TESTIMONI

Il soffio del profeta

Arturo Paoli. Anzi, fratel Arturo, il Giusto fra le nazioni. E la sua tenerezza, la sua vita al servizio degli altri e del Vangelo, nel tumultuoso Novecento.
Francesco Comina

Si è spento lentamente fratel Arturo nei giorni più caldi della scorsa estate. Raccontiamo oggi, a distanza di qualche mese dalla sua fine. Per l’eredità umana che ci ha lasciato. Una eredità forte, come il mare, come la tenerezza. Perché Arturo Paoli ha vissuto la tenerezza fino all’ultimo, come una carezza di Dio, come un respiro leggero. È così che si campa cent’anni. Abbandonati a quel verbo divino che è puro amore. Nulla di astratto, di etereo, di metafisico. Tutt’altro. La tenerezza è un il sentire con gli altri, è la coesistenza dei cuori, è la condivisione dei destini, anche tragici, che si spalancano sugli orizzonti degli uomini. Solo un desiderio ha lasciato scritto nel testamento letto nella cattedrale gremita per i funerali, che “la mia salma venga interrata nel piccolo cimitero adiacente alla chiesa di san Martino in Vignale (alla sua destra verso levante)”.

Con i sandali ai piedi

Arturo è passato nella bolgia del Novecento con i sandali ai piedi e il sorriso della speranza sulle labbra. Amorizzando il mondo. Perché la vita è bella sempre. È la meraviglia dell’alba che spruzza di rosso le colline intorno, è la brezza del vento che si alza dal mare come un balsamo che ti coccola quando sei afflitto, è il sole che sprigiona la forza dell’universo nelle ore della canicola. Ma è anche il buio che cala come un silenzio pieno di voci nell’eterna preghiera della sera.

Che straordinaria lezione ci lascia fratel Arturo! Forse è stato fra i primi, nella storia tumultuosa del Novecento, a capire che il vangelo è un libro di liberazione. Non è un semplice racconto di fede. È un processo dinamico di costruzione della terra a partire dal riscatto degli ultimi, dei poveri, degli oppressi. Questa intuizione fu immediata. La respirò da piccolo quando vide tornare i reduci della prima guerra mondiale, feriti, mutilati, annichiliti. È li che si fece le prime domande di senso: ma se Dio ha creato l’uomo perché fecondasse la terra, se l’ha investito del compito di procreare, se l’ha disperso nel giardino del mondo, se gli ha infuso lo spirito dell’universo, come può essere che quell’uomo, figlio del divino, possa legittimare il mostro tentacolare che si chiama guerra e che inghiotte vite umane senza pietà?

La pace e la guerra

La pace divenne ben presto uno dei vocaboli privilegiati del Vangelo di Arturo. E quando la guerra arrivò al culmine supremo dell’abbrutimento dell’uomo e della politica, quando spalancò le fauci del totalitarismo diffondendo il virus del razzismo e rivelando lo spettacolo disumano dei campi di concentramnento e delle camere a gas Arturo scoprì un altro vocabolo fondamentale: l’alterità. E divenne, a sua insaputa, un Giusto fra le Nazioni. Arturo escogitò, insieme ad altri preti lucchesi, un sistema di riparo per gli ebrei perseguitati dai nazisti: “Un giorno – racconta – arrivò, insieme alla moglie incinta, un giovane ebreo poco più che ventenne di nome Zvi Yacov Gerstel. Ci occupammo subito della donna che facemmo ricoverare in una clinica di suore. I tedeschi si fecero avanti. Entrarono nel seminario e iniziarono a rovistare da tutte le parti partendo dal primo piano e risalendo verso il secondo dove mi trovavo con quel giovane terrorizzato che improvvisamente mi svenne fra le braccia. Non sapendo che fare lo tirai all’interno verso una porticina che dava in un piccolo ripostiglio che utilizzavamo come deposito di carte. Era una porta a muro. Il giovane si è ricordato di una frase che io avrei detto in quel momento: ‘Non avere paura perché io ti proteggerò con il mio sangue’. I tedeschi arrivarono al nostro piano e io dissi loro che dietro quella porta c’era solo un ripostiglio di carte. Batterono ma non la aprirono. Quando se ne andarono lo tirai fuori. Tirammo insieme un grande respiro per aver superato l’incubo di una morte certa”.

E fu così che il vocabolario di Arturo si arricchì di un’altra parola: verità. Non solo la verità di Dio, ma anche la verità del mondo. Urlarla questa verità costa carissimo quando incombe la manipolazione ideologica. Dopo la guerra, quando cominciò a profilarsi il conflitto fra il Partito comunista e la Democrazia cristiana per le elezioni del 1952 con la famosa “legge truffa” che dava un premio di maggioranza ai partiti alleati contro i comunisti e si cercò di strumentalizzare la fede in chiave elettorale, fratel Arturo disse che no, che non si poteva giocare con la menzogna per miserrimi fini politici. E come assistente dei giovani dell’Azione Cattolica (Giac) decise di opporsi ai comitati civici di Luigi Gedda togliendo il consenso alla strategia degasperiana. Scoppiò la bufera e Arturo venne emarginato a tal punto che dovette prima rifugiarsi in Sardegna, lontano dalla capitale, e poi imbarcarsi su un transatlantico in rotta verso Buenos Aires.

Liberazione

In Argentina iniziò la svolta. Ben presto Arturo si abbeverò all’acqua fresca di Charles de Foucauld prendendo i voti dei piccoli fratelli del vangelo. E imparò a declinare un altro vocabolo: liberazione. L’America Latina cominciava ad essere un continente in subbuglio, il terreno di uno scontro sanguinoso che di protrasse fino alla caduta del muro di Berlino. Giunte militari prendevano il potere in vari paesi. Gli Stati Uniti ne approfittavano per mantenere il posizionamento contro gli interessi sovietici. Le rivendicazioni dei poveri (contadini, operai, indigeni) venivano represse nel sangue. Arturo si schierò senza alcun indugio con i più poveri, ne condivise la sofferenza, la lotta. E diventò immediatamente un nemico, un acerrimo nemico dei potenti convinti cristiani che lo inserirono nella lista dei possibili condannati a morte. E a quel punto Arturo scoprì il vocabolo solidarietà. Attraverso le reti degli amici venne aiutato a fuggire in Venezuela dove si dedicò a progetti di emancipazione dalla povertà. E infine in Brasile dove continuò fino a 93 anni a lottare con i sem terra e con i meninos de rua secondo i risvolti di un altro termine importante: giustizia.

Tornò in Italia un poco ricurvo sulle spalle per annunciare la morte della metafisica e per rivelare la svolta antropologica del terzo millennio: il transito nell’altruità, la scoperta del volto altrui, il punto d’approdo al totalmente altro, il Dio Agape, amore incondizionato che non dice “io ti faccio questo se tu mi fai quello”, la ciambella di saLvataggio per tutti i naufraghi della speranza: profughi, clandestini, fuggiaschi di ogni tipo. Dio illumina le vite dei poveri e risveglia le coscienze dei profeti disarmati come Arturo, leggeri come una piuma fino a sfiorare 103 anni di età.

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