Mafie

Ragazzi fuori

Intervista al dott. Roberto Di Bella, presidente del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria.
A cura di Vincenzo Sanfilippo
Fonte: Un estratto dell’intervista è pubblicato nel numero di febbraio di Mosaico di pace.

Dottor Di Bella, non so se ha avuto modo di leggere qualcosa delle riflessioni su mafia e nonviolenza iniziate nel 2003 e che ci hanno condotto a incontrarla oggi a quindici anni dall’inizio di quel lavoro.  È doveroso forse dirle cosa del suo lavoro ci ha incuriosito, i punti e i direi i “ponti” che secondo noi legano  un impegno sociale che parte da un istanza etica come quella della nonviolenza, condivisa dalla Rivista Mosaico, e l’operare di un magistrato che da più di trent’anni  lavora con minorenni, ponendosi  il problema della loro libertà, della libertà di fare delle scelte che, come si sa, può darsi solo quando ad una persona si prospettano più alternative, mentre ai ragazzi di famiglie della ndrangheta, conoscono un solo orizzonte, quello mafioso. Già in quegli anni infatti, adottando la categoria di sistema sociale mafioso come modello delle società meridionali, avevamo focalizzato la nostra riflessione su un sottosistema sociale  che avevamo definito come area di contiguità familiare a affettiva, un sottosistema fondamentale per la sopravvivenza delle mafie che agiscono violentemente sulla società: un sottosistema che è violento in primo luogo al suo interno proprio perché, nel plasmare le personalità dei minori, futuri aderenti all’organizzazione criminale, esse riducono, forse annullano, in questi soggetti più fragili, le possibilità di una vita libera e armoniosa. Mi pare che la violazione di questa libertà lo ha condotto alle pratiche di allontanamento di alcuni minori dalle famiglie mafiose. Le chiederei di riferirci un po’ di questa storia. 

La nostra esperienza nasce da un vissuto personale. Io svolgo il ruolo di giudice minorile dall’inizio della mia carriera, dal 1993. La mia prima sede è stata proprio il Tribunale peri i minorenni di Reggio Calabria, dove sono rimasto di fatto per tutta la carriera, tranne una fase di cinque anni trascorsi a Messina. Ho iniziato come uditore giudiziario in questo Tribunale e ci sono tornato nel 2011 con incarico direttivo. Questa lunghissima esperienza sullo stesso territorio, nello stesso Tribunale, mi ha consentito di avere una posizione di osservazione privilegiata sulle dinamiche del territorio. Io parto sempre da un dato statistico. Da 93 ad oggi il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria ha trattato più di 100 procedimenti per reati di criminalità organizzata, più di 50 per omicidio o tentato omicidio, tutti reati commessi da minorenni appartenenti alle storiche famiglie di ‘ndrangheta del territorio che adesso diventati adulti si trovano sottoposti al regime penitenziario duro del 41 bis, o sono latitanti, o sono stati uccisi nel corso delle faide locali, o comunque hanno la leadership della cosca di appartenenza. Negli anni abbiamo giudicato minori coinvolti in sequestri di persona a scopo di estorsione in Aspromonte negli anni 80 e 90, minori che hanno trattato partite di droga, minori che hanno commesso estorsioni che hanno esercitato il racket per conto dei familiari ristretti in carcere, minori coinvolti a pieno titolo nelle dinamiche associative, di faide; in un caso abbiamo giudicato un minore autore di sei omicidi, un rampollo di una delle più importanti famiglie di ‘ndrangheta del territorio; abbiamo processato adolescenti che si sono resi responsabili di efferati delitti, anche di rappresentanti delle forze dell’ordine: il caso più eclatante è quello che ha visto un minore coinvolto nel duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, una vicenda degli anni ’90 per la quale un minore fu condannato a trent’anni di reclusione dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria e che adesso e diventato un collaboratore di giustizia. Questa vicenda dopo le dichiarazioni del pentito Spatuzza è stata ricollocata nell’ottica della trattativa Stato-mafia. Come si può constatare sono tutti episodi gravissimi, sostanzialmente sconosciuti ai non addetti al settore e che se accaduti altrove avrebbero certamente destato maggiore allarme. Questo dato statistico, storico e legato alla mia esperienza professionale: nel 2018 ci siamo trovati a giudicare i figli di coloro che erano processati negli anni ’90, tutti appartenenti alle stesse famiglie di n’ndrangheta… stessi cognomi, stesse tipologie di reato. Se colleghiamo questo dato all’indiscusso e persistente predominio delle stesse famiglie di ‘ndrangheta sul territorio da quasi un secolo, possiamo dire che la cultura di ‘ndrangheta si eredita all’interno delle famiglie. Le famiglie di ‘ndrangheta mantengono il potere sul territorio attraverso l’indottrinamento malavitoso sistematico dei figli minori. La cultura di ‘ndrangheta è un fenomeno endemico, talvolta sommerso che per troppo tempo è stato sottovalutato. Da qui è nata l’esigenza di modificare l’orientamento giurisprudenziale, provando a censurare il modello educativo mafioso nei casi in cui mette a repentaglio il corretto sviluppo psicofisico dei minori. Noi interveniamo nello stesso modo in cui si interviene quando ci troviamo di fronte a un genitore maltrattante o alcolista o tossicodipendente. Dal 2012 stiamo adottando dei procedimenti civili di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale e, nei casi più gravi, contestuale allontanamento dei minori dal nucleo familiare. Si tratta di procedimenti che vengono adottati “caso per caso” nelle situazioni di “concreto pregiudizio” e mai in via preventiva. Attenzione: noi non allontaniamo il minore sol perché la famiglia è mafiosa. Interveniamo solo in in casi giudiziari. Queste misure si prefiggono un duplice obiettivo: assicurare adeguate tutele per assicurare una regolare crescita psico-fisica a questi sfortunati ragazzi e nel contempo offrire la chancedi sperimentare orizzonti e contesti culturali, sociali, psicologici e anche affettivi diversi da quelli che respirano nel contesto di provenienza. In sostanza, attraverso l’ausilio di assistenti sociali, educatori, psicologi, volontari antimafia come quelli di Libera, cerchiamo di far vedere a questi ragazzi che esiste un mondo diverso da quello che conoscono dove la violenza e l’omicidio non sono lo strumento ordinario di risoluzione delle questioni personali, un mondo dove vi è parità di diritti tra uomini e donne, un mondo dove le scelte, anche quelle più intime, come i fidanzamenti e i matrimoni, non devono essere imposti dalle leggi della famiglia per suggellare sodalizi malavitosi, ma dai dettami dei sentimenti e della coscienza. Inoltre cerchiamo di far capire a questi ragazzi che il carcere non è – come molti di loro pensano – una tappa di vita professionale obbligatoria o addirittura una medaglia da appuntarsi sul petto e da esibire ai capi delle organizzazioni criminali o ai loro coetanei, ma che il carcere è un luogo da evitare a tutti i costi, un cimitero vivente, un luogo di grande sofferenza. La possibilità di scegliere strade alternative alla ‘ndrangheta in certi contesti non si contempla, perché non si sa che esiste un’alternativa. Prendiamo come esempio un ragazzo proveniente da un piccolo paese della provincia calabrese, come ad esempio San Luca, Careri, Bovalino, Africo, paesi purtroppo tristemente famosi, in un contesto fortemente intriso di cultura mafiosa, un ragazzo la cui famiglia la famiglia reca in sé molti soggetti malavitosi, mettiamo che  il nonno è stato ucciso, il padre è in carcere, i fratelli sono latitanti… In un caso come questo non c’è nessuno in grado di indicare la corretta strada a questi ragazzi. In casi come questo la cultura di n’ndrangheta non è percepita come un disvalore ed è intrinseca alla tradizione alla cultura familiare. 

Un altro tema che ci ha colpito da varie sue dichiarazioni è quello di una sorta di appello che il sistema giudiziario lancia al resto del sistema sociale, in primo luogo alle agenzie educative come la scuola. Anche a noi sembra fondamentale un investimento sulle agenzie di socializzazione secondaria. Eppure l’attenzione del mondo politico e dei media, quand’anche centrato sulla lotta alla mafia, difficilmente mette in rapporto diretto le politiche scolastiche con la prevenzione del crimine organizzato. Sembra che anche quando si parla di prevenzione, sia tutto un problema di repressione, magari di intelligence, dimenticando l’importanza della rete sociale. Per evidenziare quest’assenza di collegamento lei si è riferito alla faida familiare di San Luca, sfociata nella strage di Duisburg in cui alcune famiglie per alcuni mesi non mandarono i figli a scuola per paura di ritorsioni, evidenziando che queste vistose assenze dalla scuola dell’obbligo non furono mai segnalate dagli istituti scolastici alla magistratura. Da allora è cambiato qualcosa? 

Per quel che riguarda la faida di San Luca, è vero, le famiglie contrapposte non mandarono i figli a scuola per un lungo periodo di tempo per il timore di ritorsioni. Noi lo abbiamo saputo, nel corso del processo che fu celebrato alcuni anni dopo, dai carabinieri che svolsero le indagini. Io vorrei partire da una riflessione di carattere generale: il Tribunale per i minorenni svolge un’attività di prevenzione secondaria. Noi interveniamo su situazioni che sono già patologiche. La prevenzione primaria la devono fare la Scuola e le agenzie alternative alla famiglia. Se in Calabria -ma possiamo estendere la riflessione a tutto il mezzogiorno d’Italia – esiste una cultura diffusa del malaffare, se in Calabria ci sono le stesse organizzazioni criminali che imperversano da quasi un secolo, organizzazioni criminali che sono capillari sul territorio e che condizionano pesantemente lo svolgimento delle relazioni sociali e talvolta politiche come dimostra lo scioglimento di vari consigli comunali, lo svolgimento di relazioni psicologiche, economiche, … tutto ciò vuol die che la scuola, agenzia educativa primaria, ha in parte fallito il suo compito. Ricordiamoci che la Scuola è il primo momento di contatto del minore con la società e il primo momento di assunzione di responsabilità del bambino, perché con la scuola di confronti co gli insegnanti e con una realtà esterna alla famiglia. A scuola vanno tutti: dal figlio del poliziotto al figlio del boss… Perché la Scuola ha fallito nel suo compito educativo? Perché se guardiamo i dettami della nostra Costituzione o i principi sanciti dalla Convenzione Internazionale sui diritti del fanciullo, una Convenzione dell’ONU, siglata a New York nel 1989 che è stata ratificata in Italia con legge del 91, noi vediamo che alla Scuola vengono attribuiti dei compiti ben precisi, come quello di educare il fanciullo non soltanto alla nozione ma anche al rispetto dei diritti fondamentali di libertà dell’individuo, ai principi consacrati dalla Carta delle Nazioni Unite dei valori nazionali del Paese in cui vive. L’educazione scolastica del fanciullo deve essere idonea a preparare il fanciullo ad assumere la responsabilità della vita in una società libera nel rispetto dei principi di uguaglianza, tolleranza, solidarietà, legalità. In sostanza l’educazione scolastica deve tendere a far diventare il fanciullo un membro utile delle società e a sviluppare il suo senso di responsabilità morale e sociale. Se questo non accade e non è accaduto vuol dire che anche la Scuola ha delle sue responsabilità ben precise. Qui in Calabria in questo periodo la situazione sta un po’ migliorando, però le segnalazioni relative a condotte irregolari o illecite da parte di minori appartenenti alle famiglie mafiose sono molto, molto poche. Ultimamente abbiamo avuto dei numeri in aumento, però negli anni passati ci sono state pochissime segnalazioni e questo io penso sia dettato anche dalla paura e dai condizionamenti che le organizzazioni criminali esercitano pesantemente sui territori. Anche le politiche sociali di prevenzione sui territori si sono dimostrate inadeguate rispetto alla evoluzione, o meglio all’involuzione del costume sociale e di quello criminale. Qui in Calabria, nella provincia di Reggio, su 98 comuni la metà non ha Servizio Sociale. Ad esempio San Luca, che è il paesino che ha reso tristemente famosa la Calabria in tutt’Europa con la strage di Duisburg, non ha Assistente Sociale. Fino a qualche tempo fa non esisteva nessun centro di educazione culturale; soltanto di recenteSave the Children ha istituito un “Punto luce”. Chiediamoci: tutti i ragazzi di questi paesini, che fanno? Non ci sono alternative alla famiglia, la Scuola non fa da contraltare alla famiglia e quindi il destino è veramente segnato per questi ragazzi. E poi c’è un’esigenza più amplia che è quella di migliorare le politiche sociali, occupazionali. Occorre recuperare i territori di frontiera. Io credo che sia inaccettabile che nel ventunesimo secolo ci siano in Calabria, e non solo, dei territori che sono di fatto sottratti al controllo dello Stato, in cui si entra soltanto per controlli formali e non si riesce ad evitare che si svolgano le più svariate attività illegali con il coinvolgimento di minorenni, dalla minore alla più grave. Penso al quartiere ZEN di Palermo, penso ai comuni di San Luca, di Africo, di Bovalino ai quartieri Secondigliano e Scampia di Napoli… Bisogna recuperare culturalmente questi territori di frontiera. Io penso che la sconfitta della povertà educativa dovrebbe diventare un obiettivo prioritario di tutti gli amministratori della cosa pubblica, perché la questione minorile è cruciale. Intervenendo su questo versante che è soprattutto culturale, si prosciuga il bacino su cui si alimentano e si riproducono il modello e il metodo mafioso 

Accanto alla Scuola ci sono varie esperienze associative come Libera, i Punti Luce di Save the Childrenche possono svolgere un ruolo importante. Ci può riferire sulla collaborazione di queste associazioni?

Con Libera abbiamo un rapporto strettissimo grazie ad un protocollo d’intesa che abbiamo firmato il 2 febbraio 2018 a Roma presso la sede della Procura nazionale antimafia, con il Procuratore nazionale antimafia, con il Dipartimento delle pari opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Associazione Libera. Libera fornisce un supporto logistico, psicologico, lavorativo ai minori che noi allontaniamo e anche alle mamme che decidono di andare via con i loro figli. Molte di queste mamme sono delle “dissociate”, quindi non “pentite”, non tutelate quindi da alcuna normativa. Per loro Libera ha creato una rete di accoglienza molto importante. Il lavoro che fa Libera è veramente straordinario. Molto dobbiamo a Don Ciotti, ma anche all’Avvocato Enza Rando che è un nostro referente diretto. I ragazzi vengono inviati fuori dal nostro territorio, al Centro e al Nord Italia. Vengono inseriti in comunità, ma anche presso famiglie di volontari. Se i ragazzi vanno via con le mamme, Libera le aiuta nella ricerca dell’appartamento ad inserirsi nei territori e a trovare un lavoro. Sono donne stanche che hanno subito lutti, carcerazioni e ripeto Libera sta svolgendo un lavoro encomiabile

Proviamo a soffermarci ora sui percorsi esistenziali delle persone coinvolte. Il nostro primo saggio su nonviolenza e mafia si concludeva con una domanda particolare. Ci chiedevamo allora come oggi, in riferimento al suicidio di Rita Atria, la ragazza di famiglia mafiosa di Partanna che si suicidò pochi giorni dopo l’omicidio del giudice Borsellino: se, oltre che Paolo Borsellino, Rita avesse potuto contare sul sostegno, anche a distanza, di gruppo o di una comunità (qualcosa che più completamente potesse “somigliare” ad una famiglia) avrebbe deciso ugualmente di uccidersi? In altre interviste lei ha fatto riferimento al dolore e alla sofferenza di molti ragazzi e ragazze appartenenti a famiglie mafiose. Quest’immagine ci ha colpito. Solitamente l’immagine che si ha delle famiglie mafiose è un’immagine gaudente di gente ricca, che non si fa mancare nulla, che si compiace del potere di cui dispone…

Questo a cui lei fa riferimento è un elemento nodale. Direi che è il fulcro di tutta la nostra attività. Il nostro orientamento nasce anche dall’aver constatato la sofferenza che c’è all’interno di queste famiglie, ci siamo accorti che la ‘ndrangheta provoca sofferenza non soltanto all’esterno ma soprattutto all’interno delle famiglie. Noi abbiamo adottato finora circa sessanta procedimenti per circa settanta minori e possiamo già formulare una prima conclusione che è quella che le prime vittime della ‘ndrangheta sono proprio i minori, questi ragazzi che respirano cultura mafiosa fin dalla nascita, una cultura che si sviluppa e si consolida attraverso le relazioni familiari, una cultura che attrae l’adolescente perché lo immette, senza il sacrificio dello studio senza il rispetto delle regole in un modo di disponibilità economica, di leadership tra coetanei e non solo, una cultura che distorce il rapporto con le istituzioni che sono viste in maniera pregiudiziale come nemiche. Posso segnalare che abbiamo saputo che alcuni minori si fanno tatuare sulla pianta del piede la figura del carabiniere in modo da poterla calpestare costantemente durante la loro quotidianità. Però dietro l’orgoglio dell’appartenenza alla famiglia per questi ragazzi si nasconde una realtà ben più triste e inconsapevole. La rigidità della struttura familiare, il forte dogmatismo comprime le esigenze di libertà e l’espressività dei ragazzi in crescita. Ci siamo accorti che questi ragazzi sono emotivamente soli, spesso senza un padre col quale condividere la quotidianità perché è stato ucciso o è in carcere o è latitante. Una famiglia così invasiva nel garantire certezze e regole ignora la profonda sofferenza di questi ragazzi, sofferenza che viene fuori dai report psicologici dei casi trattati. Quasi tutti i ragazzi provano un forte senso di angoscia per loro e i loro familiari, angoscia che viene fuori dai sogni che sono popolati da incubi, scene di irruzioni notturne dei carabinieri, scene di guerra, situazioni in cui il minore deve attivarsi per salvare se stesso o un proprio congiunto da un killer o da un pericolo imminente. Questi giovani sono devastati da un punto di vista psicologico, sono inibiti nei loro desideri, rifiutano informazioni esterne e relazioni al di fuori del loro ambito di provenienza. È proprio su questa sottile linea del rischio che ci stiamo muovendo che stiamo giocando questa partita che non si gioca solo sul piamo giuridico, ma si muove sul piano più ampio che è psicologico e sociale. La sofferenza dei minori è un dato che sta emergendo in modo lampante. Ma vi è pure la sofferenza delle madri. Certo ci sono donne di ‘ndrangheta che dopo la morte dei mariti o dopo la carcerazione mantengono salde le redini della famiglia e continuano l’attività di indottrinamento mafioso dei figli. Posso dire però che il novanta per cento delle madri dei ragazzi di cui ci stiamo occupando, sono donne provate dai lutti, dalle carcerazioni loro e dei loro familiari. Sta accadendo allora che, superata una prima fase, anche aspra di contrapposizione verso i nostri procedimenti, quando si rendono conto che la logica non è punitiva, che non sono procedimenti adottati contro la famiglia, ma a tutela dei minori, non si oppongono più ai percorsi rieducativi imposti dal Tribunale dei minori nei confronti dei loro figli, nella speranza inconfessata e inconfessabile di sottrarre i loro figli a un destino per i quale non hanno le forze per contrapporsi. Il paradosso è che i nostri procedimenti, anche quelli di allontanamento dei ragazzi dal nucleo familiare e dalla Calabria, sollevano queste donne dalla responsabilità di scelte educative che, assunte nel contesto in cui sono inglobate, sarebbero divisive e laceranti. Negli ultimi anni inoltre ci sono state altre evoluzioni. Diverse donne hanno iniziato un percorso di collaborazione con la giustizia, proprio in questa stanza dove parliamo, con l’obiettivo di salvare i loro figli, altre invece vengono qui, si presentano, a volte in gran segreto, ci chiedono aiuto, ci chiedono di allontanare i loro figli dalla Calabria, proprio per sottrarli ad un destino che talvolta è ineluttabile. Alcune, dopo avere espiato pene detentive per reati di mafia, vogliono andare via dalla Calabria, a volte ci chiedono aiuto per poter raggiungere i loro figli già allontanati con procedimenti tutelari del Tribunale per i minorenni. Poi stiamo assistendo al fenomeno di quelle che io ho definito “vedove bianche”: sono mogli di boss, donne di trenta, quaranta anni, giovani con figli piccoli, che hanno i mariti condannati all’ergastolo. Queste donne sono imprigionate dalle famiglie d’appartenenza: non possono più sperare di avere una vita sentimentale, di avere altre relazioni… vengono qui per i loro figli, ma in fondo anche per loro stesse, coltivando una speranza di riscatto. Quindi la sofferenza è un elemento centrale. Dobbiamo demistificare il modello e il mito mafioso: la mafia e la ‘ndrangheta portano sofferenza, soltanto sofferenza.

Queste esperienze sono un punto di grande interesse per chi si vuole accostarsi a questi fenomeni da un’ottica nonviolenta. Noi infatti abbiamo imparato che la nonviolenza si dà quando si può mirare alla coscienza dell’uomo. Tuttavia nelle narrazioni dell’universo mafioso danno di solito un’immagine di una cultura mafiosa talmente pervasiva da non consentire ai propri aderenti percorsi di trasformazione interiore, di emersione della coscienza, in modo poi del tutto particolare nella ‘ndrangheta in cui la dimensione familiare di fonde con quella mafiosa. Eppure da quello che lei ci ha detto, ci pare di essere di fronte a percorsi di travaglio interiore da parte di persone che appartengono a questo contesto. Le domando allora: è possibile che una persona appartenente a un contesto mafioso intraprenda un percorso di conversione interiore o quanto meno di distanziamento dalla propria cultura di appartenenza?

Assolutamente sta accadendo. Accade con le donne, anche con quelle condannate per mafia, sta accadendo ultimamente anche con qualche padre detenuto con il 41 bis. Qualcuno dopo anni di insulti e di minacce, comincia a scriverci, incoraggiandoci a proseguire nella strada che abbiamo intrapreso per i suoi figli, dicendoci che, se avesse avuto lui le possibilità che noi stiamo dando ai suoi figli, non si troverebbe nei luoghi di sofferenza in cui è ora. Io penso che tutti gli uomini hanno dei sentimenti genitoriali e che la conversione è possibile. Conversione non vuol dire necessariamente “pentimento” (in senso giudiziario), ma se parliamo di distacco da quell’ambiente direi proprio di sì. Quello che io dico a questi signori mi scrivono è che, anche dal carcere si può dare un contributo per l’educazione dei figli. Si può dare un senso al tempo scandito dalla pena. Chiaramente per fare questo bisogna avere degli ottimi psicologi. Noi fondiamo infatti la nostra attività sull’interlocuzione, sul dialogo. I risultati possono non essere immediati perché all’inizio c’è molta diffidenza, ci sono chiusure, sovrastrutture culturali, però io credo che con il tempo i risultati si possono ottenere e i figli sono una leva fortissima. Non tutti sono irriducibili. Penso che il carcere e il carcere duro prostri profondamente una persona. Dopo anni di carcere duro io vedo che le persone sono più fragili e i sentimenti genitoriali che per anni sono restati sopiti o celati dalla cultura mafiosa a poco a poco vengono fuori. Ripeto, questo percorso deve essere aiutato, ci vorrebbero degli psicologi formati in senso specifico, ci vorrebbero anche dei magistrati formati in senso specifico. È questa una strada che ha portato a degli ottimi risultati ne portare a risultati straordinari.

Ci sono poi delle posizioni che, pur non arrivando a forme di vero e proprio pentimento, si sostanziano in una volontà di rompere i rapporti col mondo mafioso, senza una necessaria collaborazione totale con la magistratura, qualcosa di paragonabile alla posizione di “dissociazione” che ha trovato accoglimento nella legislazione penale nel caso di reati di terrorismo, ma non in quelli di mafia. Lei pensa che sia giunto il tempo per delle norme che prendano in considerazione queste posizioni per i reati di mafia?

Io credo di sì. Una normativa che non preveda benefici penitenziari, se non limitatamente ad alcuni aspetti. Come lei sa nel regime del 41 bis, dopo il dodicesimo anno di età di un figlio, per il genitore detenuto, non è possibile più toccarlo ma solo vederlo attraverso il vetro divisorio. Io penso che un genitore che avvia un percorso di conversione, anche se non “si pente” e dà un contributo all’educazione dei suoi figli, questa regola molto dura potrebbe essere derogata, magari prevedendo degli step, con delle deroghe a tempo, verificando il comportamento del condannato e il beneficio che il suoi apporto educativo può dare ai figli. Per quanto riguarda la dissociazione abbiamo molte donne che vogliono andare via dalla Calabria ma non si sentono di entrare nelle misure speciali di protezione perché è in regime molto impegnativo che comporta molti spostamenti, il cambio del cognome, ecc. Ma soprattutto molte donne non si sentono di accusare altri familiari. Però vogliono andare via, per i loro figli, per loro stesse. Io penso che questo desiderio, questa scelta che comunque infrange il mito mafioso, a maggior ragione in Calabria dove la struttura familiare coincide con quella mafiosa, il fatto che una donna decida di andar via portando con sé i figli, dà un serio colpo alla cultura criminale che è fondato sulla famiglia. I benefici potrebbero essere quelli di dare un aiuto a queste persone che fanno queste scelte con i loro figli: un aiuto economico o delle agevolazioni...Io penso infatti che, anche se non sono in senso stretto “collaboratrici di giustizia”, esse danno un contributo importante allo sgretolamento di quel sistema. Una normativa sulla dissociazione potrebbe andar bene sotto questi profili, non certamente per avere sconti di pena. Bisognerebbe favorire l’entrata di queste donne dentro una rete di sostegno. Al momento noi questo lo facciamo con il volontariato, attraverso Libera. La rete di Libera è finanziata, attraverso il protocollo firmato nel febbraio 2018, per la metà dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e per l’atra metà dalla Conferenza Episcopale Italiana. La Chiesa ha fatto una scelta di campo. Certo sono somme piccole, il Protocollo ha una valenza solo triennale… Ci vorrebbe una legge con un finanziamento stabile e duraturo che possa aiutare queste donne nelle spese di affitto a trovare un lavoro e a ricostruire una rete relazionale. Spesso infatti parliamo di donne che non sono mai uscite dai loro paesini. Nella nostra esperienza ha grande valore la rete relazionale che garantisce un sostegno di tipo affettivo… abbiamo avuto delle famiglie che hanno accolto i minori, ma anche famiglie disposte ad affiancare i nuclei familiari che vanno via. 

I minori allontanati dove vanno? Mi pare di capire che, il più delle volte, anche per i comprensibili motivi di sicurezza, i ragazzi e in alcuni casi le loro madri, come avviene per i pentiti adulti di mafia, le persone  vengono accolte in comunità del nord Italia.  Questo trasferimenti in regioni lontane non rischiano di diminuire il potenziale trasformativo che queste esperienze possono avere su altri ragazzi dello stesso contesto? Ci sono esperienze di permanenza nella regione dove le persone hanno costruito  l’appartenenza mafiosa?

Sì ci sono esperienze di allontanamento che però permangono nella regione Calabria. Come lei ha detto c’è la necessita di una rete allargata di sostegno. Le posso dire che questa rete è in via di formazione. Non siamo all’anno zero ma si deve ancora migliorare. C’è anche bisogno di formazione: gli psicologi gli assistenti sociali, i volontari dovrebbero formarsi anche per intervenire in questa rete di sostegno di comunità.

Cosa di deve fare per far parte di questa rete?

Chi volesse far parte di questa rete può scrivere al Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria. Le domande vengono vagliate dal Servizio Sociale e i singoli, le famiglie e le associazioni sono successivamente messi in collegamento con le associazioni che già collaborano.

Su quali forze potete contare?

Qui al Tribunale di Reggio Calabria operano quattro giudici; sono pochi per le necessità così come il personale amministrativo, ma chi viene qui sa che si tratta di un territorio di frontiera e a cosa va incontro…  quindi posso dire di lavorare con personale molto motivato. Con Il Servizio sociale ministeriale , l’USSM, ci sono buoni rapporti. Purtroppo non posso dire lo stesso , a parte le dovute eccezioni, per i Servizi sociali degli Enti Locali. La gran parte dei Comuni non ha servizio sociale e inoltre. Va considerato che il clima di intimidazione è molto forte. La ‘‘ndrangheta spara e questo certo non agevola la collaborazione con il Tribunale dei Minori.

Altri Tribunali stanno adottando procedimenti analoghi a quelli del Tribunale di Reggio Calabria? 

Sì, per esempio a Napoli. Il Tribunale di Reggio ha però “messo a sistema “ questo orientamento  con i Protocolli d’Intesa, i rapporti con ….. , con il volontariato e con il Progetto “Liberi di scegliere”

Ci può parlare di questo Progetto?

Ultimamente anche la Regione Calabria ha emanato una legge importante la L.R. n. 9 del 26 aprile 2018 “Interventi regionali per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della ‘ndrangheta e per la promozione della legalità, dell’economia responsabile e della trasparenza”.Questa legge ha recepito i Protocolli e il progetto di cui si parlava prima, che abbiamo voluto chiamare “Liberi di scegliere”. Il nome del progetto rappresenta bene il nostro principale obiettivo: far vedere a questi ragazzi che esiste un mondo diverso. È infatti necessario instillare cultura, relazioni sane, ma anche affettive. A questo proposito è interessante notare che i migliori risultati li stiamo ottenendo con dei ragazzi che hanno instaurato relazioni affettive fuori dal contesto di provenienza: trovare un fidanzato o una fidanzata appartenente ad un altro mondo dà un impulso straordinario a volere cambiare. Soprattutto le ragazze, scoperta la loro libertà, non vogliono più tornare. Le donne soprattutto riscoprono i loro diritti e le loro potenzialità. Ecco il nostro lavoro consiste proprio in questo ridare consapevolezza per essere liberi di scegliere. Se poi un giovane vuole tornare a fare lo ndranghetista… libero di scegliere, ma lo farà dopo aver conosciuto altre possibilità. Mi torna in mente un libro di Saverio Lodato sul pentito Brusca. Brusca lo dice molto chiaramente: Mio padre era mafioso, mio zio era mafioso, mio nonno era mafioso… io che potevo fare? Nessuno si è mai occupato di me come persona, come bambino, nessuno mi ha mai chiesto quali aspirazioni avessi… ma forse neanch’io lo sapevo, non sapevo che potevo fare altro. Tutto questo ci dice ancora una volta che l’educazione familiare è fondamentale e se questa educazione familiare non viene contrastata dalla scuola e da altro bisogna ammettere che questi ragazzi non hanno nessun’altra possibilità. Quindi i Tribunali fanno il loro lavoro e ciò va bene ma  le strutture sociali vanno rinforzate, occorre ampliare l’offerta formativa scolastica, togliere i ragazzi dalla strada, introdurre il tempo pieno, selezionare insegnanti preparati e coraggiosi, fare educazione alla legalità, alla cittadinanza attiva responsabile,  parlare di ndrangheta, far conoscere le vittime del territorio, far vedere gli effetti disastrosi della mafia. Gli insegnanti dovrebbero saper in che contesto vanno a lavorare, dovrebbero essere assistiti da psicologi esperti in antro-psichismo mafioso, per trovare le giuste chiavi d’accesso. È importante parlare di ‘ndrangheta. Purtroppo questo è un termine che qui non usa nessuno. Se si tratta della dispersione scolastica dei Rom va bene, ma quando si tratta di atti di bullismo se non addirittura di reati di minori che appartengono a famiglie di ‘ndrangheta è difficile che ci arrivino delle segnalazioni. Cerchiamo di sopperire noi dando informazioni agli insegnanti, e con le dovete parole anche agli studenti, assecondo della loro età, raccontando noi le storie del territorio, dando nomi e cognomi degli ‘ndranghetisti e delle azioni immonde che hanno commesso fino alle uccisioni di bambini.  Per far questo necessita un progetto strutturato e non lasciato ad iniziative “spot” di qualche singolo dirigente. Stiamo lavorando su questo con il Dirigente Scolastico Regionale e Provinciale. 

Che reazione ha avuto questo orientamento giurisprudenziale è stato accolto bene o è stato osteggiato?

Inizialmente è stato contrastato. Ci hanno accusato di fare confisca dei figli, deportazioni dei minori. Adesso non è più così. Lo dimostra l’esistenza di una legge regionale che ha recepito il nostro orientamento. Diciamo che un orientamento giurisdizionale ha aperto un campo, che non è più solamente giudiziario, che si sta aprendo ad altri soggetti. Il Tribunale ha dato degli impulsi, è servito da collante nel territorio e ha dato degli stimoli alla politica, agli operatori del settore

La ringrazio, Dott. Di Bella, il nostro incontro è stato veramente rincuorante, ha riacceso in noi la speranza per un futuro diverso per il nostro sud. Sarebbe importante far conoscere questa sua esperienza in tutt’Italia…

Vi do una notizia in anteprima… “Liberi di scegliere” sarà anche il titolo di una fictionche andrà in onda su RaiUno in gennaio. La fictiontrae ispirazione dalla nostra storia, è un mix di due storie vere per non farle riconoscere… L’ambientazione è qui a Reggio Calabria a Messina in Aspromonte Abbiamo dato il nostro contributo gratuito alla sceneggiatura. È un bel film. E noi speriamo che possa “bucare” il territorio e avere un effetto domino anche su altri ragazzi e altre mamme. 

Reggio Calabria, 14 dicembre 2018, 

Intervista a cura di Enzo Sanfilippo 

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