. Il 15 agosto 1947 l’India è indipendente. Avevano combattuto senza armi e avevano conquistato la libertà e la pace. Ma purtroppo non c’era la pace interna. Le violenze tra indù e musulmani spinsero Gandhi ad un digiuno «fino alla morte» nel gennaio 1948: ottenne la cessazione dei massacri, ma fu ucciso, con una Beretta italiana, nel pomeriggio del 30 gennaio, da un fanatico indù.
Ucciso Gandhi, incarcerato Khan, i due più grandi uomini di Dio di tutta l’India erano stati sacrificati in nome della religione. Khan, in un intervallo di libertà, fondò il primo partito socialdemocratico del Pakistan. Egli trascorse in carcere trent’anni, un terzo della sua vita.
Come Gandhi nell’induismo e Martin Luther King nel cristianesimo, Abdul Ghaffar, Badshah Khan, dimostra la profonda consonanza dell’islam vivo genuino con la nonviolenza.