Artigiani di pace
Perché la nonviolenza apre un cammino.
Una strada, difficile, ma percorribile.
Anche laddove i conflitti infuocano.
Proseguiamo il racconto del Convegno promosso da Pax Christi il 30 e 31 dicembre 2016 a Bologna, in occasione della 59° Marcia Nazionale della pace.
In quest’articolo si prosegue il resoconto del Convegno promosso da Pax Christi il 30 e 31 dicembre 2016 a Bologna, in occasione della 59° Marcia Nazionale della pace.
Anna Maria Cremonini, giornalista di Rai3 Regione Emilia Romagna, ha introdotto e moderato la seconda parte del Convegno, dal titolo 'Interventi nonviolenti in zone di conflitto'.
ANGELA DOGLIOTTI presidente del centro Studi Sereno Regis di Torino, ha dato un’ampia panoramica storica degli interventi nonviolenti in situazioni di conflitto nel mondo: dall’esercito di pace (Shanti Sena) che Gandhi aveva immaginato e proposto come forza di interposizione nonviolenta nei conflitti, fino al percorso per il riconoscimento e l’istituzione, in Italia, di un Corpo Civile di Pace, promosso dalla Campagna “Un’altra difesa è possibile”. Le tante figure ed esperienze storiche riportate dalla ricercatrice danno una forma concreta all’intervento nonviolento nei conflitti come proposta alternativa strutturale alla difesa armata. Visto che l’azione nonviolenta si basa soprattutto sugli interventi preventivi e sul controllo degli armamenti, la Dogliotti – parafrasando un monito di Bertha Von Suttner – ha concluso che, continuare a costruire e vendere armi, creando un sistema militare e scientifico orientato alla guerra, rende ovviamente difficile fare la pace, e quando la guerra scoppia diventa ancor più difficile intervenire.
Mons. MATTEO ZUPPI, vescovo di Bologna, ha raccontato, da protagonista, il difficile cammino che ha portato, negli anni Novanta, agli accordi di pace in Mozambico firmati a Roma; si è trattato di un conflitto che appariva locale, ma che tale non era. L’esperienza che, con la comunità di S. Egidio, lo vide direttamente coinvolto, ha avuto un successo tale per cui, da allora, si parla di “formula italiana”, la quale può essere riassunta in questi due principi: 1) cercare il dialogo con tutte le parti coinvolte nel conflitto: buoni e cattivi, macro e micro, l’istituzionale con il non-istituzionale (“Nel dialogo non si perde mai”), 2) cercare l’equilibrio tra l’essere “super partes” ma allo stesso tempo “in partes”, poiché solo così è possibile riuscire a capire la realtà e far emergere la comune volontà di pace. In un mondo dilaniato da una “guerra mondiale a pezzi” – secondo l’immagine di papa Francesco – il vescovo ha ricordato quanto sia importante riuscire ad essere “pezzi di pace”, “artigiani di pace” (“perché la pace è frutto di qualcosa di artigianale”), e quanto diventi importante, per prevenire i conflitti, promuovere il dialogo tra le religioni.
BERNARDO MONZANI, dell’Agency for Peacebuilding, ha riportato la sua esperienza di interventi non armati per la pace in Libia. Questa importante agenzia specializzata in peacebuilding, in Italia è stata fondata solo nel 2015; il suo approccio è prevalentemente scientifico: si tratta di ricerca, analisi e studio, per capire le ragioni di una violenza ai vari livelli, e poter sviluppare interventi che possano fermarla, tentando di modificare quei fattori che creano violenza. L’azione stessa, con i suoi successi o insuccessi, diventa oggetto di studio. L’Agenzia italiana non opera direttamente in Libia, ma attraverso il coinvolgimento dei tanti attori e organizzazioni che vi lavorano, e che sono ignorati delle politiche italiane e dai media in generale. Monzani denuncia la mancanza di un coordinamento tra tutti questi attori, quelli nazionali e quelli internazionali: non c’è dialogo, non esiste una “cooperativa” che stia sviluppando insieme un programma per la pace. Per AP l’azione più sensata è sostenere gli artigiani della pace presenti nel territorio e, con azioni di advocacy, cercare di influenzare le politiche dei governi e del governo italiano affinché cambino le attuali politiche sulla Libia, a favore di un sostegno verso queste voci, preziose per i processi di pace, ma ignorate.
CRISTINA BANZATO, ha largamente approfondito una delle esperienze di intervento nonviolento nel mondo: quella di Peace Brigades International (PBI). Nella convinzione che la soluzione ai conflitti non può essere imposta dall’esterno, ma nasce dalle parti che sono protagoniste, la specificità di PBI è quella di proteggere e dare sostegno agli attivisti che difendono, con tutte le loro forze, i diritti umani: ovunque esistono queste forze, ma purtroppo non vengono appoggiate dall'esterno perché probabilmente non servono a fare quegli interessi che solo attraverso i conflitti violenti possono ottenersi. PBI interviene nei conflitti solo su richiesta delle parti, non intende imporsi come forza “neocolonialista” della pace, perché anche con le migliori intenzioni si possono fare danni. I volontari di PBI in Guatemala si sono resi conto che la loro presenza a fianco delle persone la cui incolumità di vita era minacciata, fungevano da deterrente. Assieme ad altre strategie, quella dell'accompagnamento protettivo serve per ridurre l’asimmetria del conflitto, e dare la possibilità a persone e attivisti locali di continuare a lottare per i diritti umani. Il peso della persona straniera presente in un territorio, e dunque la sua efficacia, dipendono dall'avere alle spalle una comunità internazionale pronta a intervenire nel momento in cui succeda qualcosa. Per questo una gran parte del lavoro dell’ONG consiste nel costruire una rete di appoggio, sia negli USA che in Europa, capace di sviluppare una pressione internazionale. Altri valori e obiettivi dell’organizzazione sono: una presenza, nel paese, ‘legalmente riconosciuta’; l’autonomia (non avere finanziatori che possano condizionare); l’imparzialità (dialogare con tutti); lavorare in rete con altre organizzazioni; la diffusione di informazioni attendibili (presentare i fatti senza esprimere giudizi); la formazione, prevalentemente su diritti umani, sicurezza e autoprotezione, affinché i difensori dei diritti umani imparino a tutelarsi anche in autonomia, quando l’ONG, una volta realizzato il progetto, verrà via da quei paesi.
ALBERTO CAPANNINI, cofondatore di Operazione Colomba, cioè il corpo nonviolento di pace della comunità papa Giovanni XXIII, volontario in varie parti del mondo, ha indagato sull’essenza della nonviolenza, e ha cercato di farlo utilizzando soprattutto immagini e sensazioni. Ha esordito con la citazione di una ragazza che, in Ruanda, mentre aspettava di essere uccisa, diceva: “Se mi ami veramente, inventa qualcosa che io non posso nemmeno immaginare” (perché quello che c’è non basta, non è sufficiente). La nonviolenza viene infatti dal futuro; è come la nostalgia di qualcosa che ci appartiene ma che non abbiamo mai vissuto: è qualcosa che abbiamo intuito solamente in parte, e che dobbiamo imparare, con umiltà. La nonviolenza ci chiede di uscire da un pensiero razzista che ci porta a ritenere che la propria vita valga più di quella degli altri. La nonviolenza, infine, è anche riconciliazione. Nella riconciliazione la vittima diventa protagonista della costruzione di rapporti di forza diversa: ad esempio, Nelson Mandela, una volta al potere, non ha detto: “Adesso tocca a noi!”. La domanda è stata: “Come facciamo a guarire i bianchi dalla malattia dell’odio?”. “Bisogna andare in questi posti per cercare di capire ciò che noi non capiamo”, conclude Capannini; e grazie a quelle esperienze, poter sognare ciò che in parte abbiamo vissuto, e in grandissima parte non abbiamo ancora vissuto, ma che vive in noi come nostalgia di qualcosa di vero e reale: la nonviolenza.