In ricordo di Ettore Masina

29 giugno 2017 - La redazione

Mentre andiamo in stampa con il numero di luglio di Mosaico di pace, nel quale ospitiamo una profonda riflessione di Domenico Gallo in ricordo del “grande giurista da parte dell’umanità”, Stefano Rodotà, abbiamo appreso della morte di un altro grande maestro per tutti noi: Ettore Masina. Preghiamo per lui e vogliamo ricordarlo ripubblicando un suo articolo scritto per Mosaico di pace nel numero di marzo 2005, riservandoci di raccontare la sua grande umanità e il suo pensiero nel numero di settembre di Mosaico di pace.

La redazione

 

Mosaico di pace/marzo 2005

La differenza fondamentale

Si identificò con i poveri. Fino a chiamarli per nome. Fino a condividere le loro ingiustizie. Mons. Romero fu ammazzato per questa scelta. Breve storia di una Chiesa incarnata. Come poche altre.

Ettore Masina

 

Se rivisito i miei ricordi più emozionanti, subito torno a un pomeriggio di sole a San Salvador. È il 4 febbraio 1992. Accanto alla cattedrale, la grande Piazza Civica, luogo, sino all’altro giorno, di orrendi massacri, oggi è piena di gente che sorride. Stamattina è stato firmato l’armistizio fra governo e guerriglia. Dopo tanti anni di guerra civile (e 75 mila morti in un Paese di 5 milioni di abitanti, grande come la Toscana) le famiglie lacerate da un conflitto che sembrava insanabile vanno ricomponendosi, le divise mimetiche dei soldati e i fazzoletti rossi dei guerriglieri punteggiano la folla, gli sguardi non sono più di odio. Al tramonto, un’orchestrina comincia a suonare, coppie di giovani e meno giovani si allacciano nel ballo. Su un fianco della cattedrale è stata appesa una gigantografia dell’arcivescovo Romero, assassinato dodici anni prima, il 24 marzo 1980. Molti, anche fra i ballerini, guardano quell’immagine, sorridendo; qualcuno, passandole accanto, si fa il segno della croce. Sulla gigantografia, una scritta: “Monsignore, sei risorto nel tuo popolo”. È il compimento di una profezia, lui lo aveva detto: “Se mi uccidono, risorgerò nel popolo”.

 

I poveri e i martiri

Ho pubblicato da più di dieci anni L’arcivescovo deve morire: Monsignor Romero e il suo popolo, un lavoro che talvolta mi obbligava a mettermi in ginocchio per la luminosità della fede che dovevo descrivere, e poi ho continuato a raccogliere con amore documenti e testimonianze sulla vicenda; ma quelle parole sulla gigantografia mi sembrano il documento che meglio racchiude in sé una semplice ma straordinaria verità. I poveri non dimenticano i loro martiri. E Romero fu soprattutto "loro", dei poveri.

Questa unione dei vescovi con poveri che Dio gli ha affidato rimane spesso un’ideale quasi irraggiungibile. Il passato che grava sulle spalle della Chiesa (e che neppure il Concilio è riuscito a rimuovere completamente) ha reso difficile questa possibilità: è difficile per un teologo parlare la stessa lingua degli analfabeti, è difficile per un povero entrare in un palazzo vescovile e superare gli sbarramenti dei segretari; e poi, dopo i concordati, le "autorità" profane finiscono per cooptare i vescovi e lo stesso fanno i ricchi, magari proponendosi come benefattori. Dopo la sua conversione ai poveri Romero fece del suo pulpito un luogo sacro in cui venivano proclamate ogni domenica le storie e i nomi dei poveri, vittime della violenza dei potenti.

 

Alle radici della conversione

Che vuol dire “conversione ai poveri”?

Perché dire che Romero fu convertito dai poveri? Perché egli cominciò a leggere sine glossa, cioè senza mediazioni e senza attenuazioni, il Vangelo di Marco (XXV, 31-46) in cui Gesù annunzia la propria identificazione con i poveri (“Quello che avete fatto loro è a me che lo avete fatto”) e ammonisce che la condizione dei poveri è testimonianza, o meno, della nostra fedeltà a Lui. Ed essere fedeli a Lui significa non andare spavaldamente incontro a grandi pericoli, che sarebbe sciocco, ma neppure cedere alla prudenza mondana. Come fu convertito Romero, in questo senso? Era già un sacerdote molto pio, ma dominato da molte paure per se stesso e per la Chiesa. Diventato arcivescovo di San Salvador, una sera, venti giorni dopo il suo ingresso nella diocesi, riceve una chiamata: i fascisti al servizio dei grandi fazenderos gli hanno ucciso un prete, un gesuita di nome Rutilio Grande, che annunziava con forza il Vangelo di giustizia. Lo hanno ammazzato con due campesinos, un vecchio e un ragazzo, quasi emblemi di tre generazioni. Romero accorre nella chiesetta di campagna in cui sono stati portati i tre cadaveri. La folla trabocca dal tempio, ci sono contadini giunti da tutti i villaggi vicini. Ha scritto poi un testimone, padre Jon Sobrino: “Quel vescovo, di cui sapevo appena che era stato molto conservatore e psicologicamente debole, adesso sentiva che quelle centinaia di campesinos, inermi davanti alla repressione – quella che già subivano e quella che prevedevano – gli stavano chiedendo che li difendesse. E la risposta di Romero fu quella di diventare il loro difensore, essere la voce dei senza voce”. Da allora l’arcivescovo vedrà assassinare, spesso dopo orribili torture, sacerdoti, catechisti, suore, cari amici. Sarà tentato dalla paura, umiliato e offeso da chi avrebbe dovuto essergli vicino, calunniato a Roma, presentato come un candido sciocco “strumentalizzato dai comunisti”, accusato di complicità con la guerriglia, isolato da tanti “cristiani d’ordine e di buonsenso”. Risponderà: “La Chiesa, popolo di Dio nella storia, non si installa in alcun sistema sociale, in nessuna organizzazione politica, in nessun partito. La Chiesa non si lascia incasellare da nessuna di queste forze perché essa è l’eterna pellegrina della storia (…). I cristiani devono lavorare anche nei progetti della storia, ma non devono mai essere giocattoli nelle mani dei potenti.

 

Non vi è lecito

A 59 anni, l’età in cui normalmente negli uomini cominciano a indurirsi le vene e le idee, Romero riceve dai poveri la forza dell’inermità e della speranza. È stato definito uno “zelante pastore” ed è così: in buona parte della sua vita pastorale somiglia a certi vescovi delle “zone bianche” italiane, quelle in cui il benessere è legato alla tradizione cattolica: presiede novene, va a inaugurare corsi di cucito, assiste a rappresentazioni teatrali di bambini, ma si muove su scarpe le cui suole sono bagnate di sangue. Dovunque c’è un assassinio o addirittura un eccidio, Romero arriva a ricomporre corpi spezzati, consolare famiglie, additare responsabilità; e la domenica, in cattedrale denunzia soprusi, e grida ai governanti e ai ricchi che li esprimono un “Non ti è lecito” che ha risonanze profetiche. Condanna le violenze, tutte le violenze, ma non tace che quella dei militari e degli squadroni della morte è intenzionalmente diretta anche verso persone del tutto inermi. Arriva il momento in cui vede con certezza che lo uccideranno. Racconta nella sua ultima omelia: “Durante la settimana, mentre vado raccogliendo il grido del popolo, il dolore per così grandi delitti, l’ignominia di tanta violenza, chiedo al Signore che mi dia la parola opportuna per consolare, denunziare, chiamare a pentimento”. Una folla enorme lo ascolta e molte radio lo trasmettono. È il 23 marzo 1980 e l’arcivescovo, questa volta non eleva la sua voce soltanto contro il governo militare, si rivolge direttamente ai soldati: “Fratelli, siete del nostro stesso popolo! Ammazzate i vostri fratelli campesinos! Davanti all’ordine di uccidere dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: ‘Non uccidere’. Nessun soldato è tenuto a obbedire a un ordine che è contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno deve adempierla. È tempo che recuperiate la vostra coscienza e che obbediate alla vostra coscienza piuttosto che agli ordini del peccato. La Chiesa, che difende i diritti di Dio, la legge di Dio, la dignità umana, la persona, non può tacere davanti a tanto orrore (…). In nome di Dio, allora, di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione”. Il giorno dopo, mentre celebra la messa nella piccola chiesa di un ospedale, un sicario dell’estrema destra gli spacca il cuore con un colpo di fucile.

 

La santità di monsignore

Sono passati 25 anni e l’arcivescovo non è stato dichiarato santo, cosa che risulta incomprensibile a chi abbia indagato con amoroso rispetto la sua vita e le ragioni del suo martirio. Nel Salvador la speranza di vita è assai bassa e la maggior parte dei contemporanei di monsignor Romero se n’è andata.

 

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