Una questione di metodo
L’evoluzione costituzionale europea
La Costituzione italiana si può apprezzare e attuare al meglio, si può anche riformare, se tutto ciò è colto nel contesto di una storia, di una evoluzione storica. L’Europa, dopo il lungo inverno del feudalesimo, dove non c’era l’idea di cittadinanza e non si parlava di diritti, tra il Cinquecento e il Seicento vede crescere i nascenti Stati nazionali, poi detti assoluti che avevano solo nel re la personificazione dello Stato. Di fronte al sovrano si era sudditi. Il sovrano era sopra la legge. Non si prevedeva una divisione dei poteri. E’ con le rivoluzioni della borghesia: Inglese, Americana e Francese, che termina l’Antico Regime e la sovranità si trasferisce, almeno sul piano formale, dal sovrano ai cittadini, con l’elezione dei parlamenti. Nasceva lo Stato liberale. Si trattava di un risultato storico. Erano riconosciuti i diritti dell’uomo, diritti civili, come inalienabili, cioè innati: propri dell’individuo per natura. In più, sulla base delle teorie dello studioso francese Montesquie (il suo libro Lo spirito delle leggi), ora si teorizzava e si accettava la divisione dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Il sovrano (e chi detiene il pubblico potere) ora accettava di sottostare alla legge. Ecco che così si passava dallo Stato assoluto allo Stato liberale che riconosceva anche i diritti politici. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamata in Francia nel 1789 fu il simbolo di questo mutamento. Ma si parlava solo di diritti dell’uomo. Per questo la scrittrice Olympe de Gouyes pubblicò il 26 agosto dello stesso 1789 una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, pagando per le sue idee con la vita. Comunque, di fronte al nuovo mutamento epocale, occorre ricordare che i pontefici del tempo opposero una decisa e intransigente condanna al cambiamento in corso.
La nascita dello Stato liberale, detto anche Stato di diritto, voleva dire che lo stesso Stato si autolimitava, lo stesso potere pubblico accettava di rispettare la legge: di stare sotto la legge e non al di sopra di essa. Per realizzare al meglio questo principio, il giurista francese Montesquie dirà: «Poiché ogni potere tende a espandersi fino a dove non incontra un limite, cioè tende a diventare assoluto e quindi tirannico, occorre che “il potere arresti il potere”», secondo un meccanismo o «sistema di pesi e contrappesi». Ecco il senso della separazione dei tre poteri statali.
Rimaneva aperta o irrisolta la questione sociale, cioè la condizione dei diritti delle classi popolari, perché gli Stati liberali erano frutto di rivoluzioni operate dalla borghesia, una classe liberista in campo economico, che esclude l’intervento dello Stato. Di conseguenza, i nascenti parlamenti erano espressione della classe borghese e della nobiltà residuale, visto che il diritto al voto (politico), attivo e passivo, era limitato al censo o al livello dell’istruzione, e comunque solo per il sesso maschile. Vero è che lo Stato ora doveva sottostare alla legge. Ma le leggi erano emanazione della borghesia poco interessata ai diritti sostanziali dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il principio di “costituzionalità”
Con il passare del tempo ci si rese conto che la legge “ordinaria” parlamentare degli Stati liberali poteva essere usata e interpretata anche in senso restrittivo o autoritario. Perciò non bastava più il principio di legalità, proprio dello Stato di diritto. Ora era necessario affermare con maggiore chiarezza e formalmente in un documento scritto condiviso la limitazione dei poteri e il riconoscimento dei diritti. Si affermava così il principio di costituzionalità. Cosa vuol dire? Vuol dire che il legislatore non soltanto dovrà essere vincolato al rispetto della legge, in senso generico e solo sulla carta (Stato di diritto), ma che il legislatore e il governo, comunque chi esercita il pubblico potere, è vincolato a ciò che è solennemente proclamato nelle Costituzioni dei singoli Stati. Perciò si parlerà di costituzionalismo.
Con l’estensione del suffragio universale, senza limiti di reddito o esclusioni di sesso, e di conseguenza con la presenza nei parlamenti e nelle maggioranze parlamentari dei rappresentanti dei lavoratori e delle lavoratrici, della classi più popolari, nel corso del ‘900, si passerà a nuova situazione. Ora, specialmente dopo la Seconda guerra mondiale, sarà il popolo che potrà chiedere e ottenere che siano garantiti i diritti sociali. Perciò si parla anche di Stato liberal-democratico. Così diritti come il diritto allo studio e alla salute diventeranno diritti primari e “universali”, cioè non solo per alcune categorie. Sul loro reale rispetto, sulla reale partecipazione delle fasce popolari alle scelte della vita politica, si giocherà la partita della democrazia, non soltanto formale, ma sostanziale!
Come andarono le cose in Italia?
In una penisola frantumata in piccoli regni, con uno Stato pontificio chiuso alla modernità e arroccato nella conservazione dell’assolutismo, il 4 marzo del 1848 il sovrano del Regno di Sardegna, re Carlo Alberto, sotto la spinta di diverse pressioni si era visto costretto a concedere una qualche forma di costituzione che prese il nome di Statuto albertino. Quali erano le sue caratteristiche? Si trattava di un testo, composto da 84 articoli, che rimarcava, quasi in ogni articolo, le prerogative del re e richiamava la religione cattolica come sola religione di Stato, continuando a parlare di sudditi e non di cittadini. Questo Statuto, al momento dell’unificazione d’Italia (1860-18670), fu esteso a tutto il Regno d’Italia e rimase in vigore, anche durante il Fascismo, fino al dicembre del 1947. Lo Statuto era un documento concesso dall’alto, cioè non votato da un’assemblea elettiva; era un testo flessibile, non rigido, cioè che poteva essere modificato con una procedura ordinaria. Perciò si parla di costituzionalismo debole. Ciò rese possibile adattarne e modificarne l’applicazione, in particolare nei momenti di rivolgimenti politici, come avverrà al tempo del Fascismo. Dal punto di vista politico, lo Statuto era il frutto di un compromesso tra vecchia aristocrazia, la nuova borghesia emergente e il re, con lo scopo di chiudere la porta alle rivendicazioni di carattere di carattere popolare e sociale. In questo senso si può dire che lo Statuto fu frutto di un «patto difensivo».[1] In Italia, dunque, si veniva a creare una monarchia costituzionale: uno Stato nel quale la monarchia accettava di gestire il potere insieme alla borghesia. Ma la questione sociale non veniva risolta. Anzi i movimenti di emancipazione sociale, come per esempio furono i Fasci siciliani, alla fine dell’800 vennero repressi nel sangue. Anche successivamente, nel nuovo secolo, dopo la Prima guerra mondiale, la questione sociale non venne risolta, anzi ebbe una risposta traumatica. La classe dirigente della borghesia e la stessa monarchia non trovarono di meglio che appoggiare il nascente regime fascista di Mussolini che sopì ogni sogno di emancipazione.
Dal punto di vista politico e istituzionale, il Fascismo alterò gravemente la rappresentanza con una legge elettorale, fortemente maggioritaria (legge Acerbi) e si sentì legittimato a «una vera e propria investitura di potere costituente»,[2] in ciò favorito dal fatto che lo Statuto era flessibile. Le gerarchie cattoliche romane, invece di contrastare il Fascismo, non trovarono di meglio che cercare la «Conciliazione» e firmare i Patti Lateranensi (111 febbraio 1929), proclamare Mussolini «uomo della Provvidenza» e lasciare benedire i gagliardetti della rivoluzione fascista”!
Il dibattito all’Assemblea costituente tra diversi interessi e prospettive politiche
Dopo la caduta del governo Mussolini gli uomini e le donne della Resistenza si riunirono nel Comitato di liberazione nazionale (CLN) per collaborare alla rifondazione del nuovo Stato. La prima cosa da fare, oltre a scegliere la forma istituzionale dello Stato tra Monarchia o Repubblica, era quella di darsi una nuova Costituzione, in sostituzione dello Statuto albertino. Così il 2 giugno 1946 il popolo fu chiamato alle urne, senza più distinzione di sesso, di censo o di scolarizzazione, per eleggere, con il metodo proporzionale, i 556 membri dell’Assemblea costituzionale, cioè dell’organo che avrebbe dato, dal basso, al Paese una nuova Carta fondativa per un destino e un futuro comune. Il compito di elaborare il testo della nuova Carta fu affidato dall’Assemblea costituente a una commissione di 75 membri, uomini e donne (tra questi vanno ricordati i cattolici Giseppe Dossetti e Giorgio La Pira)).
Il 4 marzo 1947 iniziò la discussione in Aula sul progetto di Costituzione redatto dalla Commissione. Ma la discussione non avvenne in un clima idilliaco, come si tende a pensare. Il dibattito fu aspro. Vi era il timore che i principi enunciati (e gli equilibri tra i poteri) rimanessero solo l’espressione nobile di «desideri». Si poteva rischiare di essere davanti a «precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi» (Piero Calamandrei). L’introduzione di un organo di garanzia come la Corte Costituzionale, inizialmente sottovalutato, avrebbe successivamente dovuto vigilare sul rispetto e sull0attuazione della Costituzione. L’esperienza storica insegna che la maggioranza tende a “saltare” le costituzioni. Così la Corte Costituzionale serviva ad annullare eventuali violazioni della Costituzione ed evitare che la maggioranza, nel tempo, potesse «diventare onnipotente».[3] Comunque ci si accordò sul carattere «programmatico» della Costituzione. Architrave di questa impostazione «programmatica» è l’articolo 3, comma 2 quando si afferma «E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Quell’articolo 3, come afferma lucidamente il magistrato Roberto Scarpinato, «era uno straordinario programma di lotta alle ingiustizie e un invito a innamorarsi al destino degli altri. La Repubblica si impegnava a porre fine a un secolare storia nazionale (…) “di servi e padroni”»[4]. Non si trattava di un ideale, come a volte si tende a credere, bensì di una vera e propria norma giuridica, programmatica, cioè da attuare sviluppandone l’applicazione di volta in volta nei diversi settori della vita! Si trattava di un progetto di società di liberi e uguali. Non era un invito a sognare. Era un invito ad operare, anzi era un programma che imponeva al legislatore ordinario futuro, ai governi futuri, scelte e azioni. Quello era ed è un programma politico che certo non a tutti e a tutte andava bene, ieri come oggi. Non è un programma che unisce genericamente (amiamoci), ma un programma che divide, perché, se attuato, va a toccare interessi e privilegi consolidati di pochi a favore di migliori condizioni di vita di molti (dignità).
Il testo costituzionale nella Seconda parte, quella riguardante l’Ordinamento della Repubblica, fu centrato sul modello parlamentare: il Parlamento al centro. Si trattava di un assetto di organi e di regole che prevedevano poteri ma anche controlli e garanzie, un insieme di “pesi e contrappesi”. La Costituzione repubblicana e democratica, infine, fu approvata nella seduta del 22 dicembre 1947; promulgata dal capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, il 27 dicembre 1947; entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Essa, è utile ricordarlo, fu così strutturata: Principi fondamentali artt. 1-12; Prima parte sui Diritti e doveri dei cittadini artt. 13-54; Seconda parte: Ordinamento della Repubblica artt. 55-139). Seguono XII Disposizioni transitorie e finali.
L’articolo 138 come metodo per modificare la Costituzione
Con l’art. 138 della stessa Costituzione si previde e si prevede la modifica costituzionale. Ma proprio quell’articolo chiede che, di norma, le modifiche siano frutto di una doppia votazione delle Camere, frutto di un accordo largo che coinvolga, nella seconda votazione, i 2/3 dei membri del Parlamento. Quell’articolo richiede, dunque, una maggioranza qualificata, cioè una rappresentanza ampia del popolo sovrano, comprensiva delle minoranze. In questo senso si parla di costituzionalismo forte. Se cambiano le regole del gioco è perché le cambiano tutti (o quasi) i giocatori!Perché la nostra Costituzione prevede, dunque, una procedura complessa o rigida? Lo fa per mantenere viva l’idea e la sostanza della Costituzione come “Patto” fra “molti” e fra “diversi”. L’articolo 138 dice sostanzialmente: Badate bene, la modifica della Costituzione, che è un bene fondativo e condiviso di un popolo e di una comunità politica, non può avvenire a colpi di maggioranza momentanee in Parlamento. L’art. 138 sottrae, dunque, la Costituzione al rischio di essere strumento o ostaggio dei gruppi politico-partitici del momento. La Costituzione è nata per farci stare insieme. Da qui il suo carattere rigido. Si può modificare, ma solo come “frutto dello stare insieme”! Il costituzionalismo, così, dice a chi detiene il potere: Stai attento, la Costituzione non può essere piegata alle proprie voglie o esigenze del momento, pur con le migliori intenzioni, perché le norme costituzionali non sono modellate per esigenze di parte.
In ogni caso, se non si rispetta quanto previsto come normale dall’articolo 138 e si approvano modifiche con maggioranze non qualificate (nella seconda “lettura” soltanto con maggioranza assoluta dei membri del Parlamento), l’articolo 138 stesso prevede, ma certo come eccezione, il ricorso ad un referendum costituzionale. Il ricorso a tale strumento referendario è una sponda non per il gioco del governo o della maggioranza non qualificata che ha approvato la modifica, bensì è una sponda per le minoranze, come limite estremo rispetto al potere della maggioranza (il referendum, è bene ricordarlo, può essere chiesto: da cinque consigli regionali, da un quinto dei membri di una Camera o da almeno 500 mila elettori ed elettrici). E’ la minoranza, è bene insistere su questo punto che, non essendo riuscita a impedire la modifica della Carta comune, si appella al popolo come ultima possibilità nella partita della democrazia. Non è al governo o alla maggioranza che è indicata la strada del ricorso al referendum (in una visione democratica) ! Durante i lavori dell’Assemblea costituente il giurista laico Piero Calamandrei aveva richiamato il fatto che il governo deve guardarsi dell’interferire nell’approvazione di norme costituzionali. Disse più o meno: «Quando l’Assemblea discuterà della Costituzione i banchi del Governo devono restare vuoti». L’accanimento dell’attuale governo di cambiare ampiamente la Costituzione, quasi 50 articoli, è incompatibile sul piano del metodo democratico con i principi del costituzionalismo moderno. Il tentativo di un governo sostenuto da una maggioranza (non qualificata), per di più eletta con la legge elettorale sbagliata (cosiddetta “Porcellum” già annullata dalla Corte Costituzionale), di arrogarsi un mandato costituente va rigettato. Solo così altre maggioranze momentanee, in futuro, non si potranno arrogare il diritto di cambiare anche loro la Carta comune come una carta di parte, a proprio piacere, certo per il “nostro bene”.
[1] G. ZAGREBELSKY – C. TRUCCO – G. BACCELLI, A scuola di diritto e di economia, Le Monnier Scuola, Milano, 2011,p.73.
[2] Lorenza CARLASSARE, Nel segno della Costituzione. La nostra carta del futuro, Feltrinelli, Milano 2012, p.35.
[3] Lorenza CARLASSARE, Nel segno della Costituzione, p.39.
[4] Roberto, SCARPINATO, “Il nostro compito è vigilare sui politici fedeli alla Carta più che alla legge”, Intervista a cura di Liliana MILELLA, in “La Repubblica” 11 maggio 2016.